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SULLA FRATERNITÀ E L'AMICIZIA SOCIALE
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ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE

QUERIDA AMAZONIA

LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE

Christus vivit”: un passo avanti nell’ascolto dei giovani nella Chiesa (leggi anche :"ampia sintesi")

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO NEGLI EMIRATI ARABI UNITI
(3-5 FEBBRAIO 2019)DOCUMENTO SULLA

FRATELLANZA UMANA

documento finale della XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA SINODO DEI VESCOVI :  I GIOVANI, LA FEDE E IL DISCERNIMENTO VOCAZIONALE

Misericordia et misera sono le due parole che sant’Agostino utilizza per raccontare l’incontro tra
Gesù e l’adultera (cfr Gv 8,1-11).

la pubblicazione dell'Esortazione Amoris laetitia di Papa Francesco

la nuova Enciclica del Papa (laudato sì)

Parrocchie in rete

se vuoi leggere la "BIBBIA"

 

Benvenuti nel sito di Pastorale Familiare del Decanato di Monza

 Assistente della Commissione: Don Massimo Gaio

Responsabili della Commissione di Pastorale Familiare del Decanato sono Cristina e Paolo Liverani

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ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 14 gennaio 2024

 

Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Il Vangelo oggi presenta l’incontro di Gesù con i primi discepoli (cfr Gv 1,35-42). Questa scena ci invita a fare memoria del nostro primo incontro con Gesù. Ognuno di noi ha avuto il suo primo incontro con Gesù; da bambino, da adolescente, da giovane, da adulto, adulta… Quando ho incontrato Gesù per la prima volta? Possiamo fare un po’ di memoria. E dopo questo pensiero, questo ricordo,  rinnovare la gioia di seguirlo e chiederci: che cosa significa essere discepoli di Gesù? Secondo il Vangelo di oggi possiamo prendere tre parole: cercare Gesù, dimorare con Gesù, annunciare Gesù.

Anzitutto cercare. Due discepoli, grazie alla testimonianza del Battista, cominciarono a seguire Gesù e Lui, «osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”» (v. 38). Sono le prime parole che Gesù rivolge loro: anzitutto li invita a guardarsi dentro, a interrogarsi sui desideri che portano nel cuore. “Cosa stai cercando?”. Il Signore non vuole fare proseliti, non vuole “followers” superficiali, il Signore vuole persone che si interrogano e si lasciano interpellare dalla sua Parola. Pertanto, per essere discepoli di Gesù bisogna prima di tutto cercarlo, avere un cuore aperto, in ricerca, non un cuore sazio o appagato.

Cosa cercavano quei primi discepoli? Lo vediamo attraverso il secondo verbo: dimorare. Essi non cercavano notizie o informazioni su Dio, oppure segni o miracoli, ma desideravano incontrare il Messia, parlare con Lui, stare con Lui, ascoltarlo. La prima domanda che fanno qual è?: «Dove dimori?» (v. 38). E Cristo li invita a stare con Lui: «Venite e vedrete» (v. 39). Stare con Lui, rimanere con Lui, questa è la cosa più importante per il discepolo del Signore. La fede, insomma, non è una teoria, no, è un incontro –, è andare a vedere dove abita il Signore e dimorare con Lui. Incontrare il Signore e dimorare con Lui.

Cercare, dimorare e, infine, annunciare. I discepoli cercavano Gesù, poi sono andati con Lui e sono stati tutta la serata con Lui. E adesso annunciare. Tornano e annunciano. Cercare, dimorare, annunciare. Io cerco Gesù? Dimoro in Gesù? Ho il coraggio di annunciare Gesù? Quel primo incontro con Gesù fu un’esperienza talmente forte, che i due discepoli ne ricordarono per sempre l’ora: «erano circa le quattro del pomeriggio» (v. 39). Questo fa vedere la forza di quell’incontro. E i loro cuori erano così pieni di gioia che sentirono subito il bisogno di comunicare il dono ricevuto. Infatti, uno dei due, Andrea, si affretta a condividerlo con suo fratello Pietro, e lo porta al Signore. Cercare il Signore, stare con Lui.

Fratelli e sorelle, anche noi oggi facciamo memoria del nostro primo incontro col Signore. Ognuno di noi ha avuto il primo incontro, sia in famiglia sia fuori… Quando io ho incontrato il Signore? Quando il Signore ha toccato il mio cuore? E ci chiediamo: siamo ancora discepoli innamorati del Signore, cerchiamo il Signore, oppure ci siamo accomodati in una fede fatta di abitudini? Dimoriamo con Lui nella preghiera, sappiamo stare in silenzio con Lui? Io so dimorare in preghiera con il Signore, stare in silenzio con Lui? E poi, sentiamo il desiderio di condividere, di annunciare questa bellezza dell’incontro con il Signore?

Maria Santissima, prima discepola di Gesù, ci doni il desiderio di cercarlo, di stare con Lui e di annunciarlo.

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Dopo l'Angelus

Rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini provenienti dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare saluto i membri della Hermandad Sacramental de Nuestra Señora de los Remedios, di Villarrasa (Spagna).

Non dimentichiamo di pregare per le vittime della frana avvenuta in Colombia, che ha provocato numerose vittime.

E non dimentichiamo quanti soffrono la crudeltà della guerra in tante parti del mondo, specialmente in Ucraina, in Palestina e in Israele. All’inizio dell’anno ci siamo scambiati auguri di pace, ma le armi hanno continuato ad uccidere e distruggere. Preghiamo affinché quanti hanno potere su questi conflitti riflettano sul fatto che la guerra non è la via per risolverli, perché semina morte tra i civili e distrugge città e infrastrutture. In altre parole, oggi la guerra è in sé stessa un crimine contro l’umanità. Non dimentichiamo questo: la guerra è in sé stessa un crimine contro l’umanità. I popoli hanno bisogno di pace! Il mondo ha bisogno di pace! Ho sentito, pochi minuti fa, nel programma “A Sua Immagine”, padre Faltas, Vicario della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme: lui parlava di educare alla pace. Dobbiamo educare alla pace. Si vede che non siamo ancora – l’umanità intera – con un’educazione tale da fermare ogni guerra. Preghiamo sempre per questa grazia: educare alla pace.

Auguro a tutti voi una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 12 novembre 2023

Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Il Vangelo oggi ci offre una storia che riguarda il senso della vita di ciascuno. È la parabola delle dieci vergini, chiamate a uscire incontro allo sposo (cfr Mt 25,1-13). Vivere è questo: una grande preparazione per il giorno in cui saremo chiamati a uscire incontro a Gesù! Nella parabola però, di quelle dieci vergini, cinque sono sagge e cinque stolte. Vediamo in che cosa consistono la saggezza e la stoltezza. La saggezza della vita e la stoltezza della vita.

Tutte quelle damigelle sono presenti per accogliere lo sposo, vogliono cioè incontrarlo, come anche noi desideriamo una realizzazione felice della vita: la differenza tra saggezza e stoltezza non sta dunque nella buona volontà. Nemmeno sta nella puntualità con cui si arriva all’incontro: tutte erano lì. La differenza tra le sagge e le stolte è un’altra: la preparazione. Dice il testo: le sagge «insieme alle loro lampade, presero anche l’olio» (v. 4); le stolte invece no. Ecco la differenza: l’olio. E qual è una delle caratteristiche dell’olio? Che non si vede: sta dentro le lampade, non è appariscente, ma senza di esso le lampade non danno luce.

Guardiamo a noi e vediamo che la nostra vita corre lo stesso rischio: tante volte si è molto attenti alle apparenze, l’importante è curare bene la propria immagine, fare bella figura davanti agli altri. Ma Gesù dice che la saggezza della vita sta altrove: nel curare quello che non si vede, ma è più importante, curare il cuore. La custodia della vita interiore. Vuol dire sapersi fermare per ascoltare il proprio cuore, per vigilare sui propri pensieri e sentimenti. Quante volte noi non sappiamo cosa è successo dentro il nostro cuore in quella giornata. Cosa passa dentro ognuno di noi? La saggezza vuol dire saper fare spazio al silenzio, per essere capaci di ascoltare noi e gli altri. Vuol dire saper rinunciare a un po’ di tempo passato davanti allo schermo del telefono per guardare la luce negli occhi degli altri, nel proprio cuore, nello sguardo di Dio su di noi. Vuol dire non lasciarsi intrappolare dall’attivismo, ma dedicare tempo al Signore, all’ascolto della sua Parola.

E il Vangelo ci dà il consiglio giusto per non trascurare l’olio della vita interiore, “l’olio dell’anima”: ci dice che è importante prepararlo. Nel racconto vediamo infatti che le vergini possiedono già le lampade, ma devono preparare l’olio: devono andare dai rivenditori, comprarlo, metterlo nelle lampade… (cfr vv. 7.9). Così è per noi: la vita interiore non si improvvisa, non è questione di un attimo, di una volta ogni tanto, di una volta per tutte; va preparata dedicando un po’ di tempo ogni giorno, con costanza, come si fa per ogni cosa importante.

Allora possiamo chiederci: io che cosa sto preparando in questo momento della vita? Dentro di me, che cosa sto preparando? Forse sto cercando di mettere da parte qualche risparmio, sto pensando a una casa o a un’automobile nuova, a dei progetti concreti… Sono cose buone, non sono cose brutte. Ma sto pensando anche a dedicare del tempo alla cura del cuore, alla preghiera, al servizio degli altri, al Signore che è la meta della vita? Come va insomma l’olio della mia anima? Ognuno di noi si domandi questo: come va l’olio della mia anima? Lo alimento, lo conservo bene?

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 5 novembre 2023

[Multimedia]

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

dal Vangelo della Liturgia odierna ascoltiamo alcune parole di Gesù che riguardano gli scribi e i farisei, cioè le guide religiose del popolo. Nei confronti di queste autorità, Gesù usa parole molto severe, «perché essi dicono e non fanno» (Mt 23,3) e «tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente» (v. 5). Questo è quello che dice Gesù: dicono e non fanno e tutto ciò che fanno lo fanno per apparire.

Soffermiamoci allora su questi due aspetti: la distanza tra il dire e il fare e il primato dell’esteriore sull’interiore.

La distanza tra il dire e il fare. A questi maestri di Israele, che pretendono di insegnare agli altri la Parola di Dio e di essere rispettati in quanto autorità del Tempio, Gesù contesta la doppiezza della loro vita: predicano una cosa, ma poi ne vivono un’altra. Queste parole di Gesù richiamano quelle dei profeti, in particolare di Isaia: «Questo popolo si avvicina a me solo con la sua bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13). Questo è il pericolo su cui vigilare: la doppiezza del cuore. Anche noi abbiamo questo pericolo: questa doppiezza del cuore che mette a rischio l’autenticità della nostra testimonianza e anche la nostra credibilità come persone e come cristiani.

Tutti noi sperimentiamo, per la nostra fragilità, una certa distanza tra il dire e il fare; ma un’altra cosa, invece, è avere il cuore doppio, vivere con “un piede in due scarpe” senza farcene un problema. Specialmente quando siamo chiamati – nella vita, nella società o nella Chiesa – a rivestire un ruolo di responsabilità, ricordiamoci questo: no alla doppiezza! Per un prete, un operatore pastorale, un politico, un insegnante o un genitore, vale sempre questa regola: ciò che dici, ciò che predichi agli altri, impegnati tu a viverlo per primo. Per essere maestri autorevoli bisogna prima essere testimoni credibili.

Il secondo aspetto viene di conseguenza: il primato dell’esteriore sull’interiore. Infatti, vivendo nella doppiezza, gli scribi e i farisei sono preoccupati di dover nascondere la loro incoerenza per salvare la loro reputazione esteriore. Infatti, se la gente sapesse cosa c’è davvero nel loro cuore, essi sarebbero svergognati, perdendo tutta la loro credibilità. E allora compiono opere per apparire giusti, per “salvare la faccia”, come si dice. Il trucco è molto comune: truccano la faccia, truccano la vita, truccano il cuore. Questa gente “truccata” non sa vivere la verità. E tante volte anche noi abbiamo questa tentazione della doppiezza.

Fratelli e sorelle, accogliendo questo monito di Gesù chiediamoci anche noi: cerchiamo di praticare quello che predichiamo, oppure viviamo nella doppiezza? Diciamo una cosa e ne facciamo un’altra? Siamo preoccupati solo di mostrarci impeccabili all’esterno, truccati, oppure ci prendiamo cura della nostra vita interiore nella sincerità del cuore?

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Mercoledì, 1° novembre 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, e buona festa!

Oggi celebriamo la Solennità di Tutti i Santi. Alla luce di questa festa, soffermiamoci un po’ a pensare sulla santità, in particolare su due caratteristiche della vera santità: è un dono – è un regalo, non si può comprare – e al tempo stesso è un cammino. Un dono e un cammino.

Anzitutto un dono. La santità è un dono di Dio che abbiamo ricevuto con il Battesimo: se lo lasciamo crescere, può cambiare completamente la nostra vita (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 15). I santi non sono eroi irraggiungibili o lontani, ma sono persone come noi, sono i nostri amici, il cui punto di partenza è lo stesso dono che abbiamo ricevuto noi: il Battesimo. Anzi, se ci pensiamo, sicuramente ne abbiamo incontrato qualcuno, qualche santo quotidiano, qualche persona giusta, qualche persona che vive la vita cristiana sul serio, con semplicità… sono quelli che a me piace chiamare “i santi della porta accanto”, che abitano normalmente tra di noi. La santità è un dono offerto a tutti per una vita felice. E del resto, quando riceviamo un dono, qual è la prima reazione? È proprio che siamo felici, perché vuol dire che qualcuno ci vuole bene; e il dono della santità ci fa felici perché Dio ci vuole bene.

Ma, ogni dono, però, va accolto, e porta con sé la responsabilità di una risposta, un “grazie”. Ma come si dice questo grazie? È un invito a impegnarsi perché non vada sprecato. Tutti i battezzati abbiamo ricevuto la stessa chiamata a «mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che abbiamo ricevuto» (Lumen gentium, 40). E per questo - veniamo al secondo punto – la santità è anche un cammino, un cammino da fare insieme, aiutandoci a vicenda, uniti a quegli ottimi compagni di cordata che sono i Santi.

Sono i nostri fratelli, le nostre sorelle maggiori, su cui possiamo contare sempre: i santi ci sostengono e, quando nel cammino sbagliamo strada, con la loro presenza silenziosa non mancano di correggerci; sono amici sinceri, di cui ci possiamo fidare, perché loro desiderano il nostro bene. Nella loro vita troviamo un esempio, nella loro preghiera riceviamo aiuto e amicizia, e con loro ci stringiamo in un vincolo di amore fraterno.

La santità è un cammino, è un dono. Allora possiamo chiederci: mi ricordo di aver ricevuto in dono lo Spirito Santo, che mi chiama alla santità e mi aiuta ad arrivarci? Io ringrazio lo Spirito Santo per questo, per il dono della santità? Sento vicini i santi, parlo con loro, mi rivolgo a loro? Conosco la storia di alcuni di essi? Ci fa bene conoscere le vite dei santi e lasciarci muovere dai loro esempi. E ci fa tanto bene rivolgerci a loro nella preghiera.

CELEBRAZIONE DELLA SANTA MESSA PER LA COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Rome War Cemetery
Giovedì, 2 novembre 2023

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La celebrazione di un giorno come quello di oggi ci porta a due pensieri: memoria e speranza.

Memoria di coloro che ci hanno preceduto, che hanno trascorso la loro vita, che hanno concluso questa vita; memoria di tanta gente che ci ha fatto del bene: in famiglia, tra gli amici... E memoria anche di coloro che non sono riusciti a fare tanto bene, ma sono stati ricevuti nella memoria di Dio, nella misericordia di Dio. È il mistero della grande misericordia del Signore.

E poi speranza. Quella di oggi è una memoria per guardare avanti, per guardare il nostro cammino, la nostra strada. Noi camminiamo verso un incontro, con il Signore e con tutti. E dobbiamo chiedere al Signore questa grazia della speranza: la speranza che mai delude mai; la speranza, che è la virtù di tutti i giorni che ci porta avanti, ci aiuta a risolvere dei problemi e a cercarne le vie d’uscita. Ma sempre avanti, avanti. Quella speranza feconda, quella virtù teologale di tutti i giorni, di tutti i momenti: la chiamerò la virtù teologale “della cucina”, perché è alla mano e ci viene sempre in aiuto. La speranza che non delude: viviamo in questa tensione fra memoria e speranza.

Vorrei soffermarmi su una cosa che mi è accaduta all’entrata. Guardavo l’età di questi caduti. La maggioranza è tra i 20 e i 30 anni. Vite stroncate, vite senza futuro. E ho pensato ai genitori, alle mamme che ricevevano quella lettera: “Signora, ho l’onore di dirle che lei ha un figlio eroe”. “Sì, eroe, ma me l’hanno tolto!”. Tante lacrime in quelle vite stroncate. E non potevo non pensare alle guerre di oggi. Anche oggi succede lo stesso: tante persone giovani e non più giovani… Nelle guerre del mondo, anche in quelle più vicine a noi, in Europa e al di fuori: quanti morti! Si distrugge la vita senza averne coscienza.

Oggi, pensando ai morti, custodendo la memoria dei morti e custodendo la speranza, chiediamo al Signore la pace, perché la gente non si uccida più nelle guerre. Tanti innocenti morti, tanti soldati che vi lasciano la vita. Ma questo, perché? Le guerre sono sempre una sconfitta, sempre. Non c’è vittoria totale, no. Sì, uno vince sull’altro, ma dietro c’è sempre la sconfitta del prezzo pagato. Preghiamo il Signore per i nostri defunti, per tutti, per tutti: che il Signore li riceva tutti. E preghiamo anche perché il Signore abbia pietà di noi e ci dia speranza: la speranza di andare avanti e di poterli trovare tutti insieme con Lui, quando ci chiamerà. Così sia.

 

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Mercoledì, 1° novembre 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, e buona festa!

Oggi celebriamo la Solennità di Tutti i Santi. Alla luce di questa festa, soffermiamoci un po’ a pensare sulla santità, in particolare su due caratteristiche della vera santità: è un dono – è un regalo, non si può comprare – e al tempo stesso è un cammino. Un dono e un cammino.

Anzitutto un dono. La santità è un dono di Dio che abbiamo ricevuto con il Battesimo: se lo lasciamo crescere, può cambiare completamente la nostra vita (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 15). I santi non sono eroi irraggiungibili o lontani, ma sono persone come noi, sono i nostri amici, il cui punto di partenza è lo stesso dono che abbiamo ricevuto noi: il Battesimo. Anzi, se ci pensiamo, sicuramente ne abbiamo incontrato qualcuno, qualche santo quotidiano, qualche persona giusta, qualche persona che vive la vita cristiana sul serio, con semplicità… sono quelli che a me piace chiamare “i santi della porta accanto”, che abitano normalmente tra di noi. La santità è un dono offerto a tutti per una vita felice. E del resto, quando riceviamo un dono, qual è la prima reazione? È proprio che siamo felici, perché vuol dire che qualcuno ci vuole bene; e il dono della santità ci fa felici perché Dio ci vuole bene.

Ma, ogni dono, però, va accolto, e porta con sé la responsabilità di una risposta, un “grazie”. Ma come si dice questo grazie? È un invito a impegnarsi perché non vada sprecato. Tutti i battezzati abbiamo ricevuto la stessa chiamata a «mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che abbiamo ricevuto» (Lumen gentium, 40). E per questo - veniamo al secondo punto – la santità è anche un cammino, un cammino da fare insieme, aiutandoci a vicenda, uniti a quegli ottimi compagni di cordata che sono i Santi.

Sono i nostri fratelli, le nostre sorelle maggiori, su cui possiamo contare sempre: i santi ci sostengono e, quando nel cammino sbagliamo strada, con la loro presenza silenziosa non mancano di correggerci; sono amici sinceri, di cui ci possiamo fidare, perché loro desiderano il nostro bene. Nella loro vita troviamo un esempio, nella loro preghiera riceviamo aiuto e amicizia, e con loro ci stringiamo in un vincolo di amore fraterno.

La santità è un cammino, è un dono. Allora possiamo chiederci: mi ricordo di aver ricevuto in dono lo Spirito Santo, che mi chiama alla santità e mi aiuta ad arrivarci? Io ringrazio lo Spirito Santo per questo, per il dono della santità? Sento vicini i santi, parlo con loro, mi rivolgo a loro? Conosco la storia di alcuni di essi? Ci fa bene conoscere le vite dei santi e lasciarci muovere dai loro esempi. E ci fa tanto bene rivolgerci a loro nella preghiera.

Maria, Regina di tutti i Santi, ci faccia sentire la gioia del dono ricevuto e accresca in noi il desiderio della meta eterna.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 29 ottobre 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo oggi ci parla del più grande dei comandamenti (cfr Mt 22,34-40). Un dottore della legge interroga Gesù in proposito e Lui risponde con il “grande comandamento dell’amore”: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente [… e] il tuo prossimo come te stesso» (vv. 37.39). Amore di Dio e del prossimo, inseparabili l’uno dall’altro. Fermiamoci un po’ a riflettere su questo.

Il primo: il fatto che l’amore per il Signore viene prima ci ricorda che Dio sempre ci precede, ci anticipa con la sua tenerezza infinita (cfr 1 Gv 4,19), con la sua vicinanza, con la sua misericordia, perché Lui sempre è vicino, tenero e misericordioso. Un bambino impara ad amare sulle ginocchia della mamma e del papà, e noi lo facciamo tra le braccia di Dio. Dice il Salmo: «Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (131,2), così noi dobbiamo sentirci tra le braccia di Dio. E lì assorbiamo l’affetto del Signore, lì incontriamo l’amore che ci spinge a donarci con generosità. Lo ricorda San Paolo, quando dice che la carità di Cristo ha in sé una forza che spinge ad amare (cfr 2 Cor 5,14). E tutto parte da Lui. Tu non puoi amare sul serio gli altri se non hai questa radice che è l’amore di Dio, l’amore di Gesù.

E ora il secondo aspetto che traspare dal comandamento dell’amore. Esso lega l’amore per Dio a quello per il prossimo: significa che, amando i fratelli, noi riflettiamo, come specchi, l’amore del Padre. Riflettere l’amore di Dio, ecco il punto; amare Lui, che non vediamo, attraverso il fratello che vediamo (cfr 1 Gv 4,20). Un giorno Santa Teresa di Calcutta, a un giornalista che le chiedeva se, con quello che faceva, si illudesse di cambiare il mondo, rispose: «Io non ho mai pensato di poter cambiare il mondo! Ho cercato soltanto di essere una goccia di acqua pulita, nella quale potesse brillare l’amore di Dio» (Incontro con i giornalisti dopo il conferimento del Premio Nobel per la Pace, Roma, 1979). Ecco come lei, tanto piccola, ha potuto fare un bene così grande: riflettendo come una goccia l’amore di Dio. E se a volte, guardando lei e altri santi, ci venisse da pensare che siano degli eroi inimitabili, ripensiamo a questa piccola goccia: l’amore è una goccia che può cambiare tante cose. E come si fa, questo? Facendo il primo passo, sempre. A volte non è facile fare il primo passo, dimenticare cose…, fare il primo passo. Facciamolo! Questa è la goccia: fare il primo passo.

Allora, cari fratelli e sorelle, pensando all’amore di Dio che sempre ci precede, possiamo chiederci: io sono grato al Signore, che mi ama per primo? Sento l’amore di Dio e sono grato a Lui? E cerco di riflettere il suo amore? Mi impegno ad amare i fratelli, a fare questo secondo passo?

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 22 ottobre 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna ci racconta che alcuni farisei si uniscono agli erodiani per tendere una trappola a Gesù. Sempre cercavano di tendergli delle trappole. Vanno da Lui e gli chiedono: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Mt 22,17). È un inganno: se Gesù legittima la tassa, si mette dalla parte di un potere politico mal sopportato dal popolo, mentre se dice di non pagarla può essere accusato di ribellione contro l’impero. Una vera trappola. Egli però sfugge a questa insidia. Chiede di mostrargli una moneta, che porta impressa l’immagine di Cesare, e dice loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v. 21). Che cosa significa questo?

Queste parole di Gesù sono diventate di uso comune, ma a volte sono state utilizzate in modo sbagliato – o almeno riduttivo – per parlare dei rapporti tra Chiesa e Stato, tra cristiani e politica; spesso vengono intese come se Gesù volesse separare “Cesare” e “Dio”, cioè la realtà terrena e quella spirituale. A volte anche noi pensiamo così: una cosa è la fede con le sue pratiche e un’altra cosa la vita di tutti i giorni. E questo non va. Questa è una “schizofrenia”, come se la fede non avesse nulla a che fare con la vita concreta, con le sfide della società, con la giustizia sociale, con la politica e così via.

In realtà, Gesù vuole aiutarci a collocare “Cesare” e “Dio” ciascuno nella sua importanza. A Cesare – cioè alla politica, alle istituzioni civili, ai processi sociali ed economici – appartiene la cura dell’ordine terreno; e noi, che in questa realtà siamo immersi, dobbiamo restituire alla società quanto ci offre attraverso il nostro contributo di cittadini responsabili, avendo attenzione a quanto ci viene affidato, promuovendo il diritto e la giustizia nel mondo del lavoro, pagando onestamente le tasse, impegnandoci per il bene comune, e così via. Allo stesso tempo, però, Gesù afferma la realtà fondamentale: che a Dio appartiene l’uomo, tutto l’uomo e ogni essere umano. E ciò significa che noi non apparteniamo a nessuna realtà terrena, a nessun “Cesare” di turno. Siamo del Signore e non dobbiamo essere schiavi di nessun potere mondano. Sulla moneta, dunque, c’è l’immagine dell’imperatore, ma Gesù ci ricorda che nella nostra vita è impressa l’immagine di Dio, che niente e nessuno può oscurare. A Cesare appartengono le cose di questo mondo, ma l’uomo e il mondo stesso appartengono a Dio: non dimentichiamolo!

Comprendiamo allora che Gesù sta riportando ciascuno di noi alla propria identità: sulla moneta di questo mondo c’è l’immagine di Cesare, ma tu – io, ognuno di noi – quale immagine porti dentro di te? Facciamoci questa domanda: io, quale immagino porto dentro di me? Tu, di chi sei immagine nella tua vita? Ci ricordiamo di appartenere al Signore, oppure ci lasciamo plasmare dalle logiche del mondo e facciamo del lavoro, della politica, dei soldi i nostri idoli da adorare?

La Vergine Santa ci aiuti a riconoscere e onorare la nostra dignità e quella di ogni essere umano.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 1° ottobre 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo parla di due figli, ai quali il padre chiede di andare a lavorare nella vigna (cfr Mt 21,28-32). Uno di loro risponde subito “sì”, ma poi non ci va. L’altro invece, dice di no, ma poi si pente e va.

Che dire di questi due comportamenti? Viene subito da pensare che andare a lavorare nella vigna richiede sacrificio e che sacrificarsi costa, non viene spontaneo, pur nella bellezza di sapersi figli ed eredi. Ma il problema qui non è tanto legato alla resistenza ad andare a lavorare nella vigna, ma alla sincerità o meno di fronte al padre e di fronte a sé stessi. Se infatti nessuno dei due figli si comporta in modo impeccabile, uno mente, mentre l’altro sbaglia, ma resta sincero.

Guardiamo al figlio che dice “sì”, ma poi non va. Egli non vuole fare la volontà del padre, ma non vuole nemmeno mettersi a discuterne e parlarci. Così si nasconde dietro a un “sì”, dietro a un finto assenso, che nasconde la sua pigrizia e per il momento gli salva la faccia, è un ipocrita. Se la cava senza conflitti, però raggira e delude suo padre, mancandogli di rispetto in un modo peggiore di quanto non avrebbe fatto con uno schietto “no”. Il problema di un uomo che si comporta così è che non è solo un peccatore, ma un corrotto, perché mente senza problemi per coprire e camuffare la sua disubbidienza, senza accettare alcun dialogo o confronto onesto.

L’altro figlio, quello che dice “no” ma poi va, è invece sincero. Non è perfetto, ma sincero. Certo, ci sarebbe piaciuto vederlo dire subito “sì”. Non è così ma, per lo meno, manifesta in modo schietto e in un certo senso coraggioso la sua riluttanza. Si assume, cioè, la responsabilità del suo comportamento e agisce alla luce del sole. Poi, con questa onestà di fondo, finisce col mettersi in discussione, arrivando a capire di avere sbagliato e tornando sui suoi passi. È, potremmo dire, un peccatore, ma non un corrotto. Sentite bene questo: questo è un peccatore, ma non è un corrotto. E per il peccatore c’è sempre speranza di redenzione; per il corrotto, invece, è molto più difficile. Infatti i suoi falsi “sì”, le sue parvenze eleganti ma ipocrite e le sue finzioni diventate abitudini sono come uno spesso “muro di gomma”, dietro al quale si ripara dai richiami della coscienza. E questi ipocriti fanno tanto male! Fratelli e sorelle, peccatori sì – lo siamo tutti –, corrotti no! Peccatori sì, corrotti no!

Guardiamo ora a noi stessi e, alla luce di tutto questo, poniamoci qualche interrogativo. Di fronte alla fatica di vivere una vita onesta e generosa, di impegnarmi secondo la volontà del Padre, sono disposto a dire “sì” ogni giorno, anche se costa? E quando non ce la faccio, sono sincero nel confrontarmi con Dio sulle mie difficoltà, le mie cadute, le mie fragilità? E quando dico “no”, poi torno indietro? Parliamo con il Signore di questo. Quando sbaglio, sono disposto a pentirmi e a tornare sui miei passi? Oppure faccio finta di niente e vivo indossando una maschera, preoccupandomi solo di apparire bravo e per bene? In definitiva, sono un peccatore, come tutti, oppure c’è in me qualcosa di corrotto? Non dimenticatevi: peccatori sì, corrotti no.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 24 settembre 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna ci presenta una parabola sorprendente: il padrone di una vigna esce dalle prime ore dell’alba fino a sera per chiamare alcuni operai ma, alla fine, paga tutti allo stesso modo, anche quelli che hanno lavorato soltanto un’ora (cfr Mt 20,1-16). Sembrerebbe un’ingiustizia, ma la parabola non va letta attraverso criteri salariali; piuttosto, ci vuole mostrare i criteri di Dio, che non fa il calcolo dei nostri meriti, ma ci ama come figli.

Soffermiamoci su due azioni divine che emergono dal racconto. In primo luogo Dio esce a tutte le ore per chiamarci; secondo ripaga tutti con la stessa “moneta”.

Anzitutto, Dio è Colui che esce a tutte le ore per chiamarci. La parabola dice che il padrone «uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna» (v. 1), ma poi continua a uscire a varie ore della giornata fino al tramonto, per cercare quelli che nessuno aveva ancora preso a lavorare. Comprendiamo così che nella parabola i lavoratori non sono soltanto gli uomini, ma soprattutto Dio, che esce sempre, senza stancarsi, tutto il giorno. Così è Dio: non aspetta i nostri sforzi per venirci incontro, non ci fa un esame per valutare i nostri meriti prima di cercarci, non si arrende se tardiamo a rispondergli; al contrario, Lui stesso ha preso l’iniziativa e in Gesù è “uscito” verso di noi, per manifestarci il suo amore. E ci cerca a tutte le ore del giorno che, come afferma San Gregorio Magno, rappresentano le diverse fasi e stagioni della nostra vita fino alla vecchiaia (cfr Omelie sul Vangelo, 19). Per il suo cuore non è mai troppo tardi, Egli ci cerca e ci aspetta sempre. Non dimentichiamo questo: il Signore ci cerca e ci aspetta sempre, sempre!

Proprio perché è così largo di cuore, Dio – è la seconda azione – ripaga tutti con la stessa “moneta”, che è il suo amore. Ecco il senso ultimo della parabola: gli operai dell’ultima ora vengono pagati come i primi perché, in realtà, quella di Dio è una giustizia superiore. Va oltre. La giustizia umana dice di “dare a ciascuno il suo, secondo quanto merita”, mentre la giustizia di Dio non misura l’amore sulla bilancia dei nostri rendimenti, delle nostre prestazioni o dei nostri fallimenti: Dio ci ama e basta, ci ama perché siamo figli, e lo fa con un amore incondizionato un amore gratuito.

Fratelli e sorelle, a volte rischiamo di avere una relazione “mercantile” con Dio, puntando più sulla nostra bravura che sulla sua generosità e la sua grazia. A volte anche come Chiesa, invece che uscire a ogni ora del giorno e allargare le braccia a tutti, possiamo sentirci i primi della classe, giudicando gli altri lontani, senza pensare che Dio ama anche loro con lo stesso amore che ha per noi. E anche nelle nostre relazioni, che sono il tessuto della società, la giustizia che pratichiamo a volte non riesce a uscire dalla gabbia del calcolo e ci limitiamo a dare secondo quanto riceviamo, senza osare qualcosa in più, senza scommettere sull’efficacia del bene fatto gratuitamente e dell’amore offerto con larghezza di cuore. Fratelli, sorelle, chiediamoci: io cristiano, io cristiana, so uscire verso gli altri? Sono generoso, sono generosa verso tutti, so dare quel “di più” di comprensione, di perdono, come Gesù ha fatto con me e fa tutti i giorni con me?

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 17 settembre 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo ci parla di perdono (cfr Mt 18,21-35). Pietro chiede a Gesù: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?» (v. 21).

Sette, nella Bibbia, è un numero che indica completezza, e dunque Pietro è molto generoso nei presupposti della sua domanda. Ma Gesù va oltre e gli risponde: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (v. 22). Gli dice, cioè, che quando si perdona non si calcola, che è bene perdonare tutto e sempre! Proprio come fa Dio con noi, e come è chiamato a fare chi amministra il perdono di Dio: perdonare sempre. Io questo lo dico tanto ai sacerdoti, ai confessori: perdonate sempre come perdona Dio.

Gesù illustra poi questa realtà attraverso una parabola, che ha sempre a che fare con dei numeri. Un re, dopo esser stato pregato, condona a un servo il debito di 10.000 talenti: è un valore esagerato, immenso, che oscilla tra le 200 e le 500 tonnellate d’argento: esagerato. Era un debito impossibile da saldare, anche lavorando una vita intera: eppure quel padrone, che richiama il Padre nostro, lo condona per pura «compassione» (v. 27). Questo è il cuore di Dio: perdona sempre perché Dio è compassionevole. Non dimentichiamo com’è Dio: è vicino, compassionevole e tenero; così è il modo di essere di Dio. Poi, però, questo servo, al quale è stato rimesso il debito, non usa alcuna misericordia nei riguardi di un compagno che gli deve 100 denari. Anche questa è una cifra consistente, equivalente a circa tre mesi di stipendio – come a dire che perdonarci tra noi costa! –, ma per nulla paragonabile alla cifra precedente, che il padrone aveva condonato.

Il messaggio di Gesù è chiaro: Dio perdona in modo incalcolabile, eccedendo ogni misura. Lui è così, agisce per amore e per gratuità. Dio non si compra, Dio è gratuito, è tutto gratuità. Noi non possiamo ripagarlo ma, quando perdoniamo il fratello o la sorella, lo imitiamo. Perdonare non è dunque una buona azione che si può fare o non fare: perdonare è una condizione fondamentale per chi è cristiano. Ognuno di noi, infatti, è un “perdonato” o una “perdonata”: non dimentichiamo questo, noi siamo perdonati, Dio ha dato la vita per noi e in nessun modo potremo compensare la sua misericordia, che Egli non ritira mai dal cuore. Però, corrispondendo alla sua gratuità, cioè perdonandoci a vicenda, gli possiamo dare testimonianza, seminando vita nuova attorno a noi. Fuori del perdono, infatti, non c’è speranza; fuori del perdono non c’è pace. Il perdono è l’ossigeno che purifica l’aria inquinata dall’odio, il perdono è l’antidoto che risana i veleni del rancore, è la via per disinnescare la rabbia e guarire tante malattie del cuore che contaminano la società.

Domandiamoci, allora: io credo di aver ricevuto da Dio il dono di un perdono immenso? Avverto la gioia di sapere che Lui è sempre pronto a perdonarmi quando cado, anche quando gli altri non lo fanno, anche quando nemmeno io riesco a perdonare me stesso? Lui perdona: credo che Lui perdona? E poi: so perdonare a mia volta chi mi ha fatto del male? A questo proposito, vorrei proporvi un piccolo esercizio: proviamo, adesso, ciascuno di noi, a pensare a una persona che ci ha ferito, e chiediamo al Signore la forza di perdonarla. E perdoniamola per amore del Signore: fratelli e sorelle, questo ci farà bene, ci restituirà la pace nel cuore.

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN MONGOLIA

[31 agosto - 4 settembre 2023]

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE

“Steppe Arena” (Ulaanbaatar)
Domenica, 3 settembre 2023

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Con le parole del Salmo abbiamo pregato: «O Dio, […] ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 63,2). Questa stupenda invocazione accompagna il viaggio della nostra vita, in mezzo ai deserti che siamo chiamati ad attraversare. E proprio in questa terra arida ci raggiunge una buona notizia: nel nostro cammino non siamo soli; le nostre aridità non hanno il potere di rendere sterile per sempre la nostra vita; il grido della nostra sete non rimane inascoltato. Dio Padre ha mandato il suo Figlio a donarci l’acqua viva dello Spirito Santo per dissetare la nostra anima (cfr Gv 4,10). E Gesù – lo abbiamo appena ascoltato nel Vangelo – ci mostra la via per essere dissetati: è la via dell’amore, che Lui ha percorso fino in fondo, fino alla croce, e sulla quale ci chiama a seguirlo “perdendo la vita per ritrovarla” nuova (cfr Mt 16,24-25).

Soffermiamoci insieme su questi due aspetti: la sete che ci abita e l’amore che ci disseta.

Anzitutto, siamo chiamati a riconoscere la sete che ci abita. Il salmista grida a Dio la propria arsura perché la sua vita assomiglia a un deserto. Le sue parole hanno una risonanza particolare in una terra come la Mongolia: un territorio immenso, ricco di storia, una terra piena di cultura, ma anche segnato dall’aridità della steppa e del deserto. Tanti di voi sono abituati alla bellezza e alla fatica del camminare, azione che richiama un aspetto essenziale della spiritualità biblica, rappresentato dalla figura di Abramo e, più in generale, proprio del popolo d’Israele e di ogni discepolo del Signore: tutti, tutti noi infatti, siamo “nomadi di Dio”, pellegrini alla ricerca della felicità, viandanti assetati d’amore. Il deserto evocato dal salmista si riferisce, dunque, alla nostra vita: siamo noi quella terra arida che ha sete di un’acqua limpida, di un’acqua che disseta in profondità; è il nostro cuore che desidera scoprire il segreto della vera gioia, quella che anche in mezzo alle aridità esistenziali, può accompagnarci e sostenerci. Sì, ci portiamo dentro una sete inestinguibile di felicità; siamo alla ricerca di un significato e una direzione della nostra vita, di una motivazione per le attività che portiamo avanti ogni giorno; e soprattutto siamo assetati di amore, perché è solo l’amore che ci appaga davvero, che ci fa stare bene – l’amore ci fa stare bene –, che ci apre alla fiducia facendoci gustare la bellezza della vita. Cari fratelli e sorelle, la fede cristiana risponde a questa sete; la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati: no! Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi.

E veniamo così al secondo aspetto: l’amore che ci disseta. Primo era la nostra sete, esistenziale, profonda, e adesso pensiamo all’amore che ci disseta. Questo è il contenuto della fede cristiana: Dio, che è amore, nel suo Figlio Gesù si è fatto vicino a te, a me, a tutti noi, desidera condividere la tua vita, le tue fatiche, i tuoi sogni, la tua sete di felicità. È vero, a volte ci sentiamo come una terra deserta, arida e senz’acqua, ma è altrettanto vero che Dio si prende cura di noi e ci offre l’acqua limpida e dissetante, l’acqua viva dello Spirito che sgorgando in noi ci rinnova liberandoci dal pericolo della siccità. Quest’acqua ce la dona Gesù. Come afferma Sant’Agostino, «se ci riconosceremo nell’assetato, ci riconosceremo anche nel dissetato» (Sul Salmo 62, 3). Infatti, se tante volte nella nostra vita sperimentiamo il deserto, la solitudine, la fatica, la sterilità, non dobbiamo però dimenticare questo: «Affinché non veniamo meno in questo deserto – aggiunge Agostino – Dio ci irrora con la rugiada della sua Parola […]. Ci fa, sì, provare la sete ma poi viene ad appagarla. […] Dio ha avuto misericordia di noi e ha aperto per noi una via nel deserto: il Signore nostro Gesù Cristo», e questa è la via nel deserto della vita. «E ci ha procurato una consolazione nel deserto: i predicatori della sua Parola. Ci ha offerto dell’acqua nel deserto, ricolmando di Spirito Santo i suoi predicatori affinché si formasse in essi una fonte di acqua che sale fino alla vita eterna» (ibid., 3.8). Queste parole, carissimi, richiamano la vostra storia: nei deserti della vita e nella fatica di essere una comunità piccola, il Signore non vi fa mancare l’acqua della sua Parola, specialmente attraverso i predicatori e i missionari che, unti dallo Spirito Santo, ne seminano la bellezza. E la Parola sempre, sempre ci riporta all’essenziale, all’essenziale della fede: lasciarsi amare da Dio per fare della nostra vita un’offerta d’amore. Perché solo l’amore ci disseta veramente. Non dimentichiamo: solo l’amore disseta veramente.

È ciò che Gesù, nel Vangelo di oggi, dice con tono forte all’apostolo Pietro. Questi non accetta il fatto che Gesù dovrà soffrire, essere accusato dai capi del popolo, attraversare la passione e poi morire sulla croce. Pietro reagisce, Pietro protesta, vorrebbe convincere Gesù che si sbaglia, perché secondo lui – e così spesso pensiamo anche noi – il Messia non può finire sconfitto, assolutamente non può morire crocifisso, come un malfattore abbandonato da Dio. Ma il Signore rimprovera Pietro, perché questo suo modo di pensare è “secondo il mondo”, dice il Signore, e non secondo Dio (cfr Mt 16,21-23). Se pensiamo che a dissetare le arsure della nostra vita bastino il successo, il potere, le cose materiali, questa è una mentalità mondana, che non porta a nulla di buono e, anzi, ci lascia più aridi di prima. Gesù invece ci indica la via: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25).

Fratelli, sorelle, la via migliore di tutte è questa: abbracciare la croce di Cristo. Al cuore del cristianesimo c’è questa notizia sconvolgente, notizia straordinaria: quando perdi la tua vita, quando la offri con generosità in servizio, quando la rischi impegnandola nell’amore, quando ne fai un dono gratuito per gli altri, allora essa ti ritorna in abbondanza, riversa dentro di te una gioia che non passa, una pace del cuore, una forza interiore che ti sostiene. E abbiamo bisogno di pace interiore.

Questa è la verità che Gesù ci invita a scoprire, che Gesù vuole svelare a voi tutti, a questa terra di Mongolia: non serve essere grandi, ricchi o potenti per essere felici: no! Solo l’amore ci disseta il cuore, solo l’amore guarisce le nostre ferite, solo l’amore ci dà la vera gioia. E questa è la via che Gesù ci ha insegnato e ha aperto per noi.

Anche noi, fratelli e sorelle, allora ascoltiamo la parola che il Signore dice a Pietro: «Va’ dietro a me» (Mt 16,23), vale a dire: diventa mio discepolo, fai la stessa strada che faccio io e non pensare più secondo il mondo. Allora, con la grazia di Cristo e dello Spirito Santo, potremo camminare sulla via dell’amore. Anche quando amare significa rinnegare sé stessi, lottare contro gli egoismi personali e mondani, correre il rischio di vivere la fraternità. Perché se è vero che tutto ciò costa fatica e sacrificio e a volte significa dover salire sulla croce, è ancora più vero che quando perdiamo la vita per il Vangelo, il Signore ce la dona in abbondanza, piena di amore e di gioia, per l’eternità.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 20 agosto 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo narra l’incontro di Gesù con una donna cananea, al di fuori del territorio d’Israele (cfr Mt 15,21-28). Ella gli chiede di liberare sua figlia, tormentata da un demonio, ma il Signore non le presta ascolto. Lei insiste, e i discepoli gli consigliano di esaudirla perché la smetta, ma Gesù spiega che la sua missione è destinata ai figli d’Israele, e usa questa immagine: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». E la donna, coraggiosa, risponde: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le dice: «“Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita» (vv. 26-28). Bella storia questa! E questo è successo a Gesù.

Vediamo che Gesù cambia il suo atteggiamento, e a farlo cambiare è la forza della fede di quella donna. Soffermiamoci allora brevemente su questi due aspetti: il cambiamento di Gesù e la fede della donna.

Il cambiamento di Gesù. Egli stava rivolgendo la sua predicazione al popolo eletto; poi, lo Spirito Santo avrebbe spinto la Chiesa ai confini del mondo. Ma qui avviene, potremmo dire, un’anticipazione, per cui, nell’episodio della donna cananea, già si manifesta l’universalità dell’opera di Dio. È interessante questa disponibilità di Gesù: di fronte alla preghiera della donna “anticipa i piani”, davanti al suo caso concreto diventa ancor più condiscendente e compassionevole. Dio è così: è amore, e chi ama non resta rigido. Sì, resta fermo, ma non rigido. Non resta rigido sulle proprie posizioni, ma si lascia smuovere e commuovere; sa cambiare i suoi programmi. L’amore è creativo, e noi cristiani, se vogliamo imitare Cristo, siamo invitati alla disponibilità del cambiamento. Quanto bene fa nei nostri rapporti, ma anche nella vita di fede, essere docili, prestare davvero ascolto, intenerirci in nome della compassione e del bene altrui, come Gesù ha fatto con la Cananea. La docilità per cambiare. Cuori docili per cambiare.

Guardiamo allora alla fede della donna, che il Signore loda, dicendo che è «grande» (v. 28). Ai discepoli sembra grande solo la sua insistenza, ma Gesù vede la fede. Se ci pensiamo, quella donna straniera probabilmente conosceva poco, o per nulla, le leggi e i precetti religiosi di Israele. In che consiste allora la sua fede? Essa non è ricca di concetti, ma di fatti: la Cananea si avvicina, si prostra, insiste, intrattiene un dialogo serrato con Gesù, supera ogni ostacolo pur di parlargli. Ecco la concretezza della fede, che non è un’etichetta religiosa, ma un rapporto personale con il Signore. Quante volte si cade nella tentazione di confondere la fede con un’etichetta! La fede della donna non è fatta di galateo teologico, ma di insistenza: bussa alla porta, bussa, bussa; non è fatta di parole, ma di preghiera. E Dio non resiste quando è pregato. Perciò ha detto: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7).

Fratelli e sorelle, alla luce di tutto questo possiamo farci alcune domande. A partire dal cambiamento di Gesù, per esempio: io sono capace di cambiare opinione? So essere comprensivo, e so essere compassionevole o rimango rigido sulle mie posizioni? Nel mio cuore c’è qualche rigidità? Che non è fermezza: la rigidità è brutta, la fermezza è buona. E a partire dalla fede della donna: com’è la mia fede? Si ferma a concetti e parole, o è veramente vissuta, con la preghiera e le azioni? So dialogare con il Signore, so insistere con Lui, o mi accontento di recitare qualche bella formula? La Madonna ci renda disponibili al bene e concreti nella fede.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Martedì, 15 agosto 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, solennità dell’Assunzione della Vergine Maria, contempliamo lei che sale in anima e corpo alla gloria del Cielo. Anche il Vangelo odierno ce la presenta mentre sale, questa volta verso una «regione montuosa» (Lc 1,39). E sale perché? Per aiutare la cugina Elisabetta, e là proclama il cantico gioioso del Magnificat. Maria sale e la Parola di Dio ci rivela ciò che la caratterizza mentre va verso l’alto: il servizio al prossimo e la lode a Dio. Ambedue le cose: Maria è la donna del servizio al prossimo e Maria è la donna che loda Dio. L’evangelista Luca, del resto, narra la vita stessa di Cristo come una salita verso l’alto, verso Gerusalemme, luogo del dono di sé sulla croce, e allo stesso modo descrive anche il cammino di Maria. Gesù e Maria percorrono insomma la stessa strada: due vite che salgono in alto, glorificando Dio e servendo i fratelli. Gesù come Redentore, che dà la vita per noi, per la nostra giustificazione; Maria come la serva che va a servire: due vite che vincono la morte e risorgono; due vite i cui segreti sono il servizio e la lode. Soffermiamoci su questi due aspetti: servizio e lode.

Il servizio. È quando ci abbassiamo a servire i fratelli che andiamo in alto: è l’amore che eleva la vita. Andiamo a servire i fratelli e con questo servizio andiamo “in alto”. Ma servire non è facile: la Madonna, che ha appena concepito, percorre quasi 150 chilometri per raggiungere, da Nazaret, la casa di Elisabetta. Aiutare costa, a tutti noi. Lo sperimentiamo sempre nella fatica, nella pazienza e nelle preoccupazioni che il prendersi cura degli altri comporta. Pensiamo, ad esempio, ai chilometri che tanti percorrono ogni giorno per andare e tornare dal lavoro e svolgere molte mansioni a favore del prossimo; pensiamo ai sacrifici di tempo e di sonno per accudire un neonato o un anziano; e all’impegno nel servire chi non ha da ricambiare, nella Chiesa come nel volontariato. Io ammiro il volontariato. È faticoso, ma è salire verso l’alto, è guadagnare il Cielo! Questo è servizio vero.

Però il servizio rischia di essere sterile senza la lode a Dio. Infatti, quando Maria entra in casa della cugina, loda il Signore. Non parla della sua stanchezza per il viaggio, ma dal cuore le prorompe un cantico di giubilo. Perché chi ama Dio conosce la lode. E il Vangelo oggi ci mostra “una cascata di lode”: il bambino sussulta di gioia nel grembo di Elisabetta (cfr Lc 1,44), la quale pronuncia parole di benedizione e “la prima beatitudine”: «Beata colei che ha creduto» (Lc 1,45); e tutto culmina in Maria, che proclama il Magnificat (cfr Lc 1,46-55). La lode aumenta la gioia. La lode è come una scala: porta in alto i cuori. La lode eleva gli animi e vince la tentazione di abbattersi. Avete visto che la gente noiosa, quella che vive del chiacchiericcio, è incapace di lodare? Domandatevi: io sono capace di lodare? Quanto fa bene lodare ogni giorno Dio, e anche gli altri! Quanto fa bene vivere di gratitudine e di benedizione anziché di rimpianti e lamentele, alzare lo sguardo verso l’alto invece che tenere il muso lungo! Le lamentele: c’è gente che si lamenta tutti i giorni. Ma guarda che Dio è vicino a te, guarda che ti ha creato, guarda le cose che ti ha dato. Loda, loda! E questo è salute spirituale.

Servizio e lode. Proviamo a interrogarci: io vivo il lavoro e le occupazioni quotidiane con spirito di servizio o con egoismo? Mi dedico a qualcuno gratuitamente, senza ricercare vantaggi immediati? Faccio insomma del servizio il “trampolino di lancio” della mia vita? E pensando alla lode: so, come Maria, esultare in Dio (cfr Lc 1,47)? Prego benedicendo il Signore? E, dopo averlo lodato, diffondo la sua gioia tra le persone che incontro? Ognuno cerchi di rispondere a queste domande.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 13 agosto 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo narra un particolare prodigio di Gesù: Egli, di notte, cammina sulle acque del lago di Galilea incontro ai discepoli che stanno compiendo la traversata in barca (cfr Mt 14,22-33). Ci domandiamo: perché Gesù ha fatto questo? Come uno spettacolo? No! Ma perché? Forse per una necessità urgente e imprevedibile, per soccorrere i suoi che si trovano bloccati dal vento contrario? No, perché è stato Lui a programmare tutto, a farli partire di sera, persino – dice il testo – “costringendoli” (cfr v. 22). Forse per dare loro una dimostrazione di grandezza e di potenza? Ma questo non è da Lui che è così semplice. Allora, perché lo ha fatto? Perché ha voluto camminare sulle acque?

Dietro al camminare sulle acque c’è un messaggio non immediato, un messaggio da cogliere per noi. A quel tempo, infatti, le grandi distese d’acqua erano ritenute sedi di forze maligne non dominabili dall’uomo; specialmente se agitati dalla tempesta gli abissi erano simbolo del caos e richiamavano le oscurità degli inferi. Ora, i discepoli si trovano nel mezzo del lago al buio: in loro c’è la paura di affondare, di essere risucchiati dal male. E qui arriva Gesù, che cammina sulle acque, cioè sopra le forze del male, Lui cammina sopra le forze del male e dice ai suoi: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (v. 27). È tutto un messaggio che Gesù ci dà. Ecco il senso del segno: le potenze maligne, che ci spaventano e non riusciamo a dominare, con Gesù vengono immediatamente ridimensionate. Lui, camminando sulle acque, vuole dirci: “Non avere paura, io metto sotto i piedi i tuoi nemici” – bel messaggio: “io metto sotto i piedi i tuoi nemici” –: non le persone!, non sono quelle i nemici, ma la morte, il peccato, il diavolo: questi sono i nemici della gente, i nostri nemici. E Gesù questi nemici li calpesta per noi.

Cristo oggi ripete a ciascuno di noi: “Coraggio, sono io, non avere paura!”. Coraggio, cioè, perché ci sono io, perché non sei più solo nelle acque agitate della vita. E allora, che cosa fare quando ci troviamo in mare aperto e in balia di venti contrari? Cosa fare nella paura, che è un mare aperto, quando si vede solo buio e ci sentiamo perduti? Dobbiamo fare due cose, che nel Vangelo fanno i discepoli. Cosa fanno i discepoli? Invocano e accolgono Gesù. Nei momenti più brutti, più bui, di tempesta, invocare Gesù e accogliere Gesù.

I discepoli invocano Gesù: Pietro cammina un po’ sulle acque verso Gesù, ma poi si spaventa, affonda e allora grida: «Signore, salvami!» (v. 30). Invoca Gesù, chiama Gesù. È bella questa preghiera, con la quale si esprime la certezza che il Signore può salvarci, che Lui vince il nostro male e le nostre paure. Vi invito a ripeterla adesso tutti insieme: Signore, salvami! Insieme, tre volte: Signore salvami, Signore salvami, Signore salvami!

E poi i discepoli accolgono. Prima invocano, poi accolgono Gesù nella barca. Dice il testo che, appena salito a bordo, «il vento cessò» (v. 32). Il Signore sa che la barca della vita, così come la barca della Chiesa, è minacciata da venti contrari e che il mare su cui navighiamo è spesso agitato. Lui non ci preserva dalla fatica del navigare, anzi – il Vangelo lo sottolinea – spinge i suoi a partire: ci invita, cioè, ad affrontare le difficoltà, perché anch’esse diventino luoghi di salvezza, poiché Gesù le vince, diventino occasioni per incontrare Lui. Egli, infatti, nei nostri momenti di buio ci viene incontro, chiedendo di essere accolto, come quella notte sul lago.

Domandiamoci dunque: nelle paure, nelle difficoltà, come mi comporto? Vado avanti da solo, con le mie forze, o invoco il Signore con fiducia? E come va la mia fede? Credo che Cristo è più forte delle onde e dei venti avversi? Ma soprattutto: navigo con Lui? Lo accolgo, gli faccio posto nella barca della mia vita – mai solo, sempre con Gesù –, gli affido il timone?

Maria, Madre di Gesù, Stella del mare, ci aiuti a cercare, nelle traversate oscure, la luce di Gesù.

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN PORTOGALLO
IN OCCASIONE DELLA
XXXVII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ

[2 - 6 AGOSTO 2023]

ANGELUS

“Parque Tejo” (Lisbona)
Festa della Trasfigurazione del Signore, Domenica, 6 agosto 2023

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Cari Fratelli e sorelle,

una parola è risuonata tante volte in questi giorni: “grazie”, o meglio, “obrigado”. È molto bello quanto ci ha appena detto il Patriarca di Lisbona, ovvero che obrigado non esprime solo gratitudine per ciò che si è ricevuto, ma anche il desiderio di ricambiare il bene. In questo evento di grazia, tutti noi abbiamo ricevuto e ora il Signore ci fa sentire il bisogno, tornando a casa, di condividere con gli altri, testimoniando la gioia, la gratuità di Dio, e quello che Dio ci ha messo nel cuore.

Prima però di inviarvi desidero dire anch’io obrigado. Anzitutto al Cardinale Clemente, e con Lui alla Chiesa e all’intero popolo portoghese, obrigado. Obrigado al Signor Presidente, che ci ha accompagnato negli eventi di questi giorni. Obrigado alle Istituzioni nazionali e locali per il sostegno e l’assistenza forniti. Obrigado ai Vescovi, ai sacerdoti, ai consacrati e ai laici. Y obrigado a te, Lisbona, che rimarrai nella memoria di questi giovani come “casa di fraternità” e “città di sogni”! Tanta gratitudine esprimo poi al Cardinal Farrell, che è ringiovanito in queste Giornate, e a coloro che hanno preparato queste Giornate, così come a quanti le hanno accompagnate con la preghiera. Obrigado ai volontari, ai quali va l’applauso di cuore per il grande servizio svolto! Un ringraziamento speciale a chi ha vegliato sulla GMG dall’alto, cioè ai Santi patroni dell’evento: uno su tutti, Giovanni Paolo II, che ha dato vita alle Giornate Mondiali della Gioventù.

E obrigado a tutti voi, cari giovani! Dio vede tutto il bene che siete, Lui solo conosce quello che ha seminato nei vostri cuori. Voi andate via da qui con quello che Dio ha seminato nel cuore: fatelo crescere, custoditelo con cura. Vorrei farvi una raccomandazione: fatene memoria, fissate nella mente e nel cuore i momenti più belli, perché così, quando arriverà qualche momento di fatica e scoraggiamento – che è inevitabile –, e magari la tentazione di fermarvi nel cammino o di chiudervi in voi stessi, con il ricordo ravvivate le esperienze e la grazia di questi giorni, perché – non dimenticatelo mai – questa è la realtà, questo siete voi: il santo Popolo fedele di Dio che cammina nella gioia del Vangelo! Mi piacerebbe anche inviare un saluto ai giovani che non hanno potuto essere qui, ma hanno partecipato a iniziative organizzate dai loro Paesi, dalle Conferenze episcopali, dalle Diocesi; penso, ad esempio, ai fratelli e alle sorelle subsahariani riuniti a Tangeri. A tutti grazie, grazie!

In particolare, accompagniamo con l’affetto e la preghiera coloro che non sono potuti venire a causa di conflitti e di guerre. Nel mondo sono tante le guerre, sono molti i conflitti. Pensando a questo continente, provo grande dolore per la cara Ucraina, che continua a soffrire molto. Amici, permettete anche a me, ormai vecchio, di condividere con voi giovani un sogno che porto dentro: è il sogno della pace, il sogno di giovani che pregano per la pace, vivono in pace e costruiscono un avvenire di pace. Attraverso l’Angelus mettiamo nelle mani di Maria, Regina della pace, il futuro dell’umanità.  

E c’è un ultimo obrigado che vorrei sottolineare alla fine: obrigado alle nostre radici, ai nostri nonni, che ci hanno trasmesso la fede, che ci hanno trasmesso l’orizzonte di una vita. Sono le nostre radici. E, tornando a casa, continuate a pregare per la pace. Voi siete un segno di pace per il mondo, una testimonianza di come le diverse nazionalità, le lingue, le storie possono unire anziché dividere. Siete speranza di un mondo diverso. Grazie di questo. Avanti!

E alla fine c’è un momento che tutti aspettano: l’annuncio della prossima tappa del cammino. Prima di dirvi la sede della quarantunesima GMG, vi rivolgo un invito. Do appuntamento ai giovani di tutto il mondo nel 2025 a Roma, per celebrare insieme il Giubileo dei giovani! Vi aspetto nel 2025 per celebrare insieme il Giubileo dei giovani. E la prossima Giornata Mondiale della Gioventù avrà luogo in Asia: sarà in Corea del Sud, a Seoul! Così, nel 2027, dal confine occidentale dell’Europa si sposterà in estremo Oriente: è questo un bel segno dell’universalità della Chiesa e del sogno di unità di cui voi siete testimoni!

Infine, un ultimo obrigado, lo rivolgiamo a due persone speciali, ai protagonisti principali di questo incontro. Sono stati qui con noi, ma sono sempre con noi, non perdono di vista le nostre vite, amano le nostre vite come nessun altro: obrigado a Te, Signore Gesù; obrigado a te, Madre nostra Maria. E ora preghiamo insieme.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 30 luglio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo racconta la parabola di un mercante in cerca di perle preziose. Questi, dice Gesù, «trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,46). Fermiamoci un poco sui gesti di questo mercante, il quale dapprima cerca, poi trova e infine compra.

Primo gesto: cercare. Si tratta di un mercante intraprendente, che non sta fermo ma esce di casa e si mette in cerca di perle preziose. Non dice: “Mi bastano quelle che ho”, ne cerca di più belle. E questo è un invito per noi a non chiuderci nell’abitudinarietà, nella mediocrità di chi si accontenta, ma a ravvivare il desiderio, perché il desiderio di cercare, di andare avanti non si spenga; a coltivare sogni di bene, a cercare la novità del Signore, perché il Signore non è ripetitivo, sempre porta novità, la novità dello Spirito, sempre fa nuove le realtà della vita (cfr Ap 21,5). E noi dobbiamo avere questo atteggiamento: cercare.

Il secondo gesto del mercante è trovare. Egli è una persona accorta, che “ha occhio” e sa riconoscere una perla di grande valore. Questo non è facile. Pensiamo, ad esempio, agli affascinanti bazar orientali, dove i banchi, colmi di merci, sono assiepati lungo le pareti di strade piene di gente; oppure ad alcune bancarelle che si vedono in tante città, piene di libri e di oggetti vari. A volte in questi mercati, se ci si ferma a guardare bene, si possono scoprire dei tesori: cose preziose, volumi rari che, mescolati a tutto il resto, a prima vista non si notano. Ma il mercante della parabola ha un occhio attento e sa trovare, sa “discernere” per trovare la perla. Anche questo è un insegnamento per noi: ogni giorno, a casa, per strada, al lavoro, in vacanza, abbiamo la possibilità di scorgere del bene. Ed è importante saper trovare ciò che conta: allenarci a riconoscere le gemme preziose della vita e a distinguerle dalle cianfrusaglie. Non sprechiamo il tempo e la libertà per cose da niente, passatempi che ci lasciano vuoti dentro, mentre la vita ci offre ogni giorno la perla preziosa dell’incontro con Dio e con gli altri! È necessario saperla riconoscere: discernere per trovarla.

E ultimo gesto del mercante: compra la perla. Resosi conto del suo immenso valore, vende tutto, sacrifica ogni bene pur di averla. Cambia radicalmente l’inventario del suo magazzino; non c’è più niente se non quella perla: è la sua unica ricchezza, il senso del suo presente e del suo futuro. Anche questo è un invito per noi. Ma che cos’è questa perla per la quale si può rinunciare a tutto, quella di cui ci parla il Signore? Questa perla è Lui stesso, è il Signore! Cercare il Signore e trovare il Signore, incontrare il Signore, vivere con il Signore. La perla è Gesù: Lui è la perla preziosa della vita, da cercare, trovare e far propria. Vale la pena investire tutto su di Lui perché, quando si incontra Cristo, la vita cambia. Se incontri Cristo ti cambia la vita.

Riprendiamo allora i tre gesti del mercante – cercare, trovare, comprare – e facciamoci qualche domanda. Cercare: io, nella mia vita, sono in ricerca? Mi sento a posto, arrivato, mi accontento, oppure alleno il mio desiderio di bene? Sono in “pensione spirituale”? Quanti giovani sono in pensione! Secondo gesto, trovare: mi esercito a discernere ciò che è buono e viene da Dio, sapendo rinunciare a ciò che invece mi lascia poco o nulla? Infine, comprare: so spendermi per Gesù? Lui per me è al primo posto, è il bene più grande della vita? Sarebbe bello dirgli oggi: “Gesù, Tu sei il mio bene più grande”. Ognuno nel cuore lo dica ora: “Gesù, Tu sei il mio bene più grande”. Maria ci aiuti a cercare, trovare e abbracciare Gesù con tutto noi stessi.

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ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 23 luglio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo oggi ci offre la parabola del grano e della zizzania (cfr Mt 13,24-43). Un agricoltore, che ha sparso del buon seme nel suo campo, scopre che un nemico di notte vi ha seminato zizzania, una pianta dall’aspetto molto simile al grano, ma infestante.

In questo modo Gesù parla del nostro mondo, che in effetti è come un grande campo, dove Dio semina grano e il maligno zizzania, e perciò crescono insieme bene e male. Il bene e il male crescono insieme. Lo vediamo dalle cronache, nella società, e anche in famiglia e nella Chiesa. E quando, assieme al buon grano, scorgiamo erbe cattive, ci viene voglia di strapparle via subito, di fare “piazza pulita”. Ma il Signore oggi ci avverte che è una tentazione fare questo: non si può creare un mondo perfetto e non si può fare il bene distruggendo sbrigativamente ciò che non va, perché questo sortisce effetti peggiori: si finisce – come si dice – col “gettar via il bambino insieme all’acqua sporca”.

C’è però un secondo campo dove possiamo fare pulizia: il campo del nostro cuore, l’unico su cui possiamo intervenire direttamente. Anche lì ci sono grano e zizzania, anzi è proprio da lì che tutt’e due si espandono nel grande campo del mondo. Fratelli e sorelle, il nostro cuore, infatti, è il campo della libertà: non è un laboratorio asettico, ma uno spazio aperto e perciò vulnerabile. Per coltivarlo come si deve, bisogna da una parte prendersi cura con costanza dei delicati germogli del bene, dall’altra individuare e sradicare le piante infestanti, nel momento giusto. Allora guardiamoci dentro ed esaminiamo un po’ ciò che succede, cosa sta crescendo in me, cosa cresce in me di bene e di male. C’è un bel metodo per farlo: quello che si chiama l’esame di coscienza, che è vedere cosa è successo oggi nella mia vita, cosa ha colpito il mio cuore e quali decisioni ho preso. E questo serve proprio a verificare, alla luce di Dio, dove ci sono le erbe cattive e dove il seme buono.

Dopo il campo del mondo e il campo del cuore c’è un terzo campo. Lo possiamo chiamare il campo del vicino. Sono le persone che frequentiamo ogni giorno e che spesso giudichiamo. Come ci è facile riconoscere la loro zizzania, come ci piace “spellare” gli altri! E quanto è difficile invece sapervi vedere il buon grano che cresce! Ricordiamoci però che, se vogliamo coltivare i campi della vita, è importante ricercare anzitutto l’opera di Dio: imparare a vedere negli altri, nel mondo e in sé stessi la bellezza di quanto il Signore ha seminato, il grano baciato dal sole con le sue spighe dorate. Fratelli e sorelle, chiediamo la grazia di saperlo scorgere in noi, ma anche negli altri, cominciando da chi ci sta vicino. Non è uno sguardo ingenuo, è uno sguardo credente, perché Dio, agricoltore del grande campo del mondo, ama vedere il bene e farlo crescere fino a fare della mietitura una festa!

Allora anche oggi possiamo porci alcune domande. Pensando al campo del mondo: so vincere la tentazione di “fare di ogni erba un fascio”, di fare piazza pulita degli altri con i miei giudizi? Poi, pensando al campo del cuore: sono onesto nel ricercare in me le piante cattive e deciso nel gettarle nel fuoco della misericordia di Dio? E, pensando al campo del vicino: ho la sapienza di vedere ciò che è buono senza scoraggiarmi per i limiti e le lentezze altrui?

La Vergine Maria ci aiuti a coltivare con pazienza ciò che il Signore semina nel campo della vita, nel mio campo, in quello del vicino, nel campo di tutti.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 16 luglio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo ci presenta la parabola del seminatore (cfr Mt 13,1-23). Quella della “semina” è un’immagine molto bella, e Gesù la usa per descrivere il dono della sua Parola. Immaginiamo un seme: è piccolo, quasi non si vede, ma fa crescere piante che portano frutti. La Parola di Dio è così; pensiamo al Vangelo, un piccolo libro, semplice e alla portata di tutti, che produce vita nuova in chi lo accoglie. Dunque, se la Parola è il seme, noi siamo il terreno: possiamo riceverla oppure no. Però Gesù, “buon seminatore”, non si stanca di seminarla con generosità. Conosce il nostro terreno, sa che i sassi della nostra incostanza e le spine dei nostri vizi (cfr vv. 21-22) possono soffocare la Parola, eppure spera, spera sempre che noi possiamo portare frutto abbondante (cfr v. 8).

Così fa il Signore e così siamo chiamati a fare anche noi: a seminare senza stancarci. Ma come si può fare questo, seminare continuamente senza stancarci? Facciamo qualche esempio.

Anzitutto i genitori: essi seminano il bene e la fede nei figli, e sono chiamati a farlo senza scoraggiarsi se a volte questi sembrano non capirli e non apprezzare i loro insegnamenti, o se la mentalità del mondo “rema contro”. Il seme buono resta, questo è ciò che conta, e attecchirà a tempo opportuno. Ma se, cedendo alla sfiducia, rinunciano a seminare e lasciano i figli in balia delle mode e del cellulare, senza dedicare loro tempo, senza educarli, allora il terreno fertile si riempirà di erbacce. Genitori, non stancatevi di seminare nei figli!

Guardiamo poi ai giovani: anche loro possono seminare il Vangelo nei solchi della quotidianità. Ad esempio con la preghiera: è un piccolo seme che non si vede, ma con il quale si affida a Gesù tutto quello che si vive, e così Lui può farlo maturare. Ma penso anche al tempo da dedicare agli altri, a chi ha più bisogno: può sembrare perso, invece è tempo santo, mentre le soddisfazioni apparenti del consumismo e dell’edonismo lasciano le mani vuote. E penso allo studio: è vero, è faticoso e non subito appagante, come quando si semina, ma è essenziale per costruire un futuro migliore per tutti.

Abbiamo visto i genitori, abbiamo visto i giovani; adesso vediamo i seminatori di Vangelo, molti bravi sacerdoti, religiosi e laici impegnati nell’annuncio, che vivono e predicano la Parola di Dio spesso senza registrare successi immediati. Non dimentichiamo mai, quando annunciamo la Parola, che anche dove sembra non succeda nulla, in realtà lo Spirito Santo è all’opera e il regno di Dio sta già crescendo, attraverso e oltre i nostri sforzi. Perciò, avanti con gioia, cari fratelli e sorelle! Ricordiamo le persone che hanno posto il seme della Parola di Dio nella nostra vita – ognuno di noi pensi: “come è incominciata la mia fede?” –; magari è germogliato anni dopo che abbiamo incontrato i loro esempi, ma è successo proprio grazie a loro!

Alla luce di tutto questo possiamo domandarci: io semino del bene? Mi preoccupo solo di raccogliere per me o anche di seminare per gli altri? Getto qualche seme di Vangelo nella vita di tutti i giorni: studio, lavoro, tempo libero? Mi scoraggio o, come Gesù, continuo a seminare, anche se non vedo risultati immediati? Maria, che oggi veneriamo come Beata Vergine del Monte Carmelo, ci aiuti ad essere seminatori generosi e gioiosi della Buona Notizia.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 9 luglio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo riporta una preghiera molto bella di Gesù, che si rivolge al Padre dicendo: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Ma di quali cose sta parlando Gesù? E poi, chi sono questi piccoli, a cui tali cose sono rivelate? Soffermiamoci su questo: sulle cose per cui Gesù loda il Padre e sui piccoli che le sanno accogliere.

Le cose per cui Gesù loda il Padre. Poco prima il Signore ha ricordato alcune sue opere: «I ciechi riacquistano la vista […] i lebbrosi sono purificati, […] ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5), e ne ha rivelato il significato, dicendo che sono i segni dell’agire di Dio nel mondo. Il messaggio allora è chiaro: Dio si rivela liberando e risanando l’uomo - non dimentichiamo questo: Dio si rivela liberando e risanando l’uomo -, e lo fa con un amore gratuito, un amore che salva. Per questo Gesù loda il Padre, perché la sua grandezza consiste nell’amore e non agisce mai al di fuori dell’amore. Ma questa grandezza nell’amore non è compresa da chi presume di essere grande e si fabbrica un dio a propria immagine: potente, inflessibile, vendicativo. In altre parole, questi presuntuosi non riesceono ad accogliere Dio come Padre; chi è pieno di sé, orgoglioso, preoccupato solo dei propri interessi - questi sono i presuntuosi -, convinto di non aver bisogno di nessuno. Gesù nomina, al riguardo, gli abitanti di tre città ricche del tempo, Corazìn, Betsàida e Cafarnao, dove ha compiuto molte guarigioni, ma i cui abitanti sono rimasti indifferenti alla sua predicazione. Per loro i miracoli sono stati solo eventi spettacolari, utili per far notizia e alimentare le chiacchiere: esaurito l’interesse passeggero, li hanno archiviati, magari per occuparsi di qualche altra novità del momento. Non hanno saputo accogliere le grandi cose di Dio.

I piccoli, invece, le sanno accogliere e Gesù loda il Padre per loro: “Ti benedico” – dice – perché hai rivelato il Regno dei Cieli ai piccoli. Lo loda per i semplici, che hanno il cuore libero dalla presunzione e dall’amor proprio. I piccoli sono quelli che, come i bambini, si sentono bisognosi e non autosufficienti, sono aperti a Dio e si lasciano stupire dalle sue opere. Loro sanno leggere i suoi segni, meravigliarsi per i miracoli del suo amore! Domando ad ognuno di voi, anche a me: sappiamo meravigliarci delle cose di Dio o le prendiamo come cose passeggere?

Fratelli e sorelle, la nostra vita, se ci pensiamo, è piena di miracoli: è piena di gesti d’amore, segni della bontà di Dio. Di fronte ad essi, però, anche il nostro cuore può restare indifferente e diventare abitudinario, curioso incapace di stupirsi, di lasciarsi “impressionare”. Un cuore chiuso, un cuore blindato, e questo non ha la capacità di stupirsi. Impressionare è un bel verbo che fa venire in mente la pellicola di un fotografo. Ecco l’atteggiamento giusto davanti alle opere di Dio: fotografare nella mente le sue opere, perché si imprimano nel cuore, per poi svilupparle nella vita, attraverso tanti gesti di bene, così che la “fotografia” di Dio-amore diventi sempre più luminosa in noi e attraverso di noi.

E ora chiediamoci, ognuno di noi: nella marea di notizie che ci sommerge, io, come ci mostra Gesù oggi, so fermarmi sulle grandi cose di Dio, quelle che Dio compie? Mi lascio meravigliare come un bambino dal bene, che silenziosamente cambia il mondo, oppure ho perso la capacità di meravigliarmi? E benedico il Padre ogni giorno per le sue opere? Maria, che ha esultato nel Signore, ci renda capaci di stupirci del suo amore e di lodarlo con semplicità.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 2 luglio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Vangelo odierno Gesù dice: «Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta» (Mt 10,41). Tre volte la parola “profeta”; ma chi è il profeta? C’è chi lo immagina come una sorta di mago che predice il futuro, ma questa è un’idea superstiziosa e il cristiano non crede alle superstizioni, come la magia, le carte, gli oroscopi o cose simili. Tra parentesi: tanti, tanti cristiani vanno a farsi leggere le mani: per favore! Altri dipingono il profeta solo come un personaggio del passato, esistito prima di Cristo per preannunciare la sua venuta. Eppure Gesù stesso oggi parla del bisogno di accogliere i profeti; dunque essi esistono ancora, ma chi sono? Chi è il profeta?

Profeta, fratelli e sorelle, è ciascuno di noi: infatti, con il Battesimo tutti abbiamo ricevuto il dono e la missione della profezia (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, 1268). Profeta è colui che, in forza del Battesimo, aiuta gli altri a leggere il presente sotto l’azione dello Spirito Santo. Questo è molto importante: leggere il presente non come una cronaca, ma sotto l’azione dello Spirito Santo, che aiuta a comprendere i progetti di Dio e corrispondervi. In altre parole, il profeta è colui che indica agli altri Gesù, che lo testimonia, che aiuta a vivere l’oggi e a costruire il domani secondo i suoi disegni. Quindi tutti siamo profeti, testimoni di Gesù «perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale» (Lumen Gentium, 35). Il profeta è un segno vivo che indica Dio agli altri, il profeta è un riflesso della luce di Cristo sulla strada dei fratelli. E allora possiamo chiederci: io, che sono stato “eletto profeta” nel Battesimo, parlo e, soprattutto, vivo come testimone di Gesù? Porto un po’ della sua luce nella vita di qualcuno? Io mi verifico su questo? Mi chiedo: come va la mia testimonianza, come va la mia profezia?

Il Signore nel Vangelo chiede pure di accogliere i profeti; dunque è importante accoglierci a vicenda come tali, come portatori di un messaggio di Dio, ciascuno secondo il suo stato e la sua vocazione, e farlo lì dove viviamo, cioè in famiglia, in parrocchia, nelle comunità religiose, negli altri ambiti della Chiesa e della società. Lo Spirito ha distribuito doni di profezia nel santo Popolo di Dio: ecco perché è bene ascoltare tutti. Ad esempio, quando c’è da prendere una decisione importante, fa bene anzitutto pregare, invocare lo Spirito, ma poi ascoltare e dialogare, nella fiducia che ciascuno, anche il più piccolo, ha qualcosa di importante da dire, un dono profetico da condividere. Così si ricerca la verità e si diffonde un clima di ascolto di Dio e dei fratelli, in cui le persone non si sentono accolte solo se dicono quello che piace a me, ma si sentono accettate e valorizzate come doni per quello che sono.

Pensiamo a quanti conflitti si potrebbero evitare e risolvere così, mettendosi in ascolto degli altri con il sincero desiderio di comprendersi! Chiediamoci allora infine: io so accogliere i fratelli e le sorelle come doni profetici? Credo che ho bisogno di loro? Li ascolto con rispetto, con il desiderio di imparare? Perché ciascuno di noi ha bisogno di imparare dagli altri, ciascuno di noi ha bisogno di imparare dagli altri.

Maria, Regina dei Profeti, ci aiuti a vedere e accogliere il bene che lo Spirito ha seminato negli altri.

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Giovedì, 29 giugno 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, nel Vangelo Gesù dice a Simone, uno dei Dodici: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Pietro è un nome che ha più significati: può voler dire roccia, pietra o semplicemente sasso. Ed effettivamente, se guardiamo alla vita di Pietro, troviamo un po’ tutti e tre questi aspetti del suo nome.

Pietro è una roccia: in molti momenti è forte e saldo, genuino e generoso. Lascia tutto per seguire Gesù (cfr Lc 5,11), lo riconosce Cristo, Figlio del Dio vivente (Mt 16,16), si tuffa in mare per andare veloce incontro al Risorto (cfr Gv 21,7). Poi, con franchezza e coraggio, annuncia Gesù nel Tempio, prima e dopo essere stato arrestato e flagellato (cfr At 3,12-26; 5,25-42). La tradizione ci parla anche della sua fermezza di fronte al martirio, che avvenne proprio qui (cfr Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, V,4).

Pietro però è anche una pietra: è una roccia e anche una pietra, adatta per offrire appoggio agli altri: una pietra che, fondata su Cristo, fa da sostegno ai fratelli per la costruzione della Chiesa (cfr 1 Pt 2,4-8; Ef 2,19-22). Anche questo troviamo nella sua vita: risponde alla chiamata di Gesù assieme ad Andrea, suo fratello, Giacomo e Giovanni (cfr Mt 4,18-22); conferma la volontà degli Apostoli di seguire il Signore (cfr Gv 6,68); si prende cura di chi soffre (cfr At 3,6), promuove e incoraggia il comune annuncio del Vangelo (cfr At 15,7-11). È “pietra”, è punto di riferimento affidabile per tutta la comunità.

Pietro è roccia, è pietra e anche sasso: emerge spesso la sua piccolezza. A volte non capisce quello che Gesù sta facendo (cfr Mc 8,32-33; Gv 13,6-9); davanti al suo arresto si lascia prendere dalla paura e lo rinnega, poi si pente e piange amaramente (cfr Lc 22,54-62), ma non trova il coraggio di stare sotto la croce. Si rinchiude con gli altri nel cenacolo, per timore di essere catturato (cfr Gv 20,19). Ad Antiochia si mostra imbarazzato a stare con i pagani convertiti – e Paolo lo richiama alla coerenza su questo (cfr Gal 2,11-14) –; infine, secondo la tradizione del Quo vadis, tenta di fuggire di fronte al martirio, ma incontra Gesù sulla strada e ritrova il coraggio di tornare indietro.

In Pietro c’è tutto questo: la forza della roccia, l’affidabilità della pietra e la piccolezza di un semplice sasso. Non è un superuomo: è un uomo come noi, come ognuno di noi, che dice “sì” a Gesù con generosità nella sua imperfezione. Ma proprio così in Lui – come in Paolo e in tutti i santi – appare che è Dio a renderci forti con la sua grazia, a unirci con la sua carità e a perdonarci con la sua misericordia. Ed è con questa umanità vera che lo Spirito forma la Chiesa. Pietro e Paolo sono state persone vere, e noi, oggi più che mai, abbiamo bisogno di persone vere.

Adesso, guardiamoci dentro e facciamoci qualche domanda a partire dalla roccia, dalla pietra e dal sasso. Dalla roccia: c’è in noi l’ardore, lo zelo, la passione per il Signore e per il Vangelo, o è qualcosa che si sgretola facilmente? E poi, siamo pietre, non d’inciampo ma di costruzione per la Chiesa? Lavoriamo per l’unità, ci interessiamo degli altri, specialmente dei più deboli? Infine, pensando al sasso: siamo consapevoli della nostra piccolezza? E soprattutto: nelle debolezze ci affidiamo al Signore, che compie grandi cose con chi è umile e sincero?

Maria, Regina degli Apostoli, ci aiuti a imitare la forza, la generosità e l’umiltà dei Santi Pietro e Paolo.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 25 giugno 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona domenica!

Nel Vangelo di oggi Gesù ripete ai suoi discepoli, per ben tre volte: «Non abbiate paura» (Mt 10,26.28.31). Poco prima ha parlato loro delle persecuzioni che dovranno subire per il Vangelo, una realtà ancora attuale: la Chiesa, infatti, fin dalle origini ha conosciuto, insieme alle gioie – e ne aveva tante! –, tante persecuzioni. Sembra paradossale: l’annuncio del Regno di Dio è un messaggio di pace e di giustizia, fondato sulla carità fraterna e sul perdono, eppure riscontra opposizioni, violenze, persecuzioni. Gesù però dice di non temere: non perché nel mondo andrà tutto bene, no, ma perché per il Padre siamo preziosi e nulla di ciò che è buono andrà perduto. Ci dice quindi di non farci bloccare dalla paura, ma di temere piuttosto un’altra cosa, una sola. Qual è la cosa che Gesù ci dice che dobbiamo temere?

Lo scopriamo attraverso un’immagine che Gesù utilizza oggi: l’immagine della “Geenna” (cfr v. 28). La valle della “Geenna” era un luogo che gli abitanti di Gerusalemme conoscevano bene: era la grande discarica dei rifiuti della città. Gesù ne parla per dire che la vera paura da avere è quella di buttare via la propria vita. Gesù dice: “Sì, abbiate paura di questo”. Come a dire: non bisogna tanto temere di subire incomprensioni e critiche, di perdere prestigio e vantaggi economici per restare fedeli al Vangelo, ma di sprecare l’esistenza a inseguire cose di poco conto, che non riempiono di senso la vita.

E questo è importanteper noi. Anche oggi, infatti, si può essere derisi o discriminati se non si seguono certi modelli alla moda, che però mettono spesso al centro realtà di secondo piano: per esempio, seguire le cose anziché le persone, le prestazioni anziché le relazioni. Facciamo qualche esempio. Penso a dei genitori, che hanno bisogno di lavorare per mantenere la famiglia, ma non possono vivere solo per il lavoro: hanno bisogno del tempo necessario per stare con i figli. Penso anche a un sacerdote o a una suora: devono impegnarsi nel loro servizio, ma senza dimenticare di dedicare tempo a stare con Gesù, altrimenti cadono nella mondanità spirituale e perdono il senso di ciò che sono. E ancora, penso a un giovane o a una giovane, che hanno mille impegni e passioni: la scuola, lo sport, vari interessi, i telefonini e i social, ma hanno bisogno di incontrare le persone e realizzare dei sogni grandi, senza perdere tempo in cose che passano e non lasciano il segno.

Tutto ciò, fratelli e sorelle, comporta qualche rinuncia di fronte agli idoli dell’efficienza e del consumismo, ma è necessario per non andare a perdersi nelle cose, che poi vengono buttate via, come si faceva allora nella Geenna. E nelle Geenne di oggi, invece, spesso finiscono le persone: pensiamo agli ultimi, spesso trattati come materiale di scarto e oggetti indesiderati. Rimanere fedeli a ciò che conta costa; costa andare controcorrente, costa liberarsi dai condizionamenti del pensare comune, costa essere messi da parte da chi “segue l’onda”. Ma non importa, dice Gesù: ciò che conta è non buttare via il bene più grande, la vita. Solo questo deve spaventarci.

Chiediamoci allora: io, di che cosa ho paura? Di non avere quello che mi piace? Di non raggiungere i traguardi che la società impone? Del giudizio degli altri? Oppure di non piacere al Signore e di non mettere al primo posto il suo Vangelo? Maria, sempre Vergine, sapiente Madre, ci aiuti ad essere saggi e coraggiosi nelle scelte che facciamo.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 18 giugno 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Desidero esprimere la mia gratitudine a quanti, nei giorni del mio ricovero al Policlinico Gemelli, mi hanno manifestato affetto, premura e amicizia, e mi hanno assicurato il sostegno della preghiera. Questa vicinanza umana e spirituale è stata per me di grande aiuto e conforto. Grazie a tutti, grazie a voi, grazie di cuore!

Oggi, nel Vangelo, Gesù chiama per nome – chiama per nome – e invia i dodici Apostoli. Mandandoli, chiede loro di annunciare una cosa sola: «Predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7). È lo stesso annuncio con cui Gesù ha iniziato la sua predicazione: il regno di Dio, cioè la sua signoria d’amore, si è fatto vicino, viene in mezzo a noi. E questa non è una notizia tra le altre, ma la realtà fondamentale della vita: la vicinanza di Dio, la vicinanza di Gesù.

Infatti, se il Dio dei cieli è vicino, noi non siamo soli in terra e anche nelle difficoltà non perdiamo la fiducia. Ecco la prima cosa da dire alla gente: Dio non è distante, ma è Padre. Dio non è distante, è Padre, ti conosce e ti ama; vuole tenerti per mano, anche quando vai per sentieri ripidi e accidentati, anche quando cadi e fai fatica a rialzarti e riprendere il cammino; Lui, il Signore, è lì, con te. Anzi, spesso nei momenti in cui sei più debole puoi sentire più forte la sua presenza. Lui conosce la strada, Lui è con te, Lui è tuo Padre! Lui è mio Padre! Lui è nostro Padre!

Restiamo su questa immagine, perché annunciare Dio vicino è invitare a pensarsi come un bambino, che cammina tenuto per mano dal papà: tutto gli appare diverso. Il mondo, grande e misterioso, diventa familiare e sicuro, perché il bambino sa di essere protetto. Non ha paura e impara ad aprirsi: incontra altre persone, trova nuovi amici, apprende con gioia cose che non sapeva e poi torna a casa e racconta a tutti quello che ha visto, mentre cresce in lui il desiderio di diventare grande e di fare le cose che ha visto fare dal papà. Ecco perché Gesù parte da qua, ecco perché la vicinanza di Dio è il primo annuncio: stando vicini a Dio vinciamo la paura, ci apriamo all’amore, cresciamo nel bene e sentiamo il bisogno e la gioia di annunciare.

Se vogliamo essere buoni apostoli, dobbiamo essere come i bambini: sederci “sulle ginocchia di Dio” e da lì guardare il mondo con fiducia e amore, per testimoniare che Dio è Padre, che Lui solo  trasforma i nostri cuori e ci dà quella gioia e quella pace che noi stessi non possiamo procurarci.

Annunciare che Dio è vicino. Ma come farlo? Nel Vangelo Gesù raccomanda di non dire tante parole, ma di compiere tanti gesti di amore e di speranza nel nome del Signore; non dire tante parole, ma compiere gesti: «Guarite gli infermi – dice – risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Ecco il cuore dell’annuncio: la testimonianza gratuita, il servizio. Vi dico una cosa: a me lasciano sempre molto perplesso i “parolai”, con il loro tanto parlare e niente fare.

Facciamoci a questo punto qualche domanda: noi, che crediamo nel Dio vicino, confidiamo in Lui? Sappiamo guardare avanti con fiducia, come un bambino che sa di essere portato in braccio dal papà? Sappiamo sederci sulle ginocchia del Padre con la preghiera, con l’ascolto della Parola, accostandoci ai Sacramenti? E, infine, stretti a Lui, sappiamo infondere coraggio agli altri, farci vicini a chi soffre ed è solo, a chi è lontano e pure a chi ci è ostile? Questa è la concretezza della fede, è questo che conta.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 4 giugno 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, Solennità della Santissima Trinità, il Vangelo è tratto dal dialogo di Gesù con Nicodemo (cfr Gv 3,16-18). Nicodemo era un membro del Sinedrio, appassionato del mistero di Dio: riconosce in Gesù un maestro divino e di nascosto, di notte, va a parlare con Lui. Gesù lo ascolta, capisce che è un uomo in ricerca e allora prima lo stupisce, rispondendogli che per entrare nel Regno di Dio bisogna rinascere; poi gli svela il cuore del mistero dicendo che Dio ha amato così tanto l’umanità da mandare il suo Figlio nel mondo. Gesù, dunque, il Figlio, ci parla del Padre e del suo amore immenso.

Padre e Figlio. È un’immagine familiare che, se ci pensiamo, scardina il nostro immaginario su Dio. La parola stessa “Dio”, infatti, ci suggerisce una realtà singolare, maestosa e distante, mentre sentir parlare di un Padre e di un Figlio ci riporta a casa. Sì, possiamo pensare Dio così, attraverso l’immagine di una famiglia riunita a tavola, dove si condivide la vita. Del resto, quella della mensa, che allo stesso tempo è un altare, è un simbolo con cui certe icone raffigurano la Trinità. È un’immagine che ci parla di un Dio comunione. Padre, Figlio e Spirito Santo: comunione.

Ma non è solo un’immagine, è realtà! È realtà perché lo Spirito Santo, lo Spirito che il Padre mediante Gesù ha effuso nei nostri cuori (cfr Gal 4,6), ci fa gustare, ci fa assaporare la presenza di Dio: presenza sempre vicina, compassionevole e tenera. Lo Spirito Santo fa con noi come Gesù con Nicodemo: ci introduce nel mistero della nuova nascita – la nascita della fede, della vita cristiana –, ci svela il cuore del Padre e ci rende partecipi della vita stessa di Dio.

L’invito che ci rivolge, potremmo dire, è quello di stare a tavola con Dio per condividere il suo amore. Questa è l’immagine. Questo è ciò che succede in ogni Messa, all’altare della mensa eucaristica, dove Gesù si offre al Padre e si offre per noi. E sì, è così, fratelli e sorelle, il nostro Dio è comunione d’amore: così ce lo ha rivelato Gesù. E sapete come possiamo fare a ricordarlo? Con il gesto più semplice, che abbiamo imparato da bambini: il segno della croce. Tracciando la croce sul nostro corpo ci ricordiamo quanto Dio ci ha amato, fino a dare la vita per noi; e ripetiamo a noi stessi che il suo amore ci avvolge completamente, dall’alto in basso, da sinistra a destra, come un abbraccio che non ci abbandona mai. E al tempo stesso ci impegniamo a testimoniare Dio-amore, creando comunione nel suo nome. Forse adesso, ognuno di noi, e tutti insieme, facciamo il segno della croce su di noi [fa il segno della croce].

Oggi allora possiamo chiederci: noi testimoniamo Dio-amore? Oppure Dio-amore è diventato a sua volta un concetto, qualcosa di già sentito, che non smuove e non provoca più la vita? Se Dio è amore, le nostre comunità lo testimoniano? Sanno amare? Le nostre comunità sanno amare? E la nostra famiglia, sappiamo amare in famiglia? Teniamo la porta sempre aperta, sappiamo accogliere tutti, sottolineo tutti, come fratelli e sorelle? Offriamo a tutti il cibo del perdono di Dio e la gioia evangelica? Si respira aria di casa o assomigliamo più a un ufficio o a un luogo riservato dove entrano solo gli eletti? Dio è amore, Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo e ha dato la vita per noi, per questo facciamo il segno della croce.

SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

PAPA FRANCESCO

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 28 maggio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, Solennità di Pentecoste, il Vangelo ci porta nel cenacolo, dove gli apostoli si erano rifugiati dopo la morte di Gesù (Gv 20,19-23). Il Risorto, la sera di Pasqua, si presenta proprio in quella situazione di paura e di angoscia e, soffiando su di loro, dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22). Così, con il dono dello Spirito, Gesù desidera liberare i discepoli dalla paura, questa paura che li tiene rinchiusi in casa, e li libera perché siano capaci di uscire e diventino testimoni e annunciatori del Vangelo. Soffermiamoci un po’ su questo che fa lo Spirito: libera dalla paura.

I discepoli avevano chiuso le porte, dice il Vangelo, «per timore» (v. 19). La morte di Gesù li aveva sconvolti, i loro sogni erano andati in frantumi, le loro speranze erano svanite. E si erano chiusi dentro. Non solo in quella stanza, ma dentro, nel cuore. Vorrei sottolineare questo: chiusi dentro. Quante volte anche noi ci chiudiamo dentro noi stessi? Quante volte, per qualche situazione difficile, per qualche problema personale o familiare, per la sofferenza che ci segna o per il male che respiriamo attorno a noi, rischiamo di scivolare lentamente nella perdita della speranza e ci manca il coraggio di andare avanti? Tante volte succede questo. E allora, come gli apostoli, ci chiudiamo dentro, barricandoci nel labirinto delle preoccupazioni.

Fratelli e sorelle, questo “chiuderci dentro” accade quando, nelle situazioni più difficili, permettiamo alla paura di prendere il sopravvento e di fare la “voce grossa” dentro di noi. Quando entra la paura, noi ci chiudiamo. La causa, quindi, è la paura: paura di non farcela, di essere soli ad affrontare le battaglie di ogni giorno, di rischiare e poi di restare delusi, di fare delle scelte sbagliate. Fratelli, sorelle, la paura blocca, la paura paralizza. E anche isola: pensiamo alla paura dell’altro, di chi è straniero, di chi è diverso, di chi la pensa in un altro modo. E ci può essere persino la paura di Dio: che mi punisca, che ce l’abbia con me… Se diamo spazio a queste false paure, le porte si chiudono: porte del cuore, le porte della società, e anche le porte della Chiesa! Dove c’è paura, c’è chiusura. E non va bene.

Il Vangelo però ci offre il rimedio del Risorto: lo Spirito Santo. Lui libera dalle prigioni della paura. Quando ricevono lo Spirito, gli apostoli – lo festeggiamo oggi – escono dal cenacolo e vanno nel mondo a rimettere i peccati e ad annunciare la buona notizia. Grazie a Lui le paure si superano e le porte si aprono. Perché questo fa lo Spirito: ci fa sentire la vicinanza di Dio e così il suo amore scaccia il timore, illumina il cammino, consola, sostiene nelle avversità. Di fronte ai timori e alle chiusure, allora, invochiamo lo Spirito Santo per noi, per la Chiesa e per il mondo intero: perché una nuova Pentecoste scacci le paure che ci assalgono e ravvivi il fuoco dell’amore di Dio.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 21 maggio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi in Italia e in molti altri Paesi si celebra l’Ascensione del Signore. È una festa che ben conosciamo, ma che può far sorgere alcune domande, almeno due. La prima: perché festeggiare la partenza di Gesù dalla terra? Sembrerebbe che il suo congedo sia un momento triste, non precisamente qualcosa di cui gioire! Perché festeggiare una partenza? Prima domanda. Seconda domanda: cosa fa Gesù adesso in cielo? Prima domanda: perché festeggiare? Seconda domanda: cosa fa Gesù in cielo?

Perché festeggiamo. Perché con l’Ascensione è accaduta una cosa nuova e bellissima: Gesù ha portato la nostra umanità, la nostra carne in cielo – è la prima volta! –, cioè l’ha portata in Dio. Quell’umanità, che aveva preso in terra, non è rimasta qui. Gesù risorto non era uno spirito, no, aveva il suo corpo umano, la carne, le ossa, tutto, e lì, in Dio, sarà per sempre. Possiamo dire che dal giorno dell’Ascensione Dio stesso è “cambiato”: da allora non è più solo spirito, ma per quanto ci ama reca in sé la nostra stessa carne, la nostra umanità! Il posto che ci spetta è dunque indicato, il nostro destino è lì. Così scriveva un antico Padre nella fede: «Splendida notizia! Colui che si è fatto per noi uomo […], per renderci suoi fratelli, si presenta come uomo davanti al Padre, per portare con sé tutti coloro che gli sono congiunti» (S. Gregorio di Nissa, Discorso sulla risurrezione di Cristo, 1). Oggi festeggiamo “la conquista del cielo”: Gesù che torna al Padre, ma con la nostra umanità. E così il cielo è già un po’ nostro. Gesù ha aperto la porta e il suo corpo è lì.

La seconda domanda: che cosa fa Gesù in cielo? Lui sta per noi davanti al Padre, gli mostra continuamente la nostra umanità, mostra le piaghe. A me piace pensare che Gesù, davanti il Padre, prega così, facendogli vedere le piaghe. “Questo è quello che ho sofferto per gli uomini: fai qualcosa!”. Gli fa vedere il prezzo della redenzione, e il Padre si commuove. Questa è una cosa che mi piace pensare. Così prega Gesù. Lui non ci ha lasciati soli. Infatti, prima di ascendere ci ha detto, come riporta il Vangelo di oggi: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). È sempre con noi, ci guarda, è «sempre vivo per intercedere» (Eb 7,25) a nostro favore. Per far vedere le piaghe al Padre, per noi. In una parola, Gesù intercede; è nel “luogo” migliore, davanti al Padre suo e nostro, per intercedere a nostro vantaggio.

L’intercessione è fondamentale. Anche per noi è di aiuto questa fede: ci aiuta a non perdere la speranza, a non scoraggiarsi. Davanti il Padre c’è qualcuno che gli fa vedere le piaghe e intercede. La Regina del cielo ci aiuti a intercedere con la forza della preghiera.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 14 maggio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo di oggi, sesta domenica di Pasqua, ci parla dello Spirito Santo, che Gesù chiama Paraclito (cfr Gv 14,15-17). Paraclito è una parola che viene dal greco, che significa nello stesso tempo consolatore e avvocato. Lo Spirito Santo, cioè, non ci lascia soli mai, sta vicino a noi, come un avvocato che assiste l’imputato stando al suo fianco. E ci suggerisce come difenderci di fronte a chi ci accusa. Ricordiamo che il grande accusatore è sempre il diavolo, che ti mette dentro i peccati, la voglia di peccato, la malvagità. Riflettiamo su questi due aspetti: la sua vicinanza a noi e il suo aiuto contro chi ci accusa.

La sua vicinanza: lo Spirito Santo, dice Gesù, “rimane presso di voi e sta in voi” (cfr v. 17). Non ci abbandona mai. Lo Spirito Santo vuole stare con noi: non è un ospite di passaggio che viene a farci una visita di cortesia. È un compagno di vita, una presenza stabile, è Spirito e desidera dimorare nel nostro spirito. È paziente e sta con noi anche quando cadiamo. Rimane perché ci ama davvero: non fa finta di volerci bene per poi lasciarci soli nelle difficoltà. No, è leale, è trasparente, è autentico.

Anzi, se ci troviamo nella prova, lo Spirito Santo ci consola, portandoci il perdono e la forza di Dio. E quando ci mette di fronte ai nostri sbagli e ci corregge, lo fa con gentilezza: nella sua voce che parla al cuore ci sono sempre il timbro della tenerezza e il calore dell’amore. Certo, lo Spirito Paraclito è esigente, perché è un amico vero, fedele, che non nasconde nulla, che ci suggerisce cosa cambiare e come crescere. Ma quando ci corregge non ci umilia mai e non infonde mai sfiducia; al contrario, ci trasmette la certezza che con Dio ce la possiamo fare, sempre. Questa è la sua vicinanza. È una bella certezza!

Secondo aspetto, lo Spirito Paraclito è il nostro avvocato e ci difende. Ci difende di fronte a chi ci accusa: di fronte a noi stessi, quando non ci vogliamo bene e non ci perdoniamo, fino magari a dirci che siamo dei falliti e dei buoni a nulla; di fronte al mondo, che scarta chi non corrisponde ai suoi schemi e ai suoi modelli; di fronte al diavolo, che è per eccellenza l’“accusatore” e il divisore (cfr Ap 12,10) e fa di tutto per farci sentire incapaci e infelici.

Di fronte a tutti questi pensieri accusatori, lo Spirito Santo ci suggerisce come rispondere. In che modo? Il Paraclito, dice Gesù, è Colui che “ci ricorda tutto ciò che Gesù ci ha detto” (cfr Gv 14,26). Egli ci ricorda, dunque, le parole del Vangelo, e così ci permette di rispondere al diavolo accusatore non con parole nostre, ma con le parole stesse del Signore. Soprattutto ci ricorda che Gesù parlava sempre del Padre che è nei cieli, ce lo ha fatto conoscere e ci ha rivelato il suo amore per noi, che siamo i suoi figli. Se invochiamo lo Spirito, impariamo ad accogliere e ricordare la realtà più importante della vita, che ci protegge dalle accuse del male. E qual è questa realtà più importante della vita? Che siamo figli amati di Dio. Siamo figli amati di Dio: questa è la realtà più importante, e lo Spirito ci ricorda questo.

Fratelli e sorelle, chiediamoci oggi: invochiamo lo Spirito Santo, lo preghiamo spesso? Non dimentichiamoci di Lui che è vicino a noi, anzi dentro di noi! E poi, prestiamo ascolto alla sua voce, sia quando ci incoraggia sia quando ci corregge? Rispondiamo con le parole di Gesù alle accuse del male, ai “tribunali” della vita? Ci ricordiamo che siamo figli amati di Dio? Maria ci renda docili alla voce dello Spirito Santo e sensibili alla sua presenza.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 7 maggio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna (Gv 14,1-12) è tratto dall’ultimo discorso di Gesù prima della sua morte. Il cuore dei discepoli è turbato, ma il Signore rivolge loro parole rassicuranti, invitandoli a non avere paura, non abbiate paura: Egli, infatti, non li sta abbandonando, ma va a preparare un posto per loro e a guidarli verso quella meta. Il Signore oggi indica così a tutti noi il meraviglioso luogo dove andare, e, allo stesso tempo, ci dice come andarci, ci mostra la via da percorrere. Ci dice dove andare e come andarci.

Anzitutto, dove andare. Gesù vede il turbamento dei discepoli, vede la loro paura di essere abbandonati, proprio come capita a noi quando siamo costretti a separarci da qualcuno a cui vogliamo bene. E allora dice: «Vado a prepararvi un posto […], perché dove sono io siate anche voi» (vv. 2-3). Gesù usa l’immagine familiare della casa, luogo delle relazioni e dell’intimità. Nella casa del Padre – dice ai suoi amici e ad ognuno di noi – c’è spazio per te, tu sei il benvenuto, sarai accolto per sempre dal calore di un abbraccio, e io sono in Cielo a prepararti un posto! Ci prepara quell’abbraccio col Padre, il posto per tutta l’eternità.

Fratelli e sorelle, questa Parola è fonte di consolazione, è fonte di speranza per noi. Gesù non si è separato da noi ma ci ha aperto la strada, anticipando la nostra destinazione finale: l’incontro con Dio Padre, nel cui cuore c’è un posto per ognuno di noi. Allora, quando sperimentiamo la fatica, lo smarrimento e persino il fallimento, ricordiamo dove è diretta la nostra vita. Non dobbiamo perdere di vista la meta, anche se oggi corriamo il rischio di scordarcelo, di dimenticare le domande finali, quelle importanti: dove andiamo? Verso dove camminiamo? Per cosa vale la pena vivere? Senza queste domande, schiacciamo la vita solo sul presente, pensiamo che dobbiamo goderla il più possibile e finiamo per vivere alla giornata, senza uno scopo, senza un traguardo. La nostra patria, invece, è in cielo (cfr Fil 3,20), non dimentichiamo la grandezza e la bellezza della meta!

Una volta scoperta la meta, anche noi, come l’apostolo Tommaso nel Vangelo di oggi, ci chiediamo: come andarci, qual è la strada? A volte, soprattutto quando ci sono grandi problemi da affrontare e c’è la sensazione che il male sia più forte, e viene da chiedersi: che cosa devo fare, quale via devo seguire? Ascoltiamo la risposta di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). “Io sono la via”. Gesù stesso è la via da seguire per vivere nella verità e avere la vita in abbondanza. Lui è la via e dunque la fede in Lui non è un “pacchetto di idee” da credere, ma una strada da percorrere, un viaggio da compiere, un cammino con Lui. È seguire Gesù, perché Egli è la via che conduce alla felicità che non tramonta. Seguire Gesù e imitarlo, specialmente con gesti di vicinanza e misericordia verso gli altri. Ecco la bussola per raggiungere il Cielo: amare Gesù, la via, diventando segni del suo amore in terra.

Fratelli e sorelle, viviamo il presente, prendiamo in mano il presente ma non lasciamoci travolgere: guardiamo in alto, guardiamo al Cielo, ricordiamoci la meta, pensiamo che siamo chiamati all’eternità, all’incontro con Dio. E, dal Cielo al cuore, rinnoviamo oggi la scelta di Gesù, la scelta di amarlo e di camminare dietro a Lui. La Vergine Maria, che seguendo Gesù è già arrivata alla meta, sostenga la nostra speranza.

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
in UNGHERIA

(28 - 30 aprile 2023)

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE

Piazza Kossuth Lajos (Budapest)
Domenica, 30 aprile 2023

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Le ultime parole che Gesù pronuncia, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, riassumono il senso della sua missione: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Questo fa un bravo pastore: dona la vita per le sue pecore. Così Gesù, come un pastore che va in cerca del suo gregge, è venuto a cercarci mentre eravamo perduti; come un pastore, è venuto a strapparci dalla morte; come un pastore, che conosce una per una le sue pecore e le ama con infinita tenerezza, ci ha fatti entrare nell’ovile del Padre, facendoci diventare suoi figli.

Contempliamo allora l’immagine del buon Pastore, e soffermiamoci su due azioni che, secondo il Vangelo, Egli compie per le sue pecore: dapprima le chiama, poi le conduce fuori.

1. Anzitutto, «chiama le sue pecore» (v. 3). All’inizio della nostra storia di salvezza non ci siamo noi con i nostri meriti, le nostre capacità, le nostre strutture; all’origine c’è la chiamata di Dio, il suo desiderio di raggiungerci, la sua sollecitudine verso ciascuno di noi, l’abbondanza della sua misericordia che vuole salvarci dal peccato e dalla morte, per donarci la vita in abbondanza e la gioia senza fine. Gesù è venuto come buon Pastore dell’umanità per chiamarci e riportarci a casa. Allora noi, facendo memoria grata, possiamo ricordare il suo amore per noi, per noi che eravamo lontani da Lui. Sì, mentre «noi tutti eravamo sperduti come un gregge» e «ognuno di noi seguiva la sua strada» (Is 53,6), Lui si è addossato le nostre iniquità e si è caricato delle nostre colpe, riportandoci nel cuore del Padre. Così abbiamo ascoltato dall’apostolo Pietro nella seconda Lettura: «Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1 Pt 2,25). E, ancora oggi, in ogni situazione della vita, in ciò che portiamo nel cuore, nei nostri smarrimenti, nelle nostre paure, nel senso di sconfitta che a volte ci assale, nella prigione della tristezza che rischia di ingabbiarci, Egli ci chiama. Viene come buon Pastore e ci chiama per nome, per dirci quanto siamo preziosi ai suoi occhi, per curare le nostre ferite e prendere su di sé le nostre debolezze, per raccoglierci in unità nel suo ovile e renderci familiari con il Padre e tra di noi.

Fratelli e sorelle, mentre siamo qui questa mattina, sentiamo la gioia di essere popolo santo di Dio: tutti noi nasciamo dalla sua chiamata; è Lui che ci ha convocati e per questo siamo suo popolo, suo gregge, sua Chiesa. Ci ha radunati qui affinché, pur essendo tra noi diversi e appartenendo a comunità differenti, la grandezza del suo amore ci riunisca tutti in un unico abbraccio. È bello trovarci insieme: i Vescovi e i sacerdoti, i religiosi e i fedeli laici; ed è bello condividere questa gioia insieme alle Delegazioni ecumeniche, ai capi della Comunità ebraica, ai rappresentanti delle Istituzioni civili e del Corpo diplomatico. Questa è cattolicità: tutti noi, chiamati per nome dal buon Pastore, siamo chiamati ad accogliere e diffondere il suo amore, a rendere il suo ovile inclusivo e mai escludente. E, perciò, siamo tutti chiamati a coltivare relazioni di fraternità e di collaborazione, senza dividerci tra noi, senza considerare la nostra comunità come un ambiente riservato, senza farci prendere dalla preoccupazione di difendere ciascuno il proprio spazio, ma aprendoci all’amore vicendevole.

2. Dopo aver chiamato le pecore, il Pastore «le conduce fuori» (Gv 10,3). Prima le ha fatte entrare nell’ovile chiamandole, ora le spinge fuori. Prima veniamo radunati nella famiglia di Dio per essere costituiti suo popolo, poi però siamo inviati nel mondo affinché, con coraggio e senza paura, diventiamo annunciatori della Buona Notizia, testimoni dell’Amore che ci ha rigenerati. Questo movimento – entrare e uscire – possiamo coglierlo da un’altra immagine che Gesù usa: quella della porta. Egli dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Riascoltiamo bene questo: entrerà e uscirà. Da una parte, Gesù è la porta che si è spalancata per farci entrare nella comunione del Padre e sperimentare la sua misericordia; ma, come tutti sanno, una porta aperta serve, oltre che per entrare, anche per uscire dal luogo in cui ci si trova. E allora, dopo averci ricondotti nell’abbraccio di Dio e nell’ovile della Chiesa, Gesù è la porta che ci fa uscire verso il mondo: Egli ci spinge ad andare incontro ai fratelli. E ricordiamolo bene: tutti, nessuno escluso, siamo chiamati a questo, a uscire dalle nostre comodità e ad avere il coraggio di raggiungere ogni periferia che ha bisogno della luce del Vangelo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Fratelli e sorelle, essere “in uscita” significa per ciascuno di noi diventare, come Gesù, una porta aperta. È triste e fa male vedere porte chiuse: le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi “non è in regola”, chiuse verso chi anela al perdono di Dio. Fratelli e sorelle, per favore, per favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore.

Ripeto questo soprattutto a me stesso, ai fratelli Vescovi e sacerdoti: a noi pastori. Perché il pastore, dice Gesù, non è un brigante o un ladro (cfr Gv 10,8); non approfitta, cioè, del suo ruolo, non opprime il gregge che gli è affidato, non “ruba” lo spazio ai fratelli laici, non esercita un’autorità rigida. Fratelli, incoraggiamoci ad essere porte sempre più aperte: “facilitatori” della grazia di Dio, esperti di vicinanza, disposti a offrire la vita, così come Gesù Cristo, nostro Signore e nostro tutto, ci insegna a braccia aperte dalla cattedra della croce e ci mostra ogni volta sull’altare, Pane vivo spezzato per noi. Lo dico anche ai fratelli e alle sorelle laici, ai catechisti, agli operatori pastorali, a chi ha responsabilità politiche e sociali, a coloro che semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana, talvolta con fatica: siate porte aperte! Lasciamo entrare nel cuore il Signore della vita, la sua Parola che consola e guarisce, per poi uscire fuori ed essere noi stessi porte aperte nella società. Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri, per aiutare l’Ungheria a crescere nella fraternità, via della pace.

Carissimi, Gesù buon Pastore ci chiama per nome e si prende cura di noi con infinita tenerezza. Egli è la porta e chi entra attraverso di Lui ha la vita eterna: Egli dunque è il nostro futuro, un futuro di «vita in abbondanza» (Gv 10,10). Perciò, non scoraggiamoci mai, non lasciamoci mai rubare la gioia e la pace che Lui ci ha donato, non chiudiamoci nei problemi o nell’apatia. Lasciamoci accompagnare dal nostro Pastore: con Lui la nostra vita, le nostre famiglie, le nostre comunità cristiane e l’Ungheria tutta risplendano di vita nuova!

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 23 aprile 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In questa terza domenica di Pasqua il Vangelo narra l’incontro di Gesù risorto con i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Questi sono due discepoli che, rassegnati per la morte del Maestro, il giorno di Pasqua decidono di lasciare Gerusalemme e di tornarsene a casa. Forse erano un po’ inquieti, perché avevano sentito le donne che venivano dal sepolcro e dicevano che era vuoto…, ma se ne vanno. E mentre camminano tristi parlando dell’accaduto, Gesù li affianca, ma loro non lo riconoscono. Lui domanda come mai sono così tristi, e loro gli dicono: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (v. 18). E Gesù risponde: «Che cosa?» (v. 19). E loro gli raccontano tutta la storia, e Gesù gliela fa raccontare. Poi, mentre camminano, li aiuta a rileggere i fatti in modo diverso, alla luce delle profezie, della Parola di Dio, di tutto quello che è stato annunciato al popolo di Israele. Rileggere: è quello che Gesù fa con loro, aiutare a rileggere. Fermiamoci su questo aspetto.

Anche per noi, infatti, è importante rileggere la nostra storia insieme a Gesù: la storia della nostra vita, di un certo periodo, delle nostre giornate, con le delusioni e le speranze. Anche noi, d’altronde, come quei discepoli, di fronte a ciò che ci accade possiamo ritrovarci smarriti di fronte agli eventi, soli e incerti, con tante domande e preoccupazioni, delusioni, tante cose. Il Vangelo di oggi ci invita a raccontare tutto a Gesù, con sincerità, senza temere di disturbarlo – Lui ascolta –, senza paura di dire cose sbagliate, senza vergognarci della nostra fatica a capire. Il Signore è contento quando ci apriamo a Lui; solo in questo modo può prenderci per mano, accompagnarci e tornare a farci ardere il cuore (cfr v. 32). Allora anche noi, come i discepoli di Emmaus, siamo chiamati a intrattenerci con Lui perché, quando si fa sera, Egli rimanga con noi (cfr v. 29).

C’è un bel modo di fare questo, e oggi io vorrei proporvelo: consiste nel dedicare un tempo, ogni sera, a un breve esame di coscienza. Cosa è successo oggi dentro di me? Questa è la domanda. Si tratta di rileggere la giornata con Gesù, rileggere la mia giornata: di aprirgli il cuore, di portare a Lui le persone, le scelte, le paure, le cadute e le speranze, tutte le cose che sono successe; per imparare gradualmente a guardare le cose con occhi diversi, con i suoi occhi e non solo con i nostri. Possiamo così rivivere l’esperienza di quei due discepoli. Davanti all’amore di Cristo, anche ciò che sembra faticoso e fallimentare può apparire sotto un’altra luce: una croce difficile da abbracciare, la scelta del perdono di fronte a un’offesa, una rivincita mancata, la fatica del lavoro, la sincerità che costa, le prove della vita familiare ci potranno apparire sotto una luce nuova, la luce del Crocifisso Risorto, che sa fare di ogni caduta un passo in avanti. Ma per fare questo è importante togliere le difese: lasciare tempo e spazio a Gesù, non nascondergli nulla, portargli le miserie, farsi ferire dalla sua verità, lasciare che il cuore vibri al soffio della sua Parola.

Possiamo cominciare oggi, dedicare, questa sera, un momento di preghiera durante il quale chiederci: com’è stata la mia giornata? Quali gioie, quali tristezze, quali noiosità… Come è stata, cosa è successo? Quali sono state le sue perle, magari nascoste, per cui ringraziare? C’è stato un po’ di amore in quello che ho fatto? E quali sono le cadute, le tristezze, i dubbi e le paure da portare a Gesù perché mi apra vie nuove, mi risollevi e mi incoraggi? Maria, Vergine sapiente, ci aiuti a riconoscere Gesù che cammina con noi e a rileggere – ecco la parola: rileggere – davanti a Lui ogni giorno della nostra vita.

PAPA FRANCESCO

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica della Divina Misericordia, 16 aprile 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, Domenica della Divina Misericordia, il Vangelo ci racconta due apparizioni di Gesù risorto ai discepoli e in particolare a Tommaso, l’“Apostolo incredulo” (cfr Gv 20,24-29).

Tommaso, in realtà, non è l’unico che fa fatica a credere, anzi rappresenta un po’ tutti noi. Infatti non è sempre facile credere, specialmente quando, come nel suo caso, si ha patito una grande delusione. Dopo una grande delusione è difficile credere. Ha seguito Gesù per anni, correndo rischi e sopportando disagi, ma il Maestro è stato messo in croce come un delinquente e nessuno lo ha liberato, nessuno ha fatto niente! È morto e tutti hanno paura. Come fidarsi ancora? Come fidarsi della notizia che dice che è vivo? Il dubbio era dentro di lui.

Tommaso, però, dimostra di avere del coraggio: mentre gli altri sono chiusi nel cenacolo per la paura, lui esce, col rischio che qualcuno possa riconoscerlo, denunciarlo e arrestarlo. Potremmo perfino pensare che, col suo coraggio, meriterebbe più degli altri di incontrare il Signore risorto. Invece, proprio per essersi allontanato, quando Gesù appare la prima volta ai discepoli la sera di Pasqua, Tommaso non c’è e perde l’occasione. Si era allontanato dalla comunità. Come potrà recuperarla? Solo tornando con gli altri, tornando lì, in quella famiglia che ha lasciato spaventata e triste. Quando lo fa, quando torna, gli dicono che Gesù è venuto, ma lui fatica a credere; vorrebbe vedere le sue piaghe. E Gesù lo accontenta: otto giorni dopo, appare di nuovo in mezzo ai suoi discepoli e gli mostra le sue piaghe, le mani, i piedi, quelle piaghe che sono le prove del suo amore, che sono i canali sempre aperti della sua misericordia.

Riflettiamo su questi fatti. Per credere, Tommaso vorrebbe un segno straordinario: toccare le piaghe. Gesù gliele mostra, ma in modo ordinario, venendo davanti a tutti, nella comunità, non fuori. Come a dirgli: se tu vuoi incontrarmi non cercare lontano, resta nella comunità, con gli altri; e non andare via, prega con loro, spezza con loro il pane. E lo dice a noi pure. È lì che potrai trovarmi, è lì che ti mostrerò, impressi nel mio corpo, i segni delle piaghe: i segni dell’Amore che vince l’odio, del Perdono che disarma la vendetta, i segni della Vita che sconfigge la morte. È lì, nella comunità, che scoprirai il mio volto, mentre con i fratelli condividi momenti di dubbio e di paura, stringendoti ancora più fortemente a loro. Senza la comunità è difficile trovare Gesù.

Cari fratelli e sorelle, l’invito fatto a Tommaso è valido anche per noi. Noi, dove cerchiamo il Risorto? In qualche evento speciale, in qualche manifestazione religiosa spettacolare o eclatante, unicamente nelle nostre emozioni e sensazioni? Oppure nella comunità, nella Chiesa, accettando la sfida di restarci, anche se non è perfetta? Nonostante tutti i suoi limiti e le sue cadute, che sono i nostri limiti e le nostre cadute, la nostra Madre Chiesa è il Corpo di Cristo; ed è lì, nel Corpo di Cristo, che si trovano impressi, ancora e per sempre, i segni più grandi del suo amore. Chiediamoci però se, in nome di questo amore, in nome delle piaghe di Gesù, siamo disposti ad aprire le braccia a chi è ferito dalla vita, senza escludere nessuno dalla misericordia di Dio, ma accogliendo tutti; ciascuno come un fratello, come una sorella. Dio accoglie tutti, Dio accoglie tutti.

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Pietro
Sabato Santo, 8 aprile 2023

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La notte sta per finire e si accendono le prime luci dell’alba, quando le donne si mettono in cammino verso la tomba di Gesù. Avanzano incerte, smarrite, con il cuore lacerato dal dolore per quella morte che ha portato via l’Amato. Ma, giungendo presso quel luogo e vedendo la tomba vuota, invertono la rotta, cambiano strada; abbandonano il sepolcro e corrono ad annunciare ai discepoli un percorso nuovo: Gesù è risorto e li attende in Galilea. Nella vita di queste donne è avvenuta la Pasqua, che significa passaggio: esse, infatti, passano dal mesto cammino verso il sepolcro alla gioiosa corsa verso i discepoli, per dire loro non solo che il Signore è risorto, ma che c’è una meta da raggiungere subito, la Galilea. L’appuntamento col Risorto è lì. La rinascita dei discepoli, la risurrezione del loro cuore passa dalla Galilea. Entriamo anche noi in questo cammino dei discepoli che va dalla tomba alla Galilea.

Le donne, dice il Vangelo, «andarono a visitare la tomba» (Mt 28,1). Pensano che Gesù si trovi nel luogo della morte e che tutto sia finito per sempre. A volte succede anche a noi di pensare che la gioia dell’incontro con Gesù appartenga al passato, mentre nel presente conosciamo soprattutto delle tombe sigillate: quelle delle nostre delusioni, delle nostre amarezze, della nostra sfiducia, quelle del “non c’è più niente da fare”, “le cose non cambieranno mai”, “meglio vivere alla giornata” perché “del domani non c’è certezza”. Anche noi, se siamo stati attanagliati dal dolore, oppressi dalla tristezza, umiliati dal peccato, amareggiati per qualche fallimento o assillati da qualche preoccupazione, abbiamo sperimentato il gusto amaro della stanchezza e abbiamo visto spegnersi la gioia nel cuore.

A volte abbiamo semplicemente avvertito la fatica di portare avanti la quotidianità, stanchi di rischiare in prima persona davanti al muro di gomma di un mondo dove sembrano prevalere sempre le leggi del più furbo e del più forte. Altre volte, ci siamo sentiti impotenti e scoraggiati dinanzi al potere del male, ai conflitti che lacerano le relazioni, alle logiche del calcolo e dell’indifferenza che sembrano governare la società, al cancro della corruzione – ce n’è tanta –, al dilagare dell’ingiustizia, ai venti gelidi della guerra. E, ancora, ci siamo forse trovati faccia a faccia con la morte, perché ci ha tolto la dolce presenza dei nostri cari o perché ci ha sfiorato nella malattia o nelle calamità, e facilmente siamo rimasti preda della disillusione e si è disseccata la sorgente della speranza. Così, per queste o altre situazioni – ognuno di noi conosce le proprie –, i nostri cammini si arrestano davanti a delle tombe e noi restiamo immobili a piangere e a rimpiangere, soli e impotenti a ripeterci i nostri “perché”. Quella catena di “perché”…

Invece, le donne a Pasqua non restano paralizzate davanti a una tomba ma, dice il Vangelo, «abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (v. 8). Portano la notizia che cambierà per sempre la vita e la storia: Cristo è risorto! (cfr v. 6). E, al tempo stesso, custodiscono e trasmettono la raccomandazione del Signore, il suo invito ai discepoli: che vadano in Galilea, perché là lo vedranno (cfr v. 7). Ma, fratelli e sorelle, ci domandiamo oggi: che cosa significa andare in Galilea? Due cose: da una parte uscire dalla chiusura del cenacolo per andare nella regione abitata dalle genti (cfr Mt 4,15), uscire dal nascondimento per aprirsi alla missione, evadere dalla paura per camminare verso il futuro. E dall’altra parte – e questo è molto bello –, significa ritornare alle origini, perché proprio in Galilea tutto era iniziato. Lì il Signore aveva incontrato e chiamato per la prima volta i discepoli. Dunque andare in Galilea è tornare alla grazia originaria, è riacquistare la memoria che rigenera la speranza, la “memoria del futuro” con la quale siamo stati segnati dal Risorto.

Ecco allora che cosa fa la Pasqua del Signore: ci spinge ad andare avanti, a uscire dal senso di sconfitta, a rotolare via la pietra dei sepolcri in cui spesso confiniamo la speranza, a guardare con fiducia al futuro, perché Cristo è risorto e ha cambiato la direzione della storia; ma, per fare questo, la Pasqua del Signore ci riporta al nostro passato di grazia, ci fa riandare in Galilea, là dov’è iniziata la nostra storia d’amore con Gesù, dove è stata la prima chiamata. Ci chiede, cioè, di rivivere quel momento, quella situazione, quell’esperienza in cui abbiamo incontrato il Signore, abbiamo sperimentato il suo amore e abbiamo ricevuto uno sguardo nuovo e luminoso su noi stessi, sulla realtà, sul mistero della vita. Fratelli e sorelle, per risorgere, per ricominciare, per riprendere il cammino, abbiamo sempre bisogno di ritornare in Galilea, cioè di riandare non a un Gesù astratto, ideale, ma alla memoria viva, alla memoria concreta e palpitante del primo incontro con Lui. Sì, per camminare dobbiamo ricordare; per avere speranza dobbiamo nutrire la memoria. E questo è l’invito: ricorda e cammina! Se recuperi il primo amore, lo stupore e la gioia dell’incontro con Dio, andrai avanti. Ricorda e cammina.

Ricorda la tua Galilea e cammina verso la tua Galilea. È il “luogo” nel quale hai conosciuto Gesù di persona, dove per te Egli non è rimasto un personaggio storico come altri, ma è divenuto la persona della vita: non un Dio lontano, ma il Dio vicino, che ti conosce più di ogni altro e ti ama più di chiunque altro. Fratello, sorella, fai memoria della Galilea, della tua Galilea: della tua chiamata, di quella Parola di Dio che in un preciso momento ha parlato proprio a te; di quell’esperienza forte nello Spirito, della più grande gioia del perdono provata dopo quella Confessione, di quel momento intenso e indimenticabile di preghiera, di quella luce che si è accesa dentro e ha trasformato la tua vita, di quell’incontro, di quel pellegrinaggio… Ognuno sa dov’è la propria Galilea, ciascuno di noi conosce il proprio luogo di risurrezione interiore, quello iniziale, quello fondante, quello che ha cambiato le cose. Non possiamo lasciarlo al passato, il Risorto ci invita ad andare lì per fare la Pasqua. Ricorda la tua Galilea, fanne memoria, ravvivala oggi. Torna a quel primo incontro. Chiediti come è stato e quando è stato, ricostruiscine il contesto, il tempo e il luogo, riprovane l’emozione e le sensazioni, rivivine i colori e i sapori. Perché tu sai, è quando hai dimenticato quel primo amore, è quando hai scordato quel primo incontro che è cominciata a depositarsi della polvere sul tuo cuore. E hai sperimentato la tristezza e, come per i discepoli, tutto è sembrato senza prospettiva, con un macigno a sigillare la speranza. Ma oggi, fratello, sorella, la forza di Pasqua invita a rotolare via i massi della delusione e della sfiducia; il Signore, esperto nel ribaltare le pietre tombali del peccato e della paura, vuole illuminare la tua memoria santa, il tuo ricordo più bello, rendere attuale quel primo incontro con Lui. Ricorda e cammina: ritorna a Lui, ritrova la grazia della risurrezione di Dio in te! Torna in Galilea, torna nella tua Galilea.

Fratelli, sorelle, seguiamo Gesù in Galilea, incontriamolo e adoriamolo lì dove Egli attende ognuno di noi. Ravviviamo la bellezza di quando, dopo averlo scoperto vivo, lo abbiamo proclamato Signore della nostra vita. Torniamo in Galilea, alla Galilea del primo amore: ognuno torni alla propria Galilea, quella del primo incontro, e risorgiamo a vita nuova!

SANTA MESSA IN COENA DOMINI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Casa Circondariale Minorile di Casal del Marmo
Giovedì Santo, 6 aprile 2023

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Attira l’attenzione come Gesù, proprio il giorno prima di essere crocifisso, fa questo gesto. Lavare i piedi, era abitudine a quel tempo perché le strade erano polverose, la gente veniva da fuori e nell’entrare in una casa, prima del banchetto, della riunione, si lavava i piedi. Ma chi lavava i piedi? Gli schiavi, perché era un lavoro da schiavo. Immaginiamo noi come sono rimasti sbalorditi i discepoli quando hanno visto che Gesù incomincia a fare questo gesto di uno schiavo. Ma egli lo fa per far capire loro il messaggio del giorno dopo che sarebbe morto come uno schiavo, per pagare il debito di tutti noi. Se noi ascoltassimo queste cose di Gesù, la vita sarebbe così bella perché ci affretteremmo ad aiutarci l’un l’altro, invece di fregare uno all’altro, di approfittarsi l’uno dell’altro, come ci insegnano i furbi. È tanto bello aiutarsi l’un l’altro, dare la mano: sono gesti umani, universali, ma che nascono da un cuore nobile. E Gesù oggi con questa celebrazione vuole insegnarci questo: la nobiltà del cuore. Ognuno di noi può dire: “Ma se il Papa sapesse le cose che io ho dentro…”. Ma Gesù le sa e ci ama cosi come siamo, e lava i piedi a tutti noi. Gesù non si spaventa mai delle nostre debolezze, non si spaventa mai perché Lui ha già pagato, soltanto vuole accompagnarci, vuole prenderci per mano perché la vita non sia tanto dura per noi. Io farò lo stesso gesto di lavare i piedi, ma non è una cosa folcloristica, no. Pensiamo che è un gesto che annuncia come dobbiamo essere noi, uno con l’altro. Nella società vediamo quanta gente si approfitta degli altri, quanta gente che è all’angolo e non riesce a uscire. Quante ingiustizie, quanta gente senza lavoro, quanta gente che lavora e viene pagano la metà, quanta gente che non ha i soldi per comprare le medicine, quante famiglie distrutte, tante cose brutte… E nessuno di noi può dire: “Io grazie a Dio non sono così sai” – “Se io non sono così è per la grazia di Dio!”; ognuno di noi può scivolare, ognuno di noi. E questa coscienza, questa certezza che ognuno di noi può scivolare è quello che ci dà la dignità - ascoltate la parola: la “dignità” - di essere peccatori. E Gesù ci vuole così e per questo ha voluto lavare i piedi e dire: “Io sono venuto per salvare voi, per servire voi”. Adesso io farò lo stesso come ricordo di questo che Gesù ci ha insegnato: aiutarsi gli uni gli altri. E così la vita è più bella e si può andare avanti così. Durante la lavanda dei piedi – spero di cavarmela perché non posso camminare bene – ma durante la lavanda dei piedi voi pensate: “Gesù mi ha lavato i piedi, Gesù mi ha salvato, e ho questa difficoltà adesso”. Ma passerà, il Signore è sempre accanto a te, mai abbandona, mai. Pensate questo. 

 
 

SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Pietro
Giovedì Santo, 6 aprile 2023

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«Lo spirito del Signore è sopra di me» (Lc 4,18): da questo versetto è cominciata la predicazione di Gesù e dallo stesso versetto ha preso avvio la Parola che abbiamo ascoltato oggi (cfr Is 61,1). Al principio, dunque, sta lo Spirito del Signore.

Ed è su di Lui che vorrei riflettere oggi con voi, cari confratelli, sullo Spirito del Signore. Perché senza lo Spirito del Signore non c’è vita cristiana e, senza la sua unzione, non c’è santità. Egli è il protagonista ed è bello oggi, nel giorno nativo del sacerdozio, riconoscere che c’è Lui all’origine del nostro ministero, della vita e della vitalità di ogni Pastore. La santa Madre Chiesa ci insegna infatti a professare che lo Spirito Santo «dà la vita»[1], come ha affermato Gesù dicendo: «È lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,63); insegnamento ripreso dall’apostolo Paolo, il quale scrisse che «la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Cor 3,6) e parlò della «legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2). Senza di Lui neppure la Chiesa sarebbe la Sposa vivente di Cristo, ma al più un’organizzazione religiosa - più o meno buona; non sarebbe il Corpo di Cristo, ma un tempio costruito da mani d’uomo. Come edificare allora la Chiesa, se non a partire dal fatto che siamo “templi dello Spirito Santo” che “abita in noi” (cfr 1 Cor 6,19; 3,16)? Non possiamo lasciarlo fuori casa o parcheggiarlo in qualche zona devozionale, no, al centro! Abbiamo bisogno ogni giorno di dire: “Vieni, perché senza la tua forza nulla è nell’uomo”[2].

Lo Spirito del Signore è sopra di me. Ciascuno di noi può dirlo; e non è presunzione, è realtà, in quanto ogni cristiano, in particolare ogni sacerdote, può fare proprie le parole che seguono: «perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione» (Is 61,1). Fratelli, senza merito, per pura grazia abbiamo ricevuto un’unzione che ci ha fatto padri e pastori nel Popolo santo di Dio. Soffermiamoci allora su questo aspetto dello Spirito: l’unzione.

Dopo la prima “unzione” che avvenne nel grembo di Maria, lo Spirito scese su Gesù al Giordano. In seguito a ciò, come spiega San Basilio, «ogni azione [di Cristo] si andava compiendo con la compresenza dello Spirito Santo»[3]. Con la potenza di quella unzione, infatti, predicava e operava segni, in virtù di essa «da lui usciva una forza che guariva tutti» (Lc 6,19). Gesù e lo Spirito operano sempre insieme, così da essere come le due mani del Padre[4] - Ireneo dice questo - che, protese verso di noi, ci abbracciano e ci risollevano. E da loro sono state segnate le nostre mani, unte dallo Spirito di Cristo. Sì, fratelli, il Signore non ci ha solo scelti e chiamati di qua, di là: ha riversato in noi l’unzione del suo Spirito, lo stesso che è disceso sugli Apostoli. Fratelli noi siamo degli “unti”.

Guardiamo dunque a loro, agli Apostoli. Gesù li scelse e sulla sua chiamata lasciarono le barche, le reti, la casa e così via... L’unzione della Parola cambiò la loro vita. Con entusiasmo seguirono il Maestro e cominciarono a predicare, convinti di compiere in seguito cose ancora più grandi; finché arrivò la Pasqua. Lì tutto sembrò fermarsi: giunsero a rinnegare e abbandonare il Maestro. Non dobbiamo avere paura. Siamo coraggiosi nel leggere la nostra propria vita e le nostre cadute. Giunsero a rinnegare e abbandonare il Maestro, Pietro, il primo. Fecero i conti con la loro inadeguatezza e compresero di non averlo capito: il «non conosco quest’uomo» (Mc 14,71), che Pietro scandì nel cortile del sommo sacerdote dopo l’ultima Cena, non è solo una difesa impulsiva, ma un’ammissione di ignoranza spirituale: lui e gli altri forse si aspettavano una vita di successi dietro a un Messia trascinatore di folle e operatore di prodigi, ma non riconoscevano lo scandalo della croce, che sbriciolò le loro certezze. Gesù sapeva che da soli non ce l’avrebbero fatta e per questo promise loro il Paraclito. E fu proprio quella “seconda unzione”, a Pentecoste, a trasformare i discepoli portandoli a pascere il gregge di Dio e non più sé stessi. E questa è la contraddizione da risolvere: sono pastore del popolo di Dio o di me stesso? E c’è lo Spirito ad insegnarmi la strada. Fu quell’unzione di fuoco a estinguere la loro religiosità centrata su sé stessi e sulle proprie capacità: accolto lo Spirito, evaporano le paure e i tentennamenti di Pietro; Giacomo e Giovanni, bruciati dal desiderio di dare la vita, smettono di inseguire posti d’onore (cfr Mc 10,35-45), il carrierismo nostro, fratelli; gli altri non stanno più chiusi e timorosi nel Cenacolo, ma escono e diventano apostoli nel mondo. È lo spirito a cambiare il nostro cuore, a metterlo in quel piano diverso, differente.

Fratelli, un simile itinerario abbraccia la nostra vita sacerdotale e apostolica. Anche per noi c’è stata una prima unzione, cominciata con una chiamata d’amore che ci ha rapito il cuore. Per essa abbiamo lasciato gli ormeggi e su quell’entusiasmo genuino è scesa la forza dello Spirito, che ci ha consacrato. Poi, secondo i tempi di Dio, giunge per ciascuno la tappa pasquale, che segna il momento della verità. Ed è un momento di crisi, che ha varie forme. A tutti, prima o poi, succede di sperimentare delusioni, fatiche, debolezze, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale, mentre subentra una certa abitudinarietà e alcune prove, prima difficili da immaginare, fanno apparire la fedeltà più scomoda rispetto a un tempo. Questa tappa - di questa tentazione, di questa prova che tutti noi abbiamo avuto, abbiamo e avremo – questa tappa rappresenta un crinale decisivo per chi ha ricevuto l’unzione. Si può uscirne male, planando verso una certa mediocrità, trascinandosi stanchi in una “normalità” dove si insinuano tre tentazioni pericolose: quella del compromesso, per cui ci si accontenta di ciò che si può fare; quella dei surrogati, per cui si tenta di “ricaricarsi” con altro rispetto alla nostra unzione; quella dello scoraggiamento – che è la più comune -, per cui, scontenti, si va avanti per inerzia. Ed ecco qui il grande rischio: mentre restano intatte le apparenze – “Io sono sacerdote, io sono prete” -, ci si ripiega su di sé e si tira a campare svogliati; la fragranza dell’unzione non profuma più la vita e il cuore; e il cuore non si dilata ma si restringe, avvolto nel disincanto. È un distillato, sai? Quando il sacerdozio lentamente va scivolando sul clericalismo e il sacerdote si dimentica di essere pastore del popolo, per diventare un chierico di Stato.

Ma questa crisi può diventare anche la svolta del sacerdozio, la «tappa decisiva della vita spirituale, in cui deve effettuarsi l’ultima scelta tra Gesù e il mondo, tra l’eroicità della carità e la mediocrità, tra la croce e un certo benessere, tra la santità e un’onesta fedeltà all’impegno religioso»[5]. Alla fine di questa celebrazione vi daranno come dono un classico, un libro che tratta su questo problema: “La seconda chiamata”, è un classico di padre Voillaume che tocca questo problema, leggetelo. Poi tutti noi abbiamo bisogno di riflettere su questo momento del nostro sacerdozio. È il momento benedetto in cui noi, come i discepoli a Pasqua, siamo chiamati a essere «abbastanza umili per confessarci vinti dal Cristo umiliato e crocifisso, e per accettare di iniziare un nuovo cammino, quello dello Spirito, della fede e di un amore forte e senza illusioni»[6]. È il chairos in cui scopre che «il tutto non si riduce ad abbandonare la barca e le reti per seguire Gesù durante un certo tempo, ma richiede di andare sino al Calvario, di accoglierne la lezione e il frutto, e di andare con l’aiuto dello Spirito Santo sino alla fine di una vita che deve terminare nella perfezione della divina Carità»[7]. Con l’aiuto dello Spirito Santo: è il tempo, per noi come per gli Apostoli, di una “seconda unzione”, tempo di una seconda chiamata che dobbiamo ascoltare, per la seconda unzione, dove accogliere lo Spirito non sull’entusiasmo dei nostri sogni, ma sulla fragilità della nostra realtà. È un’unzione che fa verità nel profondo, che permette allo Spirito di ungerci le debolezze, le fatiche, le povertà interiori. Allora l’unzione profuma nuovamente: di Lui, non di noi. In questo momento, interiormente, sto facendo memoria di alcuni di voi che sono in crisi – diciamo così – che sono disorientati e che non sanno come prendere la strada, come riprendere la strada in questa seconda unzione dello Spirito. A questi fratelli - io li ho presenti – semplicemente dico: coraggio, il Signore è più grande delle tue debolezze, dei tuoi peccati. Affidati al Signore e lasciati chiamare una seconda volta, questa volta con l’unzione dello Spirito Santo. La doppia vita non ti aiuterà; buttare tutto dalla finestra, nemmeno. Guarda avanti, lasciati carezzare per l’unzione dello Spirito Santo.

 E la via per questo passo di maturazione è ammettere la verità della propria debolezza. A questo ci esorta «lo Spirito della verità» (Gv 16,13), che ci smuove a guardarci dentro fino in fondo, a chiederci: la mia realizzazione dipende dalla mia bravura, dal ruolo che ottengo, dai complimenti che ricevo, dalla carriera che faccio, dai superiori o collaboratori, o dai confort che mi posso garantire, oppure dall’unzione che profuma la mia vita? Fratelli, la maturità sacerdotale passa dallo Spirito Santo, si compie quando Lui diventa il protagonista della nostra vita. Allora tutto cambia prospettiva, anche le delusioni e le amarezze – anche i peccati - , perché non si tratta più di cercare di stare meglio aggiustando qualcosa, ma di consegnarci, senza trattenere nulla, a Chi ci ha impregnati nella sua unzione e vuole scendere in noi fino in fondo. Fratelli, riscopriamo allora che la vita spirituale diventa libera e gioiosa non quando si salvano le forme e si cuce una toppa, ma quando si lascia allo Spirito l’iniziativa e, abbandonati ai suoi disegni, ci disponiamo a servire dove e come ci viene chiesto: il nostro sacerdozio non cresce per rammendo, ma per traboccamento!

Se lasciamo agire in noi lo Spirito della verità custodiremo l’unzione – custodire l’unzione -,perché le falsità – le ipocrisie clericali – le falsità con cui siamo tentati di convivere verranno alla luce subito. E lo Spirito, il quale “lava ciò che è sordido”, ci suggerirà, senza stancarsi, di “non macchiare l’unzione”, nemmeno un poco. Viene alla mente quella frase del Qoelet, che dice: «Una mosca morta guasta l’unguento del profumiere» (10,1). È vero, ogni doppiezza – la doppiezza clericale, per favore – ogni doppiezza che si insinua è pericolosa: non va tollerata, ma portata alla luce dello Spirito. Perché se «niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce» (Ger 17,9), lo Spirito Santo, Lui solo, ci guarisce dalle infedeltà (cfr Os 14,5). È per noi una lotta irrinunciabile: è infatti indispensabile, come scrisse San Gregorio Magno, che «chi annuncia la parola di Dio, prima si dedichi al proprio modo di vivere, perché poi, attingendo dalla propria vita, impari cosa e come dirlo. [...] Nessuno presuma di dire fuori ciò che prima non ha ascoltato dentro»[8]. Ed è lo Spirito il maestro interiore da ascoltare, sapendo che non c’è nulla di noi che Egli non voglia ungere. Fratelli, custodiamo l’unzione: invocare lo Spirito sia non una pratica saltuaria, ma il respiro di ogni giorno. Vieni, vieni, custodisci l’unzione. Io, consacrato da Lui, sono chiamato a immergermi in Lui, a far entrare la sua luce nelle mie opacità –ne abbiamo tante - per ritrovare la verità di quello che sono. Lasciamoci spingere da Lui a combattere le falsità che si agitano in noi; e lasciamoci rigenerare da Lui nell’adorazione, perché quando adoriamo il Signore Egli riversa nei nostri cuori il suo Spirito.

«Lo spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato», prosegue la profezia, e mi ha mandato a portare un lieto annuncio, liberazione, guarigione e grazia (cfr Is 61,1-2; Lc 4,18-19): in una parola, a portare armonia dove non c’è. Perché come dice San Basilio: “Lo Spirito è l’armonia”, è Lui che fa l’armonia. Dopo avervi parlato dell’unzione, vorrei dirvi qualcosa su questa armonia che ne è la conseguenza. Lo Spirito Santo, infatti, è armonia. Anzitutto in Cielo: San Basilio spiega che «tutta quella sovraceleste e indicibile armonia nel servizio di Dio e nella sinfonia vicendevole delle potenze sovracosmiche, è impossibile che sia conservata se non per l’autorità dello Spirito»[9]. E poi in terra: nella Chiesa Egli è infatti quella «divina e musicale Armonia»[10] che tutto lega. Ma pensate a un presbiterio senza armonia, senza lo Spirito: non funziona. Suscita la diversità dei carismi e la ricompone in unità, crea una concordia che non si fonda sull’omologazione, ma sulla creatività della carità. Così fa l’armonia tra i molti. Così fa armonia in un presbitero. Durante gli anni del Concilio Vaticano II, che è stato un dono dello Spirito, un teologo pubblicò uno studio in cui parlò dello Spirito non in chiave individuale, ma plurale. Invitò a pensarlo come una Persona divina non tanto singolare, ma “plurale”, come il “noi di Dio”, il noi del Padre e del Figlio, perché è il loro nesso, è in sé stesso concordia, comunione, armonia[11]. Io ricordo che quando ho letto questo trattato teologico -  era in teologia, studiando – mi sono scandalizzato: sembrava un’eresia, perché nella nostra formazione non si capiva bene come era lo Spirito Santo.

Creare armonia è quanto desidera, soprattutto attraverso coloro nei quali ha riversato la sua unzione. Fratelli, costruire l’armonia tra noi non è tanto un buon metodo affinché la compagine ecclesiale proceda meglio, non è ballare il minuet, non è questione di strategia o di cortesia: è un’esigenza interna alla vita dello Spirito. Si pecca contro lo Spirito che è comunione quando si diventa, anche per leggerezza, strumenti di divisione, per esempio – e torniamo sullo stesso tema - col chiacchiericcio. Quando diventiamo strumenti di divisione pecchiamo contro lo Spirito. E si fa il gioco del nemico, che non viene allo scoperto e ama le dicerie e le insinuazioni, fomenta partiti e cordate, alimenta la nostalgia del passato, la sfiducia, il pessimismo, la paura. Stiamo attenti, per favore, a non sporcare l’unzione dello Spirito e la veste della Santa Madre Chiesa con la disunione, con le polarizzazioni, con ogni mancanza di carità e di comunione. Ricordiamo che lo Spirito, “il noi di Dio”, predilige la forma comunitaria: cioè la disponibilità rispetto alle proprie esigenze, l’obbedienza rispetto ai propri gusti, l’umiltà rispetto alle proprie pretese.

L’armonia non è una virtù tra le altre, è di più. San Gregorio Magno scrive: «Quanto valga la virtù della concordia lo dimostra il fatto che, senza di essa, tutte le altre virtù non valgono assolutamente nulla»[12]. Aiutiamoci, fratelli, a custodire l’armonia, custodire l’armonia – questo sarebbe il compito - cominciando non dagli altri, ma ciascuno da sé stesso; chiedendoci: nelle mie parole, nei miei commenti, in quello che dico e scrivo c’è il timbro dello Spirito o quello del mondo? Penso anche alla gentilezza del sacerdote - ma tante volte i preti, noi…siamo dei maleducati - : pensiamo alla gentilezza del sacerdote, se la gente trova persino in noi persone insoddisfatte, persone scontente, zitellone, che criticano e puntano il dito, dove vedrà l’armonia? Quanti non si avvicinano o si allontanano perché nella Chiesa non si sentono accolti e amati, ma guardati con sospetto e giudicati! In nome di Dio, accogliamo e perdoniamo, sempre! E ricordiamo che l’essere spigolosi e lamentosi, oltre a non produrre nulla di buono, corrompe l’annuncio, perché contro-testimonia Dio, che è comunione e armonia. E Ciò dispiace tanto e anzitutto allo Spirito Santo, che l’apostolo Paolo ci esorta a non rattristare (cfr Ef 4,30).

Fratelli, vi lascio questi pensieri che sono usciti dal cuore e concludo rivolgendovi una parola semplice e importante: grazie. Grazie per la vostra testimonianza, grazie per il vostro servizio; grazie per tanto bene nascosto che fate, grazie per il perdono e la consolazione che regalate in nome di Dio: perdonare sempre, per favore, mai negare il perdono; grazie per il vostro ministero, che spesso si svolge tra tante fatiche, incomprensioni e pochi riconoscimenti. Fratelli, lo Spirito di Dio, che non lascia deluso chi ripone in Lui la propria fiducia, vi colmi di pace e porti a compimento ciò che in voi ha iniziato, perché siate profeti della sua unzione e apostoli di armonia.

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CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME
E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 2 aprile 2023

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«Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). È l’invocazione che la Liturgia oggi ci ha fatto ripetere nel Salmo responsoriale (cfr Sal 22,2) ed è l’unica pronunciata sulla croce da Gesù nel Vangelo che abbiamo ascoltato. Sono dunque le parole che ci portano al cuore della passione di Cristo, al culmine delle sofferenze che ha patito per salvarci. “Perché mi hai abbandonato?”.

Le sofferenze di Gesù sono state tante, e ogni volta che ascoltiamo il racconto della passione ci entrano dentro. Sono state sofferenze del corpo: pensiamo agli schiaffi, alle percosse, alla flagellazione, alla corona di spine, alla tortura della croce. Sono state sofferenze dell’anima: il tradimento di Giuda, i rinnegamenti di Pietro, le condanne religiose e civili, lo scherno delle guardie, gli insulti sotto la croce, il rifiuto di tanti, il fallimento di tutto, l’abbandono dei discepoli. Eppure, in tutto questo dolore a Gesù restava una certezza: la vicinanza del Padre. Ma ora accade l’impensabile; prima di morire grida: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». L’abbandono di Gesù.

Ecco la sofferenza più lacerante, è la sofferenza dello spirito: nell’ora più tragica Gesù prova l’abbandono da parte di Dio. Mai, prima di allora, aveva chiamato il Padre con il nome generico di Dio. Per trasmetterci la forza di quel fatto, il Vangelo riporta la frase anche in aramaico: è l’unica, tra quelle dette da Gesù in croce, che ci giunge in lingua originale. L’evento reale è l’abbassamento estremo, cioè l’abbandono di suo Padre, l’abbandono di Dio. Il Signore arriva a soffrire per amore nostro quanto per noi è difficile persino comprendere. Vede il cielo chiuso, sperimenta la frontiera amara del vivere, il naufragio dell’esistenza, il crollo di ogni certezza: grida “il perché dei perché”. “Tu, Dio, perché?”.

Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Il verbo “abbandonare” nella Bibbia è forte; compare in momenti di dolore estremo: in amori falliti, respinti e traditi; in figli rifiutati e abortiti; in situazioni di ripudio, vedovanza e orfananza; in matrimoni esausti, in esclusioni che privano dei legami sociali, nell’oppressione dell’ingiustizia e nella solitudine della malattia: insomma, nelle più drastiche lacerazioni dei legami. Lì, si dice questa parola: “abbandono”. Cristo ha portato questo sulla croce, caricandosi il peccato del mondo. E al culmine Egli, il Figlio unigenito e prediletto, ha provato la situazione a Lui più estranea: l’abbandono, la lontananza di Dio.

E perché è arrivato a tanto? per noi, non c’è un’altra risposta. Per noi. Fratelli e sorelle, oggi questo non è uno spettacolo. Ognuno, ascoltando l’abbandono di Gesù, ognuno di noi si dica: per me. Questo abbandono è il prezzo che ha pagato per me. Si è fatto solidale con ognuno di noi fino al punto estremo, per essere con noi fino in fondo. Ha provato l’abbandono per non lasciarci ostaggi della desolazione e stare al nostro fianco per sempre. L’ha fatto per me, per te, perché quando io, tu o chiunque altro si vede con le spalle al muro, perso in un vicolo cieco, sprofondato nell’abisso dell’abbandono, risucchiato nel vortice dei tanti “perché” senza risposta, ci sia una speranza. Lui, per te, per me. Non è la fine, perché Gesù è stato lì e ora è con te: Lui, che ha sofferto la lontananza dell’abbandono per accogliere nel suo amore ogni nostra distanza. Perché ciascuno di noi possa dire: nelle mie cadute – ognuno di noi è caduto tante volte –, nella mia desolazione, quando mi sento tradito, o ho tradito gli altri, quando mi sento scartato o ho scartato gli altri, quando mi sento abbandonato o ho abbandonato gli altri, pensiamo che Lui è stato abbandonato, tradito, scartato. E lì troviamo Lui. Quando mi sento sbagliato e perso, quando non ce la faccio più, Lui è con me; nei miei tanti perché senza risposta, Lui è lì.

Il Signore ci salva così, dal di dentro dei nostri “perché”. Da lì dischiude la speranza che non delude. Sulla croce, infatti, mentre prova l’estremo abbandono, non si lascia andare alla disperazione – questo è il limite –, ma prega e si affida. Grida il suo “perché” con le parole di un salmo (22,2) e si consegna nelle mani del Padre, anche se lo sente lontano (cfr Lc 23,46) o non lo sente perché si trova abbandonato. Nell’abbandono si affida. Nell’abbandono continua ad amare i suoi che l’avevano lasciato solo. Nell’abbandono perdona i suoi crocifissori (v. 34). Ecco che l’abisso dei tanti nostri mali viene immerso in un amore più grande, così che ogni nostra separazione si trasforma in comunione.

Fratelli e sorelle, un amore così, tutto per noi, fino alla fine, l’amore di Gesù è capace di trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne. È un amore di pietà, di tenerezza, di compassione. Lo stile di Dio è questo: vicinanza, compassione e tenerezza. Dio è così. Cristo abbandonato ci smuove a cercarlo e ad amarlo negli abbandonati. Perché in loro non ci sono solo dei bisognosi, ma c’è Lui, Gesù abbandonato, Colui che ci ha salvati scendendo fino al fondo della nostra condizione umana. È con ognuno di loro, abbandonati fino alla morte… Penso a quell’uomo cosiddetto “di strada”, tedesco, che morì sotto il colonnato, solo, abbandonato. È Gesù per ognuno di noi. Tanti hanno bisogno della nostra vicinanza, tanti abbandonati. Anch’io ho bisogno che Gesù mi accarezzi e si avvicini a me, e per questo vado a trovarlo negli abbandonati, nei soli. Egli desidera che ci prendiamo cura dei fratelli e delle sorelle che più assomigliano a Lui, a Lui nell’atto estremo del dolore e della solitudine. Oggi, cari fratelli e sorelle, sono tanti “cristi abbandonati”. Ci sono popoli interi sfruttati e lasciati a sé stessi; ci sono poveri che vivono agli incroci delle nostre strade e di cui non abbiamo il coraggio di incrociare lo sguardo; ci sono migranti che non sono più volti ma numeri; ci sono detenuti rifiutati, persone catalogate come problema. Ma ci sono anche tanti cristi abbandonati invisibili, nascosti, che vengono scartati coi guanti bianchi: bambini non nati, anziani lasciati soli – può essere tuo papà, tua mamma forse, il nonno, la nonna, abbandonati negli istituti geriatrici –, ammalati non visitati, disabili ignorati, giovani che sentono un grande vuoto dentro senza che alcuno ascolti davvero il loro grido di dolore. E non trovano altra strada se non il suicidio. Gli abbandonati di oggi. I cristi di oggi.

Gesù abbandonato ci chiede di avere occhi e cuore per gli abbandonati. Per noi, discepoli dell’Abbandonato, nessuno può essere emarginato, nessuno può essere lasciato a sé stesso; perché, ricordiamolo, le persone rifiutate ed escluse sono icone viventi di Cristo, ci ricordano il suo amore folle, il suo abbandono che ci salva da ogni solitudine e desolazione. Fratelli e sorelle, chiediamo oggi questa grazia: di saper amare Gesù abbandonato e di saper amare Gesù in ogni abbandonato, in ogni abbandonata. Chiediamo la grazia di saper vedere, di saper riconoscere il Signore che ancora grida in loro. Non permettiamo che la sua voce si perda nel silenzio assordante dell’indifferenza. Non siamo stati lasciati soli da Dio; prendiamoci cura di chi viene lasciato solo. Allora, soltanto allora, faremo nostri i desideri e i sentimenti di Colui che per noi «svuotò se stesso» (Fil 2,7). Si svuotò totalmente per noi.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 26 marzo 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, quinta domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenta la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). È l’ultimo dei miracoli di Gesù narrati prima della Pasqua: la risurrezione del suo amico Lazzaro. Lazzaro è un caro amico di Gesù, il quale sa che sta per morire; si mette in cammino, ma arriva a casa sua quattro giorni dopo la sepoltura, quando ogni speranza è ormai perduta. La sua presenza però riaccende un po’ di fiducia nel cuore delle sorelle Marta e Maria (cfr vv. 22.27). Esse, pur nel dolore, si aggrappano a questa luce, a questa piccola speranza. E Gesù le invita ad avere fede e chiede di aprire il sepolcro. Poi prega il Padre e grida a Lazzaro: «Vieni fuori!» (v. 43). E questi torna a vivere ed esce. Questo è il miracolo, così, semplice.

Il messaggio è chiaro: Gesù dà la vita anche quando sembra non esserci più speranza. Capita, a volte, di sentirsi senza speranza – a tutti è capitato questo –, oppure di incontrare persone che hanno smesso di sperare, amareggiate perché hanno vissuto cose brutte, il cuore ferito non può sperare. Per una perdita dolorosa, una malattia, una delusione cocente, per un torto o un tradimento subito, per un grave errore commesso… hanno smesso di sperare. A volte sentiamo qualcuno che dice: “Non c’è più niente da fare!”, e chiude la porta ad ogni speranza. Sono momenti in cui la vita sembra un sepolcro chiuso: tutto è buio, intorno si vedono solo dolore e disperazione. Il miracolo di oggi ci dice che non è così, la fine non è questa, che in questi momenti non siamo soli, anzi che proprio in questi momenti Lui si fa più che mai vicino per ridarci vita. Gesù piange: il Vangelo dice che Gesù, davanti al sepolcro di Lazzaro ha pianto, e oggi Gesù piange con noi, come ha potuto piangere per Lazzaro: il Vangelo ripete due volte che si commosse (cfr vv. 33.38) e sottolinea che scoppiò in pianto (cfr v. 35). E al tempo stesso Gesù ci invita a non smettere di credere e di sperare, a non lasciarci schiacciare dai sentimenti negativi, che ti tolgono il pianto. Si avvicina ai nostri sepolcri e dice a noi, come allora: «Togliete la pietra» (v. 39). In questi momenti noi abbiamo come una pietra dentro e l’unico capace di toglierla è Gesù, con la sua parola: “Togliete la pietra”.

Questo dice Gesù, anche a noi. Togliete la pietra: il dolore, gli errori, anche i fallimenti, non nascondeteli dentro di voi, in una stanza buia e solitaria, chiusa. Togliete la pietra: tirate fuori tutto quello che c’è dentro. “Ah, mi dà vergogna”. Gettatelo in me con fiducia, dice il Signore, io non mi scandalizzo; gettatelo in me senza timore, perché io sono con voi, vi voglio bene e desidero che torniate a vivere. E, come a Lazzaro, ripete a ognuno di noi: Vieni fuori! Rialzati, riprendi il cammino, ritrova fiducia! Quante volte, nella vita, ci siamo trovati così, in questa situazione di non avere forza per rialzarci. E Gesù: “Vai, vai avanti! Io sono con te”. Ti prendo io per mano, dice Gesù, come quando da piccolo imparavi a fare i primi passi. Caro fratello, cara sorella, togliti le bende che ti legano (cfr v. 45); per favore, non cedere al pessimismo che deprime, non cedere al timore che isola, non cedere allo scoraggiamento per il ricordo di brutte esperienze, non cedere alla paura che paralizza. Gesù ci dice: “Io ti voglio libero, ti voglio vivo, non ti abbandono e sono con te! È tutto buio, ma io sono con te! Non lasciarti imprigionare dal dolore, non lasciar morire la speranza. Fratello, sorella, ritorna a vivere!” – “E come faccio?” – “Prendimi per mano”, e Lui ci prende per mano. Lasciati tirare fuori: e Lui è capace di farlo. In questi momenti brutti che succedono a tutti noi.

Cari fratelli e sorelle, questo brano del capitolo 11 del Vangelo di Giovanni, che fa tanto bene leggere, è un inno alla vita, e lo si proclama quando la Pasqua è vicina. Forse anche noi in questo momento portiamo nel cuore qualche peso o qualche sofferenza, che sembrano schiacciarci; qualche cosa brutta, qualche peccato vecchio che non riusciamo a tirare fuori, qualche errore di gioventù, non si sa mai. Queste cose brutte devono uscire. E Gesù dice: “Vieni fuori!”. Allora è il momento di togliere la pietra e di uscire incontro a Gesù, che è vicino. Riusciamo ad aprirgli il cuore e ad affidargli le nostre preoccupazioni? Lo facciamo? Riusciamo ad aprire il sepolcro dei problemi, siamo capaci, e a guardare oltre la soglia, verso la sua luce, o abbiamo paura di questo? E a nostra volta, come piccoli specchi dell’amore di Dio, riusciamo a illuminare gli ambienti in cui viviamo con parole e gesti di vita? Testimoniamo la speranza e la gioia di Gesù? Noi, peccatori, tutti? E anche, vorrei dire una parola ai confessori: cari fratelli, non dimenticatevi che anche voi siete peccatori, e siete nel confessionale non per torturare, per perdonare, e perdonare tutto, come il Signore perdona tutto. Maria, Madre della speranza, rinnovi in noi la gioia di non sentirci soli e la chiamata a portare luce nel buio che ci circonda.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 19 marzo 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo ci mostra Gesù che ridona la vista a un uomo cieco dalla nascita (cfr Gv 9,1-41). Ma questo prodigio è accolto in malo modo da varie persone e gruppi. Vediamo nei particolari.

Ma prima vorrei dirvi: oggi, prendete il Vangelo di Giovanni e leggete voi questo miracolo di Gesù, è bellissimo il modo in cui Giovanni lo racconta. Capitolo 9, in due minuti si legge. Fa vedere come procede Gesù e come procede il cuore umano: il cuore umano buono, il cuore umano tiepido, il cuore umano timoroso, il cuore umano coraggioso. Capitolo 9 del Vangelo di Giovanni. Fatelo oggi, vi aiuterà tanto. E in che modo le persone accolgono questo segno?

Anzitutto ci sono i discepoli di Gesù, che di fronte al cieco nato finiscono nel chiacchiericcio: si chiedono se la colpa sia dei genitori o sua (cfr v. 2). Cercano un colpevole; e noi tante volte cadiamo in questo che è tanto comodo: cercare un colpevole, anziché porsi domande impegnative nella vita. E oggi possiamo dire: cosa significa per noi la presenza di questa persona, cosa chiede a noi? Poi, avvenuta la guarigione, le reazioni aumentano. La prima è quella dei vicini, che sono scettici: “Quest’uomo è stato sempre cieco: non è possibile che ora veda, non può essere lui!, è un altro”: scetticismo (cfr vv. 8-9). Per loro è inaccettabile, meglio lasciare tutto come era prima (cfr v. 16) e non mettersi in questo problema. Hanno paura, temono le autorità religiose e non si pronunciano (cfr vv. 18-21). In tutte queste reazioni, emergono cuori chiusi di fronte al segno di Gesù, per motivi diversi: perché cercano un colpevole, perché non sanno stupirsi, perché non vogliono cambiare, perché sono bloccati dalla paura. E tante situazioni assomigliano oggi a questa. Davanti a una cosa che è proprio un messaggio di testimonianza di una persona, è un messaggio di Gesù, noi cadiamo in questo: cerchiamo un’altra spiegazione, non vogliamo cambiare, cerchiamo una via di uscita più elegante che accettare la verità.

L’unico che reagisce bene è il cieco: lui, felice di vedere, testimonia quanto gli è accaduto nel modo più semplice: «Ero cieco e ora ci vedo» (v. 25). Dice la verità. Prima era costretto a chiedere l’elemosina per vivere e subiva i pregiudizi della gente: “è povero e cieco dalla nascita, deve soffrire, deve pagare per i suoi peccati o per quelli dei suoi antenati”. Adesso, libero nel corpo e nello spirito, rende testimonianza a Gesù: non inventa nulla e non nasconde nulla. “Ero cieco e adesso ci vedo”. Non ha paura di quello che diranno gli altri: il sapore amaro dell’emarginazione lo ha già conosciuto, per tutta la vita, ha già sentito su di sé l’indifferenza il disprezzo dei passanti, di chi lo considerava come uno scarto della società, utile al massimo per il pietismo di qualche elemosina. Ora, guarito, quegli atteggiamenti sprezzanti non li teme più, perché Gesù gli ha dato piena dignità. E questo è chiaro, succede sempre: quando Gesù ci guarisce, ci ridona dignità, la dignità della guarigione di Gesù, piena, una dignità che esce dal fondo del cuore, che prende tutta la vita; e Lui di sabato, davanti a tutti, lo ha liberato e gli ha donato la vista senza chiedergli nulla, nemmeno un grazie, e lui ne rende testimonianza. Questa è la dignità di una persona nobile, di una persona che si sa guarita e riprende, rinasce; quel rinascere nella vita, di cui si parlava oggi in “A Sua Immagine”: rinascere.

Fratelli, sorelle, con tutti questi personaggi il Vangelo odierno mette anche noi nel mezzo della scena, così che ci chiediamo: che posizione prendiamo, che cosa avremmo detto allora? E soprattutto, che cosa facciamo oggi? Come il cieco, sappiamo vedere il bene ed esser grati per i doni che riceviamo? Mi domando: com’è la mia dignità? Com’è la tua dignità? Testimoniamo Gesù oppure spargiamo critiche e sospetti? Siamo liberi di fronte ai pregiudizi o ci associamo a quelli che diffondono negatività e pettegolezzi? Siamo felici di dire che Gesù ci ama, che ci salva oppure, come i genitori del cieco nato, ci lasciamo ingabbiare dal timore di quello che penserà la gente? I tiepidi di cuore che non accettano la verità e non hanno il coraggio di dire: “No, questo è così”. E ancora, come accogliamo le difficoltà e l’indifferenza degli altri? Come accogliamo le persone che hanno tante limitazioni nella vita? Siano fisiche, come questo cieco; siano sociali, come i mendicanti che troviamo per la strada? E questo lo accogliamo come una maledizione o come occasione per farci vicini a loro con amore?

Fratelli e sorelle, chiediamo oggi la grazia di stupirci ogni giorno dei doni di Dio e di vedere le varie circostanze della vita, anche le più difficili da accettare, come occasioni per operare il bene, come ha fatto Gesù col cieco. La Madonna ci aiuti in questo, insieme a San Giuseppe, uomo giusto e fedele.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 12 marzo 2023

Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona domenica!

Questa domenica il Vangelo ci presenta uno degli incontri più belli e affascinanti di Gesù, quello con la samaritana (cfr Gv 4,5-42). Gesù e i discepoli fanno sosta vicino a un pozzo in Samaria. Arriva una donna e Gesù le dice: «Dammi da bere» (v. 8). Vorrei soffermarmi proprio su questa espressione: Dammi da bere.

La scena ci mostra Gesù assetato e stanco, che si fa trovare al pozzo dalla samaritana nell’ora più calda, a mezzogiorno, e come un mendicante chiede ristoro. È un’immagine dell’abbassamento di Dio: Dio si abbassa in Gesù Cristo per la redenzione, viene da noi. In Gesù, Dio si è fatto uno di noi, si è abbassato; assetato come noi, soffre la nostra stessa arsura. Contemplando questa scena, ciascuno di noi può dire: il Signore, il Maestro «mi chiede da bere. Ha quindi sete come me. Ha la mia sete. Mi sei vicino davvero, Signore! Sei legato alla mia povertà – non posso crederlo! – mi hai preso dal basso, dal più basso di me stesso, ove nessuno mi raggiunge» (P. Mazzolari, La Samaritana, Bologna 2022, 55-56). E tu sei venuto da me, in basso, e mi hai preso da lì, perché tu avevi, e hai, sete di me. La sete di Gesù, infatti, non è solo fisica, esprime le arsure più profonde della nostra vita: è soprattutto sete del nostro amore. È più di un mendicante, è un assetato del nostro amore. Ed emergerà nel momento culminante della passione, sulla croce; lì, prima di morire, Gesù dirà: «Ho sete» (Gv 19,28). Quella sete dell’amore che lo ha portato a scendere, ad abbassarsi, ad essere uno di noi.

Ma il Signore, che chiede da bere, è Colui che dà da bere: incontrando la samaritana le parla dell’acqua viva dello Spirito Santo, e dalla croce effonde dal suo costato trafitto sangue e acqua (cfr Gv 19,34). Gesù, assetato d’amore, ci disseta d’amore. E fa con noi come con la samaritana: ci viene incontro nel nostro quotidiano, condivide la nostra sete, ci promette l’acqua viva che fa zampillare in noi la vita eterna (cfr Gv 4,14).

Dammi da bere. C’è un secondo aspetto. Queste parole non sono solo la richiesta di Gesù alla samaritana, ma un appello – a volte silenzioso – che ogni giorno si leva verso di noi e ci chiede di prenderci cura della sete altrui. Dammi da bere ci dicono quanti – in famiglia, sul posto di lavoro, negli altri luoghi che frequentiamo – hanno sete di vicinanza, di attenzione, di ascolto; ce lo dice chi ha sete della Parola di Dio e ha bisogno di trovare nella Chiesa un’oasi dove abbeverarsi. Dammi da bere è l’appello della nostra società, dove la fretta, la corsa al consumo e soprattutto l’indifferenza, questa cultura dell’indifferenza generano aridità e vuoto interiore. E – non dimentichiamolo – dammi da bere è il grido di tanti fratelli e sorelle a cui manca l’acqua per vivere, mentre si continua a inquinare e deturpare la nostra casa comune; e anch’essa, sfinita e riarsa, “ha sete”.

Davanti a queste sfide, il Vangelo di oggi offre ad ognuno di noi l’acqua viva che può farci diventare fonte di ristoro per gli altri. E allora, come la samaritana, che lasciò la sua anfora al pozzo e andò a chiamare la gente del villaggio (cfr v. 28), anche noi non penseremo più solo a placare la nostra sete, la nostra sete materiale, intellettuale o culturale, ma con la gioia di aver incontrato il Signore potremo dissetare altri: dare senso alla vita altrui, non come padroni, ma come servitori di questa Parola di Dio che ci ha assetato, che ci asseta continuamente; potremo capire la loro sete e condividere l’amore che Lui ha donato a noi. Mi viene di fare questa domanda, a me e a voi: siamo capaci di capire la sete degli altri? La sete della gente, la sete di tanti della mia famiglia, del mio quartiere? Oggi possiamo chiederci: io ho sete di Dio, mi rendo conto che ho bisogno del suo amore come dell’acqua per vivere? E poi, io che sono assetato, mi preoccupo della sete degli altri, la sete spirituale, la sete materiale?

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 5 marzo 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In questa seconda Domenica di Quaresima viene proclamato il Vangelo della Trasfigurazione: Gesù porta con sé, sul monte, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si rivela a loro in tutta la sua bellezza di Figlio di Dio (cfr Mt 17,1-9).

Fermiamoci un momento su questa scena e chiediamoci: in che cosa consiste questa bellezza? Cosa vedono i discepoli? Un effetto spettacolare? No, non è questo. Vedono la luce della santità di Dio risplendere nel volto e nelle vesti di Gesù, immagine perfetta del Padre. Si rivela la maestà di Dio, la bellezza di Dio. Ma Dio è Amore, e dunque i discepoli hanno visto con i loro occhi la bellezza e lo splendore dell’Amore divino incarnato in Cristo. Hanno avuto un anticipo del paradiso! Che sorpresa per i discepoli! Avevano avuto sotto gli occhi per tanto tempo il volto dell’Amore, e non si erano mai accorti di quanto fosse bello! Solo adesso se ne rendono conto e con tanta gioia, con immensa gioia.

Gesù, in realtà, con questa esperienza li sta formando, li sta preparando a un passo ancora più importante. Di lì a poco, infatti, dovranno saper riconoscere in Lui la stessa bellezza, quando salirà sulla croce e il suo volto sarà sfigurato. Pietro fatica a capire: vorrebbe fermare il tempo, mettere la scena in “pausa”, stare lì e prolungare questa esperienza meravigliosa; ma Gesù non lo permette. La sua luce, infatti, non si può ridurre a un “momento magico”! Così diventerebbe una cosa finta, artificiale, che si dissolve nella nebbia dei sentimenti passeggeri. Al contrario, Cristo è la luce che orienta il cammino, come la colonna di fuoco per il popolo nel deserto (cfr Es 13,21). La bellezza di Gesù non aliena i discepoli dalla realtà della vita, ma dà loro la forza di seguire Lui fino a Gerusalemme, fino alla croce. La bellezza di Cristo non è alienante, ti porta sempre avanti, non ti fa nascondere: vai avanti!

Fratelli e sorelle, questo Vangelo traccia anche per noi una strada: ci insegna quanto è importante stare con Gesù, anche quando non è facile capire tutto quello che dice e che fa per noi. È stando con Lui, infatti, che impariamo a riconoscere sul suo volto la bellezza luminosa dell’amore che si dona, anche quando porta i segni della croce. Ed è alla sua scuola che impariamo a cogliere la stessa bellezza nei volti delle persone che ogni giorno camminano accanto a noi: i familiari, gli amici, i colleghi, chi nei modi più vari si prende cura di noi. Quanti volti luminosi, quanti sorrisi, quante rughe, quante lacrime e cicatrici parlano d’amore attorno a noi! Impariamo a riconoscerli e a riempircene il cuore. E poi partiamo, per portare anche agli altri la luce che abbiamo ricevuto, con le opere concrete dell’amore (cfr 1 Gv 3,18), tuffandoci con più generosità nelle occupazioni quotidiane, amando, servendo e perdonando con più slancio e disponibilità. La contemplazione delle meraviglie di Dio, la contemplazione del volto di Dio, della faccia del Signore, ci deve spingere al servizio degli altri.

Possiamo chiederci: sappiamo riconoscere la luce dell’amore di Dio nella nostra vita? La riconosciamo con gioia e gratitudine nei volti delle persone che ci vogliono bene? Cerchiamo attorno a noi i segni di questa luce, che ci riempie il cuore e lo apre all’amore e al servizio? Oppure preferiamo i fuochi di paglia degli idoli, che ci alienano e ci chiudono in noi stessi?  La grande luce del Signore e la luce finta, artificiale degli idoli. Cosa preferisco io?

Maria, che ha custodito nel cuore la luce del suo Figlio, anche nel buio del Calvario, ci accompagni sempre sulla via dell’amore.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 26 febbraio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo di questa prima Domenica di Quaresima ci presenta Gesù nel deserto tentato dal diavolo (cfr Mt 4,1-11). Diavolo significa “divisore”. Il diavolo vuol sempre creare divisione, ed è ciò che si propone anche tentando Gesù. Vediamo allora da chi lo vuole dividere e in che modo lo tenta.

Da chi il diavolo vuole dividere Gesù? Dopo aver ricevuto il Battesimo da Giovanni nel Giordano, Gesù era stato chiamato dal Padre «il Figlio mio, l’amato» (Mt 3,17) e lo Spirito Santo era sceso su di Lui in forma di colomba (cfr v. 16). Il Vangelo ci presenta così le tre Persone divine unite nell’amore. Poi Gesù stesso dirà di essere venuto nel mondo per rendere anche noi partecipi dell’unità che c’è tra Lui e il Padre (cfr Gv 17,11). Il diavolo, invece, fa il contrario: entra in scena per dividere Gesù dal Padre e distoglierlo dalla sua missione di unità per noi. Divide sempre.

Vediamo ora in che modo prova a farlo. Il diavolo vuole approfittare della condizione umana di Gesù, che è debole perché ha digiunato quaranta giorni e ha fame (cfr Mt 4,2). Il maligno allora cerca di instillare in lui tre “veleni” potenti, per paralizzare la sua missione di unità. Questi veleni sono l’attaccamento, la sfiducia e il potere. Anzitutto il veleno dell’attaccamento alle cose, ai bisogni; con ragionamenti suadenti il diavolo prova a suggestionare Gesù: “Hai fame, perché devi digiunare? Ascolta il tuo bisogno, soddisfalo, ne hai il diritto e il potere: trasforma le pietre in pane”. Poi il secondo veleno, la sfiducia: “Sei sicuro – insinua il maligno – che il Padre voglia il tuo bene? Mettilo alla prova, ricattalo! Buttati giù dal punto più alto del tempio e fagli fare quello che vuoi tu”. Infine il potere: “Di tuo Padre non hai bisogno! Perché aspettare i suoi doni? Segui i criteri del mondo, prenditi tutto da solo e sarai potente!”. Le tre tentazioni di Gesù. E anche noi viviamo queste tre tentazioni, sempre. È terribile, ma è proprio così, anche per noi: l’attaccamento alle cose, la sfiducia e la sete di potere sono tre tentazioni diffuse e pericolose, che il diavolo usa per dividerci dal Padre e non farci più sentire fratelli e sorelle tra noi, per portarci alla solitudine e alla disperazione. Questo volle fare a Gesù, questo vuole fare a noi: portarci alla disperazione.

Ma Gesù vince le tentazioni. E come le vince? Evitando di discutere col diavolo e rispondendo con la Parola di Dio. Questo è importante: con il diavolo non si discute, con il diavolo non si dialoga! Gesù gli fa fronte con la Parola di Dio. Cita tre frasi della Scrittura che parlano di libertà dalle cose (cfr Dt 8,3), di fiducia (cfr Dt 6,16) e di servizio a Dio (cfr Dt 6,13), tre frasi opposte alle tentazioni. Non dialoga mai con il diavolo, non negozia con lui, ma respinge le sue insinuazioni con le Parole benefiche della Scrittura. È un invito anche per noi: con il diavolo non si discute! Non si negozia, non si dialoga; non lo si sconfigge trattando con lui, è più forte di noi. Il diavolo lo sconfiggiamo opponendogli con fede la Parola divina. In questo modo Gesù ci insegna a difendere l’unità con Dio e tra di noi dagli attacchi del divisore. La Parola divina che è la risposta di Gesù alla tentazione del diavolo.

E ci chiediamo: che posto ha nella mia vita la Parola di Dio? Ricorro ad essa nelle mie lotte spirituali? Se ho un vizio o una tentazione ricorrente, perché, facendomi aiutare, non cerco un versetto della Parola di Dio che risponda a quel vizio? Poi, quando arriva la tentazione, lo recito, lo prego confidando nella grazia di Cristo. Proviamo, ci aiuterà nelle tentazioni, ci aiuterà tanto, perché, tra le voci che si agitano dentro di noi, risuonerà quella benefica della Parola di Dio. Maria, che ha accolto la Parola di Dio e con la sua umiltà ha sconfitto la superbia del divisore, ci accompagni nella lotta spirituale della Quaresima.

SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di Santa Sabina
Mercoledì, 22 febbraio 2023

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«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2). Questa espressione dell’Apostolo Paolo ci aiuta ad entrare nello spirito del tempo quaresimale. La Quaresima è infatti il tempo favorevole per ritornare all’essenziale, per spogliarci di ciò che ci appesantisce, per riconciliarci con Dio, per ravvivare il fuoco dello Spirito Santo che abita nascosto tra le ceneri della nostra fragile umanità. Ritornare all’essenziale. È il tempo di grazia per mettere in pratica quello che il Signore ci ha chiesto nel primo versetto della Parola che abbiamo ascoltato: «Ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ritornare all’essenziale, che è il Signore.

Il rito delle ceneri ci introduce in questo cammino di ritorno e ci rivolge due inviti: ritornare alla verità di noi stessi e ritornare a Dio e ai fratelli.

Anzitutto, ritornare alla verità di noi stessi. Le ceneri ci ricordano chi siamo e da dove veniamo, ci riconducono alla verità fondamentale della vita: soltanto il Signore è Dio e noi siamo opera delle sue mani. Questa è la nostra verità. Noi abbiamo la vita mentre Lui è la vita. È Lui il Creatore, mentre noi siamo fragile argilla che dalle sue mani viene plasmata. Noi veniamo dalla terra e abbiamo bisogno del Cielo, di Lui; con Dio risorgeremo dalle nostre ceneri, ma senza di Lui siamo polvere. E mentre con umiltà chiniamo il capo per ricevere le ceneri, riportiamo allora alla memoria del cuore questa verità: siamo del Signore, apparteniamo a Lui. Egli, infatti,  «plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita» (Gen 2,7): esistiamo, cioè, perché Lui ha soffiato il respiro della vita in noi. E, come Padre tenero e misericordioso, vive anche Lui la Quaresima, perché ci desidera, ci attende, aspetta il nostro ritorno. E sempre ci incoraggia a non disperare, anche quando cadiamo nella polvere della nostra fragilità e del nostro peccato, perché «Egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 103,14). Riascoltiamo questo: Egli ricorda che siamo polvere. Dio lo sa; noi, invece, spesso lo dimentichiamo, pensando di essere autosufficienti, forti, invincibili senza di Lui; usiamo dei maquillage per crederci migliori di quelli che siamo: siamo polvere.

La Quaresima è dunque il tempo per ricordarci chi è il Creatore e chi la creatura, per proclamare che solo Dio è il Signore, per spogliarci della pretesa di bastare a noi stessi e della smania di metterci al centro, di essere i primi della classe, di pensare che con le nostre sole capacità possiamo essere protagonisti della vita e trasformare il mondo che ci circonda. Questo è il tempo favorevole per convertirci, per cambiare sguardo anzitutto su noi stessi, per guardarci dentro: quante distrazioni e superficialità ci distolgono da ciò che conta, quante volte ci focalizziamo sulle nostre voglie o su quello che ci manca, allontanandoci dal centro del cuore, scordando di abbracciare il senso del nostro essere al mondo. La Quaresima è un tempo di verità per far cadere le maschere che indossiamo ogni giorno per apparire perfetti agli occhi del mondo; per lottare, come ci ha detto Gesù nel Vangelo, contro le falsità e l’ipocrisia: non quelle degli altri, le nostre: guardarle in faccia e lottare.

C’è però un secondo passo: le ceneri ci invitano anche a ritornare a Dio e ai fratelli. Infatti, se ritorniamo alla verità di ciò che siamo e ci rendiamo conto che il nostro io non basta a sé stesso, allora scopriamo di esistere solo grazie alle relazioni: quella originaria con il Signore e quelle vitali con gli altri. Così, la cenere che oggi riceviamo sul capo ci dice che ogni presunzione di autosufficienza è falsa e che idolatrare l’io è distruttivo e ci chiude nella gabbia della solitudine: guardarsi allo specchio immaginando di essere perfetti, immaginando di essere al centro del mondo. La nostra vita, invece, è anzitutto una relazione: l’abbiamo ricevuta da Dio e dai nostri genitori, e sempre possiamo rinnovarla e rigenerarla grazie al Signore e a coloro che Egli ci mette accanto. La Quaresima è il tempo favorevole per ravvivare le nostre relazioni con Dio e con gli altri: per aprirci nel silenzio alla preghiera e uscire dalla fortezza del nostro io chiuso, per spezzare le catene dell’individualismo e dell’isolamento e riscoprire, attraverso l’incontro e l’ascolto, chi ci cammina accanto ogni giorno, e reimparare ad amarlo come fratello o sorella.

Fratelli e sorelle, come realizzare tutto ciò? Per compiere questo cammino – ritornare alla verità di noi stessi, ritornare a Dio e agli altri – siamo invitati a percorrere tre grandi vie: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Sono le vie classiche: non ci vogliono novità in questa strada. Gesù l’ha detto, è chiaro: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. E non si tratta di riti esteriori, ma di gesti che devono esprimere un rinnovamento del cuore. L’elemosina non è un gesto rapido per pulirsi la coscienza, per bilanciare un po’ lo squilibrio interiore, ma è un toccare con le proprie mani e con le proprie lacrime le sofferenze dei poveri; la preghiera non è ritualità, ma dialogo di verità e amore con il Padre; e il digiuno non è un semplice fioretto, ma un gesto forte per ricordare al nostro cuore ciò che conta e ciò che passa. Quello di Gesù è un «ammonimento che conserva anche per noi la sua salutare validità: ai gesti esteriori deve sempre corrispondere la sincerità dell’animo e la coerenza delle opere. A che serve infatti lacerarsi le vesti, se il cuore rimane lontano dal Signore, cioè dal bene e dalla giustizia?» (Benedetto XVI, Omelia mercoledì delle Ceneri, 1° marzo 2006). Troppe volte, invece, i nostri gesti e riti non toccano la vita, non fanno verità; magari li compiamo solo per farci ammirare dagli altri, per ricevere l’applauso, per prenderci il merito. Ricordiamoci questo: nella vita personale, come nella vita della Chiesa, non contano l’esteriorità, i giudizi umani e il gradimento del mondo; conta solo lo sguardo di Dio, che vi legge l’amore e la verità.

Se ci poniamo umilmente sotto il suo sguardo, allora l’elemosina, la preghiera e il digiuno non rimangono gesti esteriori, ma esprimono chi siamo veramente: figli di Dio e fratelli tra noi. L’elemosina, la carità, manifesterà la nostra compassione per chi è nel bisogno, ci aiuterà a ritornare agli altri; la preghiera darà voce al nostro intimo desiderio di incontrare il Padre, facendoci ritornare a Lui; il digiuno sarà la palestra spirituale per rinunciare con gioia a ciò che è superfluo e ci appesantisce, per diventare interiormente più liberi e ritornare alla verità di noi stessi. Incontro con il Padre, libertà interiore, compassione.

Cari fratelli e sorelle, chiniamo il capo, riceviamo le ceneri, rendiamo leggero il cuore. Mettiamoci in cammino nella carità: ci sono dati quaranta giorni favorevoli per ricordarci che il mondo non va rinchiuso nei confini angusti dei nostri bisogni personali e riscoprire la gioia non nelle cose da accumulare, ma nella cura di chi si trova nel bisogno e nell’afflizione. Mettiamoci in cammino nella preghiera: ci sono dati quaranta giorni favorevoli per ridare a Dio il primato nella vita, per rimetterci a dialogare con Lui con tutto il cuore, non nei ritagli di tempo. Mettiamoci in cammino nel digiuno: ci sono dati quaranta giorni favorevoli per ritrovarci, per arginare la dittatura delle agende sempre piene di cose da fare, le pretese di un ego sempre più superficiale e ingombrante, e scegliere ciò che conta.

Fratelli e sorelle, non disperdiamo la grazia di questo tempo santo: fissiamo il Crocifisso e camminiamo, rispondiamo con generosità ai richiami forti della Quaresima. E al termine del tragitto incontreremo con più gioia il Signore della vita, incontreremo Lui, l’unico che ci farà risorgere dalle nostre ceneri.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 19 febbraio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Le parole che Gesù ci rivolge nel Vangelo di questa domenica sono esigenti e sembrano paradossali: Egli ci invita a porgere l’altra guancia e ad amare perfino i nemici (cfr Mt 5,38-48). È normale per noi amare quelli che ci amano ed essere amici di chi ci è amico; eppure, Gesù ci provoca dicendo: se agite in questo modo, «che cosa fate di straordinario?» (v. 47). Che cosa fate di straordinario? Ecco il punto su cui vorrei attirare oggi la vostra attenzione, su questo cosa fate di straordinario.

“Straordinario” è ciò che va oltre i limiti del consueto, che supera le prassi abituali e i calcoli normali dettati dalla prudenza. In genere, noi cerchiamo invece di avere tutto abbastanza in ordine e sotto controllo, in modo che corrisponda alle nostre aspettative, alla nostra misura: temendo di non ricevere il contraccambio o di esporci troppo e poi restare delusi, preferiamo amare soltanto chi ci ama per evitare le delusioni, fare del bene solo a chi è buono con noi, essere generosi solo con chi può restituirci un favore; e a chi ci tratta male rispondiamo con la stessa moneta, così siamo in equilibrio. Ma il Signore ci ammonisce: questo non basta! Noi diremmo: questo non è cristiano! Se restiamo nell’ordinario, nel bilanciamento tra dare e ricevere, le cose non cambiano. Se Dio dovesse seguire questa logica, non avremmo speranza di salvezza! Ma, per nostra fortuna, l’amore di Dio è sempre “straordinario”, va oltre, va oltre i criteri abituali con cui noi umani viviamo le nostre relazioni.

Le parole di Gesù, allora, ci sfidano. Mentre noi tentiamo di restare nell’ordinario dei ragionamenti utilitari, Lui ci chiede di aprirci allo straordinario, allo straordinario di un amore gratuito; mentre noi tentiamo sempre di pareggiare i conti, Cristo ci stimola a vivere lo sbilanciamento dell’amore. Gesù non è un bravo ragioniere: no! Sempre conduce allo sbilanciamento dell’amore. Non meravigliamoci di questo. Se Dio non si fosse sbilanciato, noi non saremmo mai stati salvati: è stato lo sbilanciamento della croce che ci ha salvati! Gesù non sarebbe venuto a cercarci mentre eravamo perduti e lontani, non ci avrebbe amato fino alla fine, non avrebbe abbracciato la croce per noi, che non meritavamo tutto questo e non potevamo dargli nulla in cambio. Come scrive l’Apostolo Paolo, «a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7-8). Ecco, Dio ci ama mentre siamo peccatori, non perché siamo buoni o in grado di restituirgli qualcosa. Fratelli e sorelle, l’amore di Dio è un amore sempre in eccesso, sempre oltre i calcoli, sempre sproporzionato. E oggi chiede anche a noi di vivere in questo modo, perché solo così lo testimonieremo davvero.

Fratelli e sorelle, il Signore ci propone di uscire dalla logica del tornaconto e di non misurare l’amore sulla bilancia dei calcoli e delle convenienze. Ci invita a non rispondere al male con il male, a osare nel bene, a rischiare nel dono, anche se riceveremo poco o nulla in cambio. Perché è questo amore che lentamente trasforma i conflitti, accorcia le distanze, supera le inimicizie e guarisce le ferite dell’odio. Allora possiamo chiederci, ognuno di noi: io, nella mia vita, seguo la logica del tornaconto o quella della gratuità, come fa Dio? L’amore straordinario di Cristo non è facile, ma è possibile; è possibile perché Lui stesso ci aiuta donandoci il suo Spirito, il suo amore senza misura.

Preghiamo la Madonna, che rispondendo a Dio il suo “sì” senza calcoli, gli ha permesso di fare di lei il capolavoro della sua Grazia.

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 12 febbraio 2023

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Vangelo della liturgia odierna Gesù dice: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Dare compimento: questa è una parola-chiave per capire Gesù e il suo messaggio. Ma che cosa significa questo “dare compimento”? Per spiegarla, il Signore comincia a dire che cosa non è compimento. La Scrittura dice di “non uccidere”, ma questo per Gesù non basta se poi si feriscono i fratelli con le parole; la Scrittura dice di “non commettere adulterio”, ma ciò non basta se poi si vive un amore sporcato da doppiezze e falsità; la Scrittura dice di “non giurare il falso”, ma non basta fare un solenne giuramento se poi si agisce con ipocrisia (cfr Mt 5,21-37). Così non c’è compimento.

Per darci un esempio concreto, Gesù si concentra sul “rito dell’offerta”. Facendo un’offerta a Dio si ricambiava la gratuità dei suoi doni. Era un rito molto importante – fare un’offerta per ricambiare simbolicamente, diciamo così, la gratuità dei suoi doni –, tanto importante che era vietato interromperlo se non per motivi gravi. Ma Gesù afferma che si deve interromperlo se un fratello ha qualcosa contro di noi, per andare prima a riconciliarsi con lui (cfr vv. 23-24): solo così il rito è compiuto. Il messaggio è chiaro: Dio ci ama per primo, gratis, facendo il primo passo verso di noi senza che lo meritiamo; e allora noi non possiamo celebrare il suo amore senza fare a nostra volta il primo passo per riconciliarci con chi ci ha ferito. Così c’è compimento agli occhi di Dio, altrimenti l’osservanza esterna, puramente rituale, è inutile, diventa una finzione. In altre parole, Gesù ci fa capire che le norme religiose servono, sono buone, ma sono solo l’inizio: per dare loro compimento è necessario andare oltre la lettera e viverne il senso. I comandamenti che Dio ci ha donato non vanno rinchiusi nelle casseforti asfittiche dell’osservanza formale, se no rimaniamo in una religiosità esteriore e distaccata, servi di un “dio padrone” piuttosto che figli di Dio Padre. Gesù vuole questo: non avere l’idea di servire un Dio padrone, ma il Padre; e per questo è necessario andare oltre la lettera.

Fratelli e sorelle, questo problema non c’era solo ai tempi di Gesù, c’è anche oggi. A volte, per esempio, si sente dire: “Padre, io non ho ucciso, non ho rubato, non ho fatto male a nessuno…”, come dire: “Sono a posto”. Ecco l’osservanza formale, che si accontenta del minimo indispensabile, mentre Gesù ci invita al massimo possibile. Cioè Dio non ragiona per calcoli e tabelle; Lui ci ama come un innamorato: non al minimo, ma al massimo! Non ci dice: “Ti amo fino a un certo punto”. No, l’amore vero non è mai fino a un certo punto e non si sente mai a posto; l’amore va sempre oltre, non può farne a meno. Il Signore ce lo ha mostrato donandoci la vita sulla croce e perdonando i suoi uccisori (cfr Lc 23,34). E ci ha affidato il comandamento a cui più tiene: che ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amati (cfr Gv 15,12). Questo è l’amore che dà compimento alla Legge, alla fede, alla vera vita!

Allora, fratelli e sorelle, possiamo chiederci: come vivo io la fede? È una questione di calcoli, di formalismi, oppure una storia d’amore con Dio? Mi accontento soltanto di non fare del male, di tenere a posto “la facciata”, o cerco di crescere nell’amore a Dio e agli altri? E ogni tanto mi verifico sul grande comando di Gesù, mi chiedo se amo il prossimo come Lui ama me? Perché magari siamo inflessibili nel giudicare gli altri e ci scordiamo di essere misericordiosi, com’è Dio con noi.

Maria, che ha osservato perfettamente la Parola di Dio, ci aiuti a dare compimento alla nostra fede e alla nostra carità.

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
nella REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO e in SUD SUDAN

(Pellegrinaggio Ecumenico di Pace in Sud Sudan)

[31 gennaio- 5 febbraio 2023]

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE

Mausoleo "John Garang" (Giuba)
Domenica, 5 febbraio 2023

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Le parole che l’Apostolo Paolo ha rivolto alla comunità di Corinto nella seconda Lettura, vorrei oggi farle mie e ripeterle davanti a voi: «Quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,1-2). Sì, la trepidazione di Paolo è anche la mia, nel trovarmi qui con voi nel nome di Gesù Cristo, il Dio dell’amore, il Dio che ha realizzato la pace attraverso la sua croce; Gesù, Dio crocifisso per tutti noi; Gesù, crocifisso in chi soffre; Gesù, crocifisso nella vita di tanti di voi, in molte persone di questo Paese; Gesù il Risorto, vincitore sul male e sulla morte. Vengo a voi a proclamarvi Lui, a confermarvi in Lui, perché l’annuncio di Cristo è annuncio di speranza: Egli, infatti, conosce le angosce e le attese che portate nel cuore, le gioie e le fatiche che segnano la vostra vita, le tenebre che vi opprimono e la fede che, come un canto nella notte, levate al Cielo. Gesù vi conosce e vi ama; se rimaniamo in Lui, non dobbiamo temere, perché anche per noi ogni croce si trasformerà in risurrezione, ogni tristezza in speranza, ogni lamento in danza.

Vorrei dunque soffermarmi sulle parole di vita che il nostro Signore Gesù ci ha rivolto oggi nel Vangelo: «Voi siete il sale della terra […]. Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13.14). Che cosa dicono queste immagini a noi, discepoli di Cristo?

Anzitutto, siamo sale della terra. Il sale serve a dare sapore al cibo. È l’ingrediente invisibile che dà gusto a tutto. Proprio per questo, fin dai tempi antichi, è stato visto come simbolo della sapienza, cioè di quella virtù che non si vede, ma che dà gusto al vivere e senza la quale l’esistenza diventa insipida, senza sapore. Ma di quale sapienza ci parla Gesù? Egli utilizza questa immagine del sale subito dopo aver proclamato ai suoi discepoli le Beatitudini: capiamo allora che sono esse il sale della vita del cristiano. Le Beatitudini, infatti, portano in terra la sapienza del Cielo: rivoluzionano i criteri del mondo e del modo comune di pensare. E che cosa dicono? In poche parole, affermano che per essere beati, cioè pienamente felici, non dobbiamo cercare di essere forti, ricchi e potenti, bensì umili, miti, misericordiosi; non fare del male a nessuno, ma essere operatori di pace per tutti. Questa – dice Gesù – è la sapienza del discepolo, è ciò che dà sapore alla terra che abitiamo. Ricordiamoci: se mettiamo in pratica le Beatitudini, se incarniamo la sapienza di Cristo, non diamo un buon sapore solo alla nostra vita, ma anche alla società, al Paese dove viviamo.

Ma il sale, oltre a dare sapore, ha un’altra funzione, essenziale ai tempi di Cristo: conservare i cibi perché non si corrompano, diventando avariati. La Bibbia, però, diceva che c’era un “cibo”, un bene essenziale che andava conservato prima di ogni altro: l’alleanza con Dio. Perciò a quei tempi, ogni volta che si faceva un’offerta al Signore, si metteva un po’ di sale. Ascoltiamo infatti che cosa dice la Scrittura in proposito: «Nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni tua offerta porrai del sale» (Lv 2,13). Così il sale ricordava il bisogno primario di custodire il legame con Dio, perché Lui è fedele a noi, la sua alleanza con noi è incorruttibile, inviolabile e duratura (cfr Nm 18,19; 2 Cr 13,5). Perciò il discepolo di Gesù, in quanto sale della terra, è testimone dell’alleanza che Lui ha realizzato e che celebriamo in ogni Messa: un’alleanza nuova, eterna, infrangibile (cfr 1 Cor 11,25; Eb 9), un amore per noi che non può essere incrinato neanche dalle nostre infedeltà.

Fratelli, sorelle, siamo testimoni di questa meraviglia. Anticamente, quando delle persone o dei popoli stabilivano tra loro un’amicizia, spesso la stipulavano scambiandosi un po’ di sale; noi che siamo sale della terra, siamo chiamati a testimoniare l’alleanza con Dio nella gioia, con gratitudine, mostrando di essere persone capaci di creare legami di amicizia, di vivere la fraternità, di costruire buone relazioni umane, per impedire che prevalgano la corruzione del male, il morbo delle divisioni, la sporcizia degli affari iniqui, la piaga dell’ingiustizia.

Oggi vorrei ringraziarvi perché siete sale della terra in questo Paese. Eppure, dinanzi a tante ferite, alle violenze che alimentano il veleno dell’odio, all’iniquità che provoca miseria e povertà, potrebbe sembrarvi di essere piccoli e impotenti. Ma, quando vi assale la tentazione di sentirvi inadeguati, provate a guardare al sale e ai suoi granelli minuscoli: è un piccolo ingrediente e, una volta messo sopra un piatto, scompare, si scioglie, però è proprio così che dà sapore a tutto il contenuto. Così, noi cristiani, pur essendo fragili e piccoli, anche quando le nostre forze ci paiono poca cosa di fronte alla grandezza dei problemi e alla furia cieca della violenza, possiamo offrire un contributo decisivo per cambiare la storia. Gesù desidera che lo facciamo come il sale: ne basta un pizzico che si scioglie per dare un sapore diverso all’insieme. Allora non possiamo tirarci indietro, perché senza quel poco, senza il nostro poco, tutto perde gusto. Iniziamo proprio dal poco, dall’essenziale, da ciò che non compare sui libri di storia ma cambia la storia: nel nome di Gesù, delle sue Beatitudini, deponiamo le armi dell’odio e della vendetta per imbracciare la preghiera e la carità; superiamo quelle antipatie e avversioni che, nel tempo, sono diventate croniche e rischiano di contrapporre le tribù e le etnie; impariamo a mettere sulle ferite il sale del perdono, che brucia ma guarisce. E, anche se il cuore sanguina per i torti ricevuti, rinunciamo una volta per tutte a rispondere al male con il male, e staremo bene dentro; accogliamoci e amiamoci con sincerità e generosità, come fa Dio con noi. Custodiamo il bene che siamo, non lasciamoci corrompere dal male!

Passiamo alla seconda immagine usata da Gesù, la luce: Voi siete la luce del mondo. Una famosa profezia diceva di Israele: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6). Ora la profezia si è compiuta, perché Dio Padre ha inviato il suo Figlio, ed è Lui la luce del mondo (cfr Gv 8,12), la luce vera che illumina ogni uomo e ogni popolo, la luce che splende nelle tenebre e dissipa le nubi di qualsiasi oscurità (cfr Gv 1,5.9). Ma lo stesso Gesù, luce del mondo, dice ai suoi discepoli che anche loro sono luce del mondo. Ciò vuol dire che noi, accogliendo la luce di Cristo, la luce che è Cristo, diventiamo luminosi, irradiamo la luce di Dio!

Gesù aggiunge: «Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15). Si tratta anche in questo caso di immagini familiari a quei tempi: diversi villaggi in Galilea erano sulle colline, ben visibili da lontano; e le lampade, nelle case, erano poste in alto perché facessero luce in tutti gli angoli della stanza; poi, quando dovevano essere spente, si coprivano con un oggetto di terracotta chiamato “moggio”, che faceva mancare l’ossigeno alla fiamma fino a estinguerla.

Fratelli e sorelle, l’invito di Gesù ad essere luce del mondo è chiaro: noi, che siamo suoi discepoli, siamo chiamati a splendere come una città posta in alto, come un lucerniere la cui fiamma non deve essere mai spenta. In altre parole, prima di preoccuparci delle tenebre che ci circondano, prima di sperare che qualcosa attorno si rischiari, siamo tenuti a brillare, a illuminare con la nostra vita e con le nostre opere le città, i villaggi e i luoghi che abitiamo, le persone che frequentiamo, le attività che portiamo avanti. Il Signore ce ne dà la forza, la forza di essere luce in Lui, per tutti; perché tutti devono poter vedere le nostre opere buone e, vedendole – ci ricorda Gesù –, si apriranno con stupore a Dio e gli daranno gloria (cfr v. 16): se viviamo come figli e fratelli sulla terra la gente scoprirà di avere un Padre nei cieli. A noi è dunque chiesto di ardere d’amore: non accada che la nostra luce si spenga, che dalla nostra vita scompaia l’ossigeno della carità, che le opere del male tolgano aria pura alla nostra testimonianza. Questa terra, bellissima e martoriata, ha bisogno della luce che ciascuno di voi ha, o meglio, della luce che ognuno di voi è!

Carissimi, vi auguro di essere sale che si sparge e si scioglie con generosità per insaporire il Sud Sudan con il gusto fraterno del Vangelo; di essere comunità cristiane luminose che, come città poste in alto, gettino una luce di bene su tutti e mostrino che è bello e possibile vivere la gratuità, avere speranza, costruire tutti insieme un futuro riconciliato. Fratelli e sorelle, sono con voi e vi auguro di sperimentare la gioia del Vangelo, il sapore e la luce che il Signore, «il Dio della pace» (Fil 4,9), il «Dio di ogni consolazione» (2 Cor 1,3), vuole effondere su ciascuno di voi.

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
nella REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO e in SUD SUDAN

(Pellegrinaggio Ecumenico di Pace in Sud Sudan)

[31 gennaio - 5 febbraio 2023]

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE

Aeroporto "Ndolo"
Mercoledì, 1° febbraio 2023

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Bandeko, boboto [Fratelli e sorelle, pace]  R/Bondeko [Fraternità]

Bondeko [Fraternità]  R/ Esengo [Gioia]

Esengo, gioia: la gioia di vedervi e incontrarvi è grande: ho tanto desiderato questo momento – ci ha fatto aspettare un anno! –, grazie per essere qui!

Il Vangelo ci ha appena detto che anche la gioia dei discepoli era grande la sera di Pasqua, e che questa gioia scaturì «al vedere il Signore» (Gv 20,20). In quel clima di gioia e di stupore, il Risorto parla ai suoi. E che cosa dice loro? Anzitutto tre parole: «Pace a voi!» (v. 19). È un saluto, ma è più che un saluto: è una consegna. Perché la pace, quella pace annunciata dagli angeli nella notte di Betlemme (cfr Lc 2,14), quella pace che Gesù ha promesso di lasciare ai suoi (cfr Gv 14,27), ora, per la prima volta, viene consegnata solennemente ai discepoli. La pace di Gesù, che viene consegnata anche a noi in ogni Messa, è pasquale: arriva con la risurrezione, perché prima il Signore doveva sconfiggere i nostri nemici, il peccato e la morte, e riconciliare il mondo al Padre; doveva provare la nostra solitudine e il nostro abbandono, i nostri inferi, abbracciare e colmare le distanze che ci separavano dalla vita e dalla speranza. Ora, azzerate le distanze tra Cielo e terra, tra Dio e uomo, la pace di Gesù viene data ai discepoli.

Mettiamoci dunque dalla loro parte. Quel giorno erano completamente tramortiti dallo scandalo della croce, feriti dentro per aver abbandonato Gesù dandosi alla fuga, delusi per l’epilogo della sua vicenda, timorosi di fare la sua stessa fine. In loro c’erano sensi di colpa, frustrazione, tristezza, paura… Ebbene, Gesù proclama la pace mentre nel cuore dei discepoli ci sono le macerie, annuncia la vita mentre loro sentono dentro la morte. In altre parole, la pace di Gesù arriva nel momento in cui tutto per loro sembrava finito, nel momento più inatteso e insperato, quando non c’erano spiragli di pace. Così fa il Signore: ci stupisce, ci tende la mano quando stiamo per sprofondare, ci rialza quando tocchiamo il fondo. Fratelli, sorelle, con Gesù il male non ha mai la meglio, non ha mai l’ultima parola. «Egli infatti è la nostra pace» (Ef 2,14) e la sua pace vince sempre. Allora, noi che siamo di Gesù non possiamo lasciare che in noi prevalga la tristezza, non possiamo permettere che serpeggino rassegnazione e fatalismo. Se intorno a noi si respira questo clima, così non sia per noi: in un mondo scoraggiato per la violenza e la guerra, i cristiani fanno come Gesù. Lui, quasi insistendo, ha ripetuto ai discepoli: Pace, pace a voi! (cfr Gv 20,19.21); e noi siamo chiamati a fare nostro e dire al mondo questo annuncio insperato e profetico del Signore, annuncio di pace.

Ma, possiamo chiederci, come custodire e coltivare la pace di Gesù? Egli stesso ci indica tre sorgenti di pace, tre fonti per continuare ad alimentarla. Sono il perdono, la comunità e la missione.

Vediamo la prima sorgente: il perdono. Gesù dice ai suoi: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (v. 23). Ma prima di dare agli apostoli il potere di perdonare, li perdona; non a parole, ma con un gesto, il primo che il Risorto compie davanti a loro. Egli, dice il Vangelo, «mostrò loro le mani e il fianco» (v. 20). Mostra cioè le piaghe, le offre loro, perché il perdono nasce dalle ferite. Nasce quando le ferite subite non lasciano cicatrici d’odio, ma diventano il luogo in cui fare posto agli altri e accoglierne le debolezze. Allora le fragilità diventano opportunità e il perdono diventa la via della pace. Non si tratta di lasciarsi tutto alle spalle come se niente fosse, ma di aprire agli altri il proprio cuore con amore. Così fa Gesù: davanti alla miseria di chi lo ha rinnegato e abbandonato, mostra le ferite e apre la fonte della misericordia. Non usa tante parole, ma spalanca il suo cuore ferito, per dirci che Lui è sempre ferito d’amore per noi.

Fratelli, sorelle, quando la colpa e la tristezza ci opprimono, quando le cose non vanno, sappiamo dove guardare: alle piaghe di Gesù, pronto a perdonarci con il suo amore ferito e infinito. Lui conosce le tue ferite, conosce le ferite del tuo Paese, del tuo popolo, della tua terra! Sono ferite che bruciano, continuamente infettate dall’odio e dalla violenza, mentre la medicina della giustizia e il balsamo della speranza sembrano non arrivare mai. Fratello, sorella, Gesù soffre con te, vede le ferite che porti dentro e desidera consolarti e guarirti, porgendoti il suo Cuore ferito. Al tuo cuore Dio ripete le parole che ha detto oggi per mezzo del profeta Isaia: «Voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni» (Is 57,18).

Insieme oggi crediamo che con Gesù c’è sempre la possibilità di essere perdonati e ricominciare, e pure la forza di perdonare sé stessi, gli altri e la storia! Cristo questo desidera: ungerci con il suo perdono per darci la pace e il coraggio di perdonare a nostra volta, il coraggio di compiere una grande amnistia del cuore. Quanto bene ci fa ripulire il cuore dalla rabbia, dai rimorsi, da ogni rancore e livore! Carissimi, sia oggi il momento di grazia per accogliere e vivere il perdono di Gesù! Sia il momento giusto per te, che porti un fardello pesante sul cuore e hai bisogno che sia tolto per tornare a respirare. E sia il momento propizio per te, che in questo Paese ti dici cristiano ma commetti violenze; a te il Signore dice: “Deponi le armi, abbraccia la misericordia”. E a tutti i feriti e gli oppressi di questo popolo dice: “Non temete di mettere le vostre ferite nelle mie, le vostre piaghe nelle mie piaghe”. Facciamolo, fratelli e sorelle; non abbiate paura di togliere il Crocifisso dal collo e dalle tasche, di prenderlo tra le mani e di portarlo vicino al cuore per condividere le vostre ferite con quelle di Gesù. Tornati a casa, prendete pure il Crocifisso che avete e abbracciatelo. Diamo a Cristo la possibilità di risanarci il cuore, gettiamo in Lui il passato, ogni paura e affanno. Che bello aprire le porte del cuore e quelle di casa alla sua pace! E perché non scrivere nelle vostre stanze, sui vostri abiti, fuori dalle vostre case, le sue parole: Pace a voi? Mostratele, saranno una profezia per il Paese, la benedizione del Signore su chi incontrate. Pace a voi: lasciamoci perdonare da Dio e perdoniamoci tra di noi!

Guardiamo ora alla seconda sorgente della pace: la comunità. Gesù risorto non si rivolge ai singoli discepoli, ma li incontra insieme: parla loro al plurale e alla prima comunità consegna la sua pace. Non c’è cristianesimo senza comunità, come non c’è pace senza fraternità. Ma come comunità, verso dove camminare, dove andare per trovare la pace? Guardiamo ancora ai discepoli. Prima di Pasqua andavano dietro a Gesù, ma ragionavano ancora in modo troppo umano: speravano in un Messia conquistatore che avrebbe cacciato i nemici, compiuto prodigi e miracoli, aumentato il loro prestigio e il loro successo. Ma questi desideri mondani li hanno lasciati a mani vuote, anzi hanno tolto pace alla comunità, generando discussioni e opposizioni (cfr Lc 9,46; 22,24). Anche per noi c’è questo rischio: stare insieme ma andare avanti da soli, ricercando nella società, ma anche nella Chiesa, il potere, la carriera, le ambizioni... Così, però, si segue il proprio io anziché il vero Dio e si finisce come quei discepoli: chiusi in casa, vuoti di speranza e pieni di paura e delusione. Ma ecco che a Pasqua ritrovano la via della pace grazie a Gesù, che soffia su di loro e dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Grazie allo Spirito Santo non guarderanno più a ciò che li divide, ma a ciò che li unisce; andranno nel mondo non più per sé stessi, ma per gli altri; non per avere visibilità, ma per dare speranza; non a guadagnare consensi, ma a spendere la vita con gioia per il Signore e per gli altri.

Fratelli, sorelle, il nostro pericolo è seguire lo spirito del mondo anziché quello di Cristo. E qual è la via per non cadere nei trabocchetti del potere e del denaro, per non cedere alle divisioni, alle lusinghe del carrierismo che corrodono la comunità, alle false illusioni del piacere e della stregoneria che rinchiudono in sé stessi? Ce lo suggerisce il Signore ancora attraverso il profeta Isaia, dicendo: «Sono con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi» (Is 57,15). La via è condividere con i poveri: ecco l’antidoto migliore contro la tentazione di dividerci e mondanizzarci. Avere il coraggio di guardare i poveri e ascoltarli, perché sono membri della nostra comunità e non estranei da cancellare dalla vista e dalla coscienza. Aprire il cuore agli altri, invece di chiuderlo sui propri problemi o sulle proprie vanità. Ripartiamo dai poveri e scopriremo che tutti condividiamo la povertà interiore; che tutti abbiamo bisogno dello Spirito di Dio per liberarci dallo spirito del mondo; che l’umiltà è la grandezza del cristiano e la fraternità la sua vera ricchezza. Crediamo nella comunità e, con l’aiuto di Dio, edifichiamo una Chiesa vuota di spirito mondano e piena di Spirito Santo, libera da ricchezze per sé stessi e colma di amore fraterno!

Arriviamo infine alla terza sorgente della pace: la missione. Gesù dice ai discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Ci manda come il Padre ha mandato Lui. E come il Padre lo ha mandato nel mondo? Lo ha inviato a servire e a dare la vita per l’umanità (cfr Mc 10,45), a manifestare la sua misericordia per ciascuno (cfr Lc 15), a cercare i lontani (cfr Mt 9,13). In una parola, lo ha inviato per tutti: non solo per i giusti, ma per tutti. Risuonano ancora, in questo senso, le parole di Isaia: «Pace, pace ai lontani e ai vicini – dice il Signore» (Is 57,19). Ai lontani, anzitutto, e ai vicini: non solo ai “nostri”, ma a tutti.

Fratelli, sorelle, siamo chiamati a essere missionari di pace, e questo ci darà pace. È una scelta: è fare posto a tutti nel cuore, è credere che le differenze etniche, regionali, sociali, religiose e culturali vengono dopo e non sono ostacoli; che gli altri sono fratelli e sorelle, membri della stessa comunità umana; che ognuno è destinatario della pace portata nel mondo da Gesù. È credere che noi cristiani siamo chiamati a collaborare con tutti, a spezzare il circolo della violenza, a smontare le trame dell’odio. Sì, i cristiani, mandati da Cristo, sono chiamati per definizione a essere coscienza di pace del mondo: non solo coscienze critiche, ma soprattutto testimoni di amore; non pretendenti dei propri diritti, ma di quelli del Vangelo, che sono la fraternità, l’amore e il perdono; non ricercatori dei propri interessi, ma missionari del folle amore che Dio ha per ciascun essere umano.

Pace a voi, dice Gesù oggi a ogni famiglia, comunità, etnia, quartiere e città di questo grande Paese. Pace a voi: lasciamo che risuonino nel cuore, in silenzio, queste parole del nostro Signore. Sentiamole rivolte a noi e scegliamo di essere testimoni di perdono, protagonisti nella comunità, gente in missione di pace nel mondo.

DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Pietro
III Domenica del Tempo Ordinario, 22 gennaio 2023

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Gesù lascia la vita tranquilla e nascosta di Nazaret e si trasferisce a Cafarnao, una città situata lungo il mare di Galilea, un luogo di passaggio, un crocevia di popoli e culture diverse. L’urgenza che lo spinge è l’annuncio della Parola di Dio, che dev’essere portata a tutti. Vediamo infatti nel Vangelo che il Signore invita tutti alla conversione e chiama i primi discepoli perché trasmettano anche ad altri la luce della Parola (cfr Mt 4,12-23). Cogliamo questo dinamismo, che ci aiuta a vivere la Domenica della Parola di Dio: la Parola è per tutti, la Parola chiama alla conversione, la Parola rende annunciatori.

La Parola di Dio è per tutti. Il Vangelo ci presenta Gesù sempre in movimento, in cammino verso gli altri. In nessuna occasione della sua vita pubblica Egli ci dà l’idea di essere un maestro statico, un dottore seduto in cattedra; al contrario, lo vediamo itinerante, lo vediamo pellegrino, a percorrere città e villaggi, a incontrare volti e storie. I suoi piedi sono quelli del messaggero che annuncia la buona notizia dell’amore di Dio (cfr Is 52,7-8). Nella Galilea delle genti, sulla via del mare, oltre il Giordano, dove Gesù predica, c’era – annota il testo – un popolo immerso nelle tenebre: stranieri, pagani, donne e uomini di varie regioni e culture (cfr Mt 4,15-16). Ora anch’essi possono vedere la luce. E così Gesù “allarga i confini”: la Parola di Dio, che risana e rialza, non è destinata soltanto ai giusti di Israele, ma a tutti; vuole raggiungere i lontani, vuole guarire gli ammalati, vuole salvare i peccatori, vuole raccogliere le pecore perdute e sollevare quanti hanno il cuore affaticato e oppresso. Gesù, insomma, “sconfina” per dirci che la misericordia di Dio è per tutti. Non dimentichiamo questo: la misericordia di Dio è per tutti e per ognuno di noi. “La misericordia di Dio è per me”, ognuno può dire questo.

Questo aspetto è fondamentale anche per noi. Ci ricorda che la Parola è un dono rivolto a ciascuno e che perciò non possiamo mai restringerne il campo di azione perché essa, al di là di tutti i nostri calcoli, germoglia in modo spontaneo, imprevisto e imprevedibile (cfr Mc 4,26-28), nei modi e nei tempi che lo Spirito Santo conosce. E se la salvezza è destinata a tutti, anche ai più lontani e perduti, allora l’annuncio della Parola deve diventare la principale urgenza della comunità ecclesiale, come fu per Gesù. Non ci succeda di professare un Dio dal cuore largo ed essere una Chiesa dal cuore stretto – questa sarebbe, mi permetto di dire, una maledizione –; non ci succeda di predicare la salvezza per tutti e rendere impraticabile la strada per accoglierla; non ci succeda di saperci chiamati a portare l’annuncio del Regno e trascurare la Parola, disperdendoci in tante attività secondarie, o tante discussioni secondarie. Impariamo da Gesù a mettere la Parola al centro, ad allargare i confini, ad aprirci alla gente, a generare esperienze di incontro con il Signore, sapendo che la Parola di Dio «non è cristallizzata in formule astratte e statiche, ma conosce una storia dinamica fatta di persone e di eventi, di parole e di azioni, di sviluppi e tensioni» [1].

Veniamo ora al secondo aspetto: la Parola di Dio, che è rivolta a tutti, chiama alla conversione. Gesù, infatti, ripete nella sua predicazione: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Ciò significa che la vicinanza di Dio non è neutra, la sua presenza non lascia le cose come stanno, non difende il quieto vivere. Al contrario, la sua Parola ci scuote, ci scomoda, ci provoca al cambiamento, alla conversione: ci mette in crisi perché «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio […] e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). E così, come una spada la Parola penetra nella vita, facendoci discernere sentimenti e pensieri del cuore, facendoci cioè vedere qual è la luce del bene a cui dare spazio e dove si addensano invece le tenebre dei vizi e dei peccati da combattere. La Parola, quando entra in noi, trasforma il cuore e la mente; ci cambia, ci porta a orientare la vita al Signore.

Ecco l’invito di Gesù: Dio si è fatto vicino a te, perciò accorgiti della sua presenza, fai spazio alla sua Parola e cambierai lo sguardo sulla tua vita. Vorrei dirlo anche così: metti la tua vita sotto la Parola di Dio. Questa è la strada che ci indica la Chiesa: tutti, anche i Pastori della Chiesa, siamo sotto l’autorità della Parola di Dio. Non sotto i nostri gusti, le nostre tendenze o preferenze, ma sotto l’unica Parola di Dio che ci plasma, ci converte , ci chiede di essere uniti nell’unica Chiesa di Cristo. Allora, fratelli e sorelle, possiamo chiederci: la mia vita, dove trova direzione, da dove attinge orientamento? Dalle tante parole che sento, dalle ideologie, o dalla Parola di Dio che mi guida e mi purifica? E quali sono in me gli aspetti che esigono cambiamento e conversione?

Infine – terzo passaggio –, la Parola di Dio, che si rivolge a tutti e chiama alla conversione, rende annunciatori. Gesù, infatti, passa sulle rive del lago di Galilea e chiama Simone e Andrea, due fratelli che erano pescatori. Li invita con la sua Parola a seguirlo, dicendo loro che li farà «pescatori di uomini» (Mt 4,19): non più solo esperti di barche, di reti e di pesci, ma esperti nel cercare gli altri. E come per la navigazione e la pesca avevano imparato a lasciare la riva e a gettare le reti al largo, allo stesso modo diventeranno apostoli capaci di navigare nel mare aperto del mondo, di andare incontro ai fratelli e di annunciare la gioia del Vangelo. Questo è il dinamismo della Parola: ci attira nella “rete” dell’amore del Padre e ci rende apostoli che avvertono il desiderio irrefrenabile di far salire sulla barca del Regno quanti incontrano. E questo non è proselitismo, perché quella che chiama è la Parola di Dio, non la nostra parola.

Sentiamo allora rivolto anche a noi oggi l’invito a essere pescatori di uomini: sentiamoci chiamati da Gesù in persona ad annunciare la sua Parola, a testimoniarla nelle situazioni di ogni giorno, a viverla nella giustizia e nella carità, chiamati a “darle carne” accarezzando la carne di chi soffre. Questa è la nostra missione: diventare cercatori di chi è perduto, di chi è oppresso e sfiduciato, per portare loro non noi stessi, ma la consolazione della Parola, l’annuncio dirompente di Dio che trasforma la vita, per portare la gioia di sapere che Egli è Padre e si rivolge a ciascuno, portare la bellezza di dire: “Fratello, sorella, Dio si è fatto vicino a te, ascoltalo e nella sua Parola troverai un dono stupendo!”

Fratelli e sorelle, vorrei concludere invitando semplicemente a ringraziare chi si dà da fare perché la Parola di Dio sia rimessa al centro, condivisa e annunciata. Grazie a chi la studia e ne approfondisce la ricchezza; grazie agli operatori pastorali e a tutti quei cristiani impegnati nell’ascolto e nella diffusione della Parola, specialmente ai lettori e ai catechisti: oggi conferisco il ministero ad alcuni di loro. Grazie a quanti hanno accolto i tanti inviti che ho fatto a portare il Vangelo con sé ovunque e a leggerlo ogni giorno. E infine un ringraziamento particolare ai diaconi e ai sacerdoti: grazie, cari fratelli, perché non fate mancare al Popolo santo il nutrimento della Parola; grazie perché vi impegnate a meditarla, viverla e annunciarla; grazie per il vostro servizio e i vostri sacrifici. Per tutti noi, sia consolazione e ricompensa la dolce gioia di annunciare la Parola di salvezza.

 

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL'EPIFANIA DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Pietro
Venerdì, 6 gennaio 2023

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Come una stella che sorge (cfr Nm 24,17), Gesù viene a illuminare tutti i popoli e a rischiarare le notti dell’umanità. Con i Magi, alzando lo sguardo al cielo, anche noi oggi ci domandiamo: «Dov’è colui che è nato?» (Mt 2,2). Qual è, cioè, il luogo in cui possiamo trovare e incontrare il nostro Signore?

Dall’esperienza dei Magi, comprendiamo che il primo “luogo” in cui Egli ama essere cercato è l’inquietudine delle domande. L’affascinante avventura di questi sapienti d’Oriente ci insegna che la fede non nasce dai nostri meriti o da ragionamenti teorici, ma è dono di Dio. La sua grazia ci aiuta a destarci dall’apatia e a fare spazio alle domande importanti della vita, domande che ci fanno uscire dalla presunzione di essere a posto e ci aprono a ciò che ci supera. Nei Magi all’inizio c’è questo: l’inquietudine di chi si interroga. Abitati da una struggente nostalgia di infinito, essi scrutano il cielo e si lasciano stupire dal fulgore di una stella, rappresentando così la tensione al trascendente che anima il cammino delle civiltà e l’incessante ricerca del nostro cuore. Quella stella, infatti, lascia nel loro cuore proprio una domanda: Dov’è colui che è nato?

Fratelli e sorelle, il cammino della fede inizia quando, con la grazia di Dio, facciamo spazio all’inquietudine che ci tiene desti; quando ci lasciamo interrogare, quando non ci accontentiamo della tranquillità delle nostre abitudini, ma ci mettiamo in gioco nelle sfide di ogni giorno; quando smettiamo di conservarci in uno spazio neutrale e decidiamo di abitare gli spazi scomodi della vita, fatti di relazioni con gli altri, di sorprese, di imprevisti, di progetti da portare avanti, di sogni da realizzare, di paure da affrontare, di sofferenze che scavano nella carne. In questi momenti si levano dal nostro cuore quelle domande insopprimibili, che ci aprono alla ricerca di Dio: dov’è per me la felicità? Dov’è la vita piena a cui aspiro? Dov’è quell’amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti? Quali sono le opportunità nascoste dentro le mie crisi e le mie sofferenze?

Ma succede che ogni giorno il clima che respiriamo offre dei “tranquillanti dell’anima”, dei surrogati per sedare, per sedare la nostra inquietudine e spegnere queste domande: dai prodotti del consumismo alle seduzioni del piacere, dai dibattiti spettacolarizzati fino all’idolatria del benessere; tutto sembra dirci: non pensare troppo, lascia fare, goditi la vita! Spesso cerchiamo di sistemare il cuore nella cassaforte della comodità – sistemare il cuore nella cassaforte della comodità –, ma se i Magi avessero fatto così non avrebbero mai incontrato il Signore. Sedare il cuore, sedare l’anima affinché non ci sia più l’inquietudine: questo è il pericolo. Dio, invece, abita le nostre domande inquiete; in esse noi «lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora… Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione, di pace» (C.M. Martini, Incontro al Signore Risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo 2012, 66). Questo, dunque, è il primo luogo: l’inquietudine delle domande. Non avere paura di entrare in questa inquietudine delle domande: sono proprio le strade che ci portano a Gesù.

Il secondo luogo in cui possiamo incontrare il Signore è il rischio del cammino. Gli interrogativi, anche quelli spirituali, possono infatti indurre frustrazioni e desolazioni se non ci mettono in cammino, se non indirizzano il nostro movimento interiore verso il volto di Dio e la bellezza della sua Parola. Il peregrinare dei Magi, «il loro pellegrinaggio esteriore – ha detto Benedetto XVI – era espressione del loro essere interiormente in cammino, dell’interiore pellegrinaggio del loro cuore» (Omelia per l’Epifania, 6 gennaio 2013). I Magi, infatti, non si fermano a guardare il cielo e a contemplare la luce della stella, ma si avventurano in un viaggio rischioso che non prevede in anticipo strade sicure e mappe definite. Vogliono scoprire chi è il Re dei Giudei, dov’è nato, dove possono trovarlo. Per questo chiedono a Erode, il quale a sua volta convoca i capi del popolo e gli scribi che interrogano le Scritture. I Magi sono in cammino: la maggior parte dei verbi che descrivono le loro azioni sono verbi di movimento.

Così è anche per la nostra fede: senza un cammino continuo e un dialogo costante con il Signore, senza ascolto della Parola, senza perseveranza, non può crescere. Non basta qualche idea su Dio e qualche preghiera che acquieta la coscienza; occorre farsi discepoli alla sequela di Gesù e del suo Vangelo, parlare con Lui di tutto nella preghiera, cercarlo nelle situazioni quotidiane e nel volto dei fratelli. Da Abramo che si mise in viaggio per una terra ignota fino ai Magi che si muovono dietro la stella, la fede è un cammino, la fede è un pellegrinaggio, la fede è una storia di partenze e di ripartenze. Non lo dimentichiamo mai: la fede è un cammino, un pellegrinaggio, una storia di partenze e ripartenze. Ricordiamoci questo: la fede non cresce se rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio e verso i fratelli. Chiediamoci oggi: sto camminando verso il Signore della vita, perché diventi il Signore della mia vita? Gesù, chi sei per me? Dove mi chiami ad andare, cosa chiedi alla mia vita? Quali scelte mi inviti a fare per gli altri?

Infine, dopo l’inquietudine delle domande e il rischio del cammino, il terzo luogo in cui incontrare il Signore è lo stupore dell’adorazione. Al termine di un lungo percorso e di una faticosa ricerca, i Magi entrarono nella casa, «videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (v. 11). Questo è il punto decisivo: le nostre inquietudini, le nostre domande, i cammini spirituali e le pratiche della fede devono convergere nell’adorazione del Signore. Lì trovano il loro centro sorgivo perché tutto nasce da lì, perché è il Signore che suscita in noi il sentire, l’agire e l’operare. Tutto nasce e tutto culmina lì, perché il fine di ogni cosa non è raggiungere un traguardo personale e ricevere gloria per sé stessi, ma incontrare Dio e lasciarsi abbracciare dal suo amore, che dà fondamento alla nostra speranza, che ci libera dal male, che ci apre all’amore verso gli altri, che ci rende persone capaci di costruire un mondo più giusto e più fraterno. A nulla serve attivarci pastoralmente se non mettiamo Gesù al centro, adorandolo. Lo stupore dell’adorazione. Lì impariamo a stare davanti a Dio non tanto per chiedere o fare qualcosa, ma solo per sostare in silenzio e abbandonarci al suo amore, per lasciarci afferrare e rigenerare dalla sua misericordia. E noi preghiamo tante volte, chiediamo cose, riflettiamo… ma, di solito, ci manca la preghiera di adorazione. Abbiamo perso il senso di adorare, perché abbiamo perso l’inquietudine delle domande e abbiamo perso il coraggio di andare avanti nei rischi del cammino. Oggi il Signore ci invita a fare come i Magi: come i Magi, prostriamoci, arrendiamoci a Dio nello stupore dell’adorazione. Adoriamo Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie; adoriamo Dio per non inchinarci davanti alle cose che passano e alle logiche seducenti ma vuote del male.

Fratelli, sorelle, apriamo il cuore all’inquietudine, chiediamo il coraggio per andare avanti nel cammino e finiamo nell’adorazione! Non abbiamo paura, è il percorso dei Magi, è il percorso di tutti i santi della storia: ricevere le inquietudini, mettersi in cammino e adorare. Fratelli e sorelle, non lasciamo che si spenga in noi l’inquietudine delle domande; non arrestiamo il nostro cammino cedendo all’apatia o alla comodità; e, incontrando il Signore, arrendiamoci allo stupore dell’adorazione. Allora scopriremo che una luce illumina anche le notti più scure: è Gesù, è la stella radiosa del mattino, il sole di giustizia, il fulgore misericordioso di Dio, che ama ogni uomo e ogni popolo della terra.

 

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 18 dicembre 2022

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Cari sorelle e fratelli, buongiorno!

Oggi, quarta e ultima domenica di Avvento, la liturgia ci presenta la figura di San Giuseppe (cfr Mt 1,18-24). È un uomo giusto, che sta per sposarsi. Possiamo immaginare che cosa sogni per il futuro: una bella famiglia, con una sposa affettuosa e tanti bravi figli, e un lavoro dignitoso: sogni semplici e buoni, sogni della gente semplice e buona. Improvvisamente, però, questi sogni si infrangono contro una scoperta sconcertante: Maria, la sua promessa sposa, aspetta un bambino e questo bambino non è suo! Che cosa avrà provato Giuseppe? Sconcerto, dolore, smarrimento, forse anche irritazione e delusione… Ha sperimentato che il mondo gli crolla addosso! E che cosa può fare?

La Legge gli dà due possibilità. La prima è denunciare Maria e farle pagare il prezzo di una presunta infedeltà. La seconda è annullare il loro fidanzamento in segreto, senza esporre Maria allo scandalo e a conseguenze pesanti, prendendo però su di sé il peso della vergogna. Giuseppe sceglie questa seconda via, la via della misericordia. Ed ecco che, nel cuore della crisi, proprio mentre pensa e valuta tutto questo, Dio accende nel suo cuore una luce nuova: in sogno gli annuncia che la maternità di Maria non viene da un tradimento, ma è opera dello Spirito Santo, e il bambino che nascerà è il Salvatore (cfr vv. 20-21); Maria sarà la madre del Messia e lui ne sarà il custode. Al risveglio, Giuseppe capisce che il sogno più grande di ogni pio Israelita – essere il padre del Messia – si sta realizzando per lui in modo assolutamente inaspettato.

Per realizzarlo, infatti, non gli basterà appartenere alla discendenza di Davide ed essere un fedele osservante della legge, ma dovrà fidarsi di Dio al di là di tutto, accogliere Maria e suo figlio in modo completamente diverso da come si aspettava, diverso da come si era sempre fatto. In altre parole, Giuseppe dovrà rinunciare alle sue certezze rassicuranti, ai suoi piani perfetti, alle sue legittime aspettative e aprirsi a un futuro tutto da scoprire. E di fronte a Dio, che scombina i piani e chiede di fidarsi, Giuseppe risponde sì. Il coraggio di Giuseppe è eroico e si realizza nel silenzio: il suo coraggio è fidarsi, si fida, accoglie, è disponibile, non domanda ulteriori garanzie.

Fratelli, sorelle, che cosa dice Giuseppe oggi a noi? Noi pure abbiamo i nostri sogni, e forse a Natale ci pensiamo di più, ne parliamo insieme. Magari rimpiangiamo alcuni sogni infranti e vediamo che le migliori attese devono spesso confrontarsi con situazioni inattese, sconcertanti. E quando questo accade, Giuseppe ci indica la via: non bisogna cedere a sentimenti negativi, come la rabbia e la chiusura, questa è la via sbagliata! Occorre invece accogliere le sorprese, le sorprese della vita, anche le crisi, con un’attenzione: che quando si è in crisi non bisogna scegliere di fretta secondo l’istinto, ma lasciarsi passare al setaccio, come ha fatto Giuseppe, “considerare tutte le cose” (cfr v. 20) e fondarsi sul criterio di fondo: la misericordia di Dio. Quando si abita la crisi senza cedere alla chiusura, alla rabbia e alla paura, ma tenendo aperta la porta a Dio, Lui può intervenire. Lui è esperto nel trasformare le crisi in sogni: sì, Dio apre le crisi a prospettive nuove, che noi prima non immaginavamo, magari non come noi ci aspettiamo, ma come Lui sa. E questi sono, fratelli e sorelle, gli orizzonti di Dio: sorprendenti, ma infinitamente più ampi e belli dei nostri! La Vergine Maria ci aiuti a vivere aperti alle sorprese di Dio.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 11 dicembre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Il Vangelo di questa terza domenica di Avvento ci parla di Giovanni Battista che, mentre si trova in carcere, manda i suoi discepoli a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,4). Infatti Giovanni, sentendo parlare delle opere di Gesù, è colto dal dubbio se sia davvero Lui il Messia oppure no. Infatti egli pensava a un Messia severo che, arrivando, avrebbe fatto giustizia con potenza castigando i peccatori. Ora, invece, Gesù ha parole e gesti di compassione verso tutti, al centro del suo agire c’è la misericordia che perdona, per cui «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (v. 5). Ci fa bene però soffermarci su questa crisi di Giovanni il Battista, perché può dire qualcosa di importante anche a noi.

Il testo sottolinea che Giovanni si trova in carcere, e questo, oltre che al luogo fisico, fa pensare alla situazione interiore che sta vivendo: in carcere c’è oscurità, manca la possibilità di vedere chiaro e di vedere oltre. In effetti, il Battista non riesce più a riconoscere Gesù come Messia atteso. È assalito dal dubbio e invia i discepoli a verificare: “Andate a vedere se è il Messia o no”. Ci meraviglia che ciò accada proprio a Giovanni, il quale aveva battezzato Gesù nel Giordano e lo aveva indicato ai suoi discepoli come l’Agnello di Dio (cfr Gv 1,29). Ma ciò significa che anche il più grande credente attraversa il tunnel del dubbio. E questo non è un male, anzi, talvolta è essenziale per la crescita spirituale: ci aiuta a capire che Dio è sempre più grande di come lo immaginiamo; le opere che compie sono sorprendenti rispetto ai nostri calcoli; il suo agire è diverso, sempre, supera i nostri bisogni e le nostre attese; e perciò non dobbiamo mai smettere di cercarlo e di convertirci al suo vero volto. Un grande teologo diceva che Dio «occorre riscoprirlo a tappe… talvolta credendo di perderlo» (H. de Lubac, Sulle vie di Dio, Milano 2008, 25). Così fa il Battista: nel dubbio, lo cerca ancora, lo interroga, “discute” con Lui e finalmente lo riscopre. Giovanni, definito da Gesù il più grande tra i nati di donna (cfr Mt 11,11), ci insegna insomma a non chiudere Dio nei nostri schemi. Questo è sempre il pericolo, la tentazione: farci un Dio a nostra misura, un Dio per usarlo. E Dio è altra cosa.

Fratelli e sorelle, anche noi a volte possiamo trovarci nella sua situazione, in un carcere interiore, incapaci di riconoscere la novità del Signore, che forse teniamo prigioniero della presunzione di sapere già tutto su di Lui. Cari fratelli e sorelle, mai si sa tutto su Dio, mai! Magari abbiamo nella testa un Dio potente che fa ciò che vuole, anziché il Dio dell’umile mitezza, il Dio della misericordia e dell’amore, che interviene sempre rispettando la nostra libertà e le nostre scelte. Magari viene anche a noi da dirgli: “Sei davvero Tu, così umile, il Dio che viene a salvarci?”. E può capitarci qualcosa di simile anche con i fratelli: abbiamo le nostre idee, i nostri pregiudizi e affibbiamo agli altri – specialmente a chi sentiamo diverso da noi – delle rigide etichette. L’Avvento, allora, è un tempo di ribaltamento di prospettive, dove lasciarci stupire dalla grandezza della misericordia di Dio. Lo stupore: Dio sempre stupisce. (L’abbiamo visto, poco fa, nel programma “A Sua immagine”, stavano parlando dello stupore). Dio sempre è Colui che suscita in te lo stupore. Un tempo – l’Avvento – in cui, preparando il presepe per il Bambino Gesù, impariamo di nuovo chi è il nostro Signore; un tempo in cui uscire da certi schemi, da certi pregiudizi verso Dio e i fratelli. L’Avvento è un tempo in cui, anziché pensare ai regali per noi, possiamo donare parole e gesti di consolazione a chi è ferito, come ha fatto Gesù con i ciechi, i sordi e gli zoppi.

La Madonna ci prenda per mano, come mamma, ci prenda per mano in questi giorni di preparazione al Natale e ci aiuti a riconoscere nella piccolezza del Bambino la grandezza di Dio che viene.

SOLENNITÀ DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE
DELLA BEATA VERGINE MARIA

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Giovedì, 8 dicembre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buona festa!

Il Vangelo della Solennità odierna ci introduce nella casa di Maria per raccontarci l’Annunciazione (cfr Lc 1,26-38). L’angelo Gabriele saluta la Vergine così: «Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te» (v. 28). Non la chiama con il suo nome, Maria, ma con un nome nuovo, che lei non conosceva: piena di grazia. Piena di grazia, e dunque vuota di peccato, è il nome che Dio le dà e che noi festeggiamo oggi.

Ma pensiamo allo stupore di Maria: solo allora lei scoprì la sua identità più vera. Infatti, chiamandola con quel nome, Dio le rivela il suo segreto più grande, che lei prima ignorava. Qualcosa di analogo può accadere anche a noi. In che senso? Nel senso che pure noi peccatori abbiamo ricevuto un dono iniziale che ci ha riempito la vita, un bene più grande di tutto, abbiamo ricevuto una grazia originaria. Noi parliamo tanto del peccato originale, ma abbiamo ricevuto anche una grazia originaria, di cui spesso non siamo consapevoli.

Di cosa si tratta? Che cos’è questa grazia originaria? È ciò che abbiamo ricevuto nel giorno del nostro Battesimo, che per questo ci fa bene ricordare, e anche festeggiare! Faccio una domanda. Questa grazia ricevuta nel giorno del Battesimo è importante, ma quanti di voi ricordano qual è la data del proprio Battesimo? Pensateci. E se non la ricordate, tornando a casa chiedete al padrino, alla madrina, a papà o mamma: “Quando sono stato battezzato, battezzata?”. Perché quel giorno è il giorno della grazia grande, di un nuovo inizio di vita, di una grazia originaria che noi abbiamo. Dio si è calato nella nostra vita quel giorno, siamo diventati per sempre suoi figli amati. Ecco la nostra bellezza originaria, di cui gioire! Oggi Maria, sorpresa della grazia che l’ha fatta bella fin dal primo istante di vita, ci porta a stupirci della nostra bellezza. Possiamo coglierla attraverso un’immagine: quella della veste bianca del Battesimo; essa ci ricorda che, al di sotto del male di cui ci siamo macchiati negli anni, c’è in noi un bene più grande di tutti quei mali che ci sono accaduti. Ascoltiamone l’eco, sentiamo Dio che ci dice: “Figlio, figlia, ti amo e sono con te sempre, tu sei importante per me, la tua vita è preziosa”. Quando le cose non vanno e ci scoraggiamo, quando ci abbattiamo e rischiamo di sentirci inutili o sbagliati, pensiamo a questo, alla grazia originaria. Dio è con noi, Dio è con me da quel giorno. Ripensiamoci.

Oggi la Parola di Dio ci insegna un’altra cosa importante: che custodire la nostra bellezza richiede un costo, richiede una lotta. Il Vangelo ci mostra infatti il coraggio di Maria, che ha detto “sì” a Dio, che ha scelto il rischio di Dio; e il brano della Genesi, a proposito del peccato originale, ci parla di una lotta contro il tentatore e le sue tentazioni (cfr Gen 3,15). Ma anche per esperienza lo sappiamo, tutti noi: costa fatica scegliere il bene; costa fatica custodire il bene che è in noi. Pensiamo a quante volte l’abbiamo sciupato cedendo alle lusinghe del male, facendo i furbi per i nostri interessi o facendo qualcosa che ci avrebbe inquinato il cuore; o anche buttando via tempo in cose inutili e dannose, rimandando la preghiera, o dicendo “non posso” a chi aveva bisogno di noi, quando invece potevamo.

Ma, di fronte a tutto ciò, oggi abbiamo una buona notizia: Maria, l’unica creatura umana senza peccato nella storia, è con noi nella lotta, ci è sorella e soprattutto Madre. E noi, che facciamo fatica a scegliere il bene, possiamo affidarci a lei. Affidandoci, consacrandoci alla Madonna, le diciamo: “Tienimi per mano, Madre, guidami tu: con te avrò più forza nella lotta contro il male, con te riscoprirò la mia bellezza originaria”. Affidiamoci a Maria oggi, ogni giorno, ripetendole: “Maria, ti affido la mia vita, la mia famiglia, il mio lavoro, ti affido il mio cuore e le mie lotte. Mi consacro a te”. L’Immacolata ci aiuti a custodire dal male la nostra bellezza.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 4 dicembre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona domenica!

Oggi, seconda domenica di Avvento, il Vangelo della Liturgia ci presenta la figura di Giovanni Battista. Il testo dice che «portava un vestito di peli di cammello», che il «suo cibo erano locuste e miele selvatico» (Mt 3,4) e che invitava tutti alla conversione: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (v. 2). Predicava la vicinanza del Regno. Insomma un uomo austero e radicale, che a prima vista può apparirci un po’ duro e incutere un certo timore. Ma allora ci chiediamo: perché la Chiesa lo propone ogni anno come principale compagno di viaggio durante questo tempo di Avvento? Cosa si nasconde dietro la sua severità, dietro la sua apparente durezza? Qual è il segreto di Giovanni? Qual è il messaggio che la Chiesa ci dà oggi con Giovanni?

In realtà il Battista, più che un uomo duro, è un uomo allergico alla doppiezza. Ad esempio, quando si avvicinano a lui farisei e sadducei, noti per la loro ipocrisia, la sua “reazione allergica” è molto forte! Alcuni di loro, infatti, probabilmente andavano da lui per curiosità o per opportunismo, perché Giovanni era diventato molto popolare. Quei farisei e sadducei si sentivano a posto e, di fronte all’appello sferzante del Battista, si giustificavano dicendo: «Abbiamo Abramo per padre» (v. 9). Così, tra doppiezze e presunzione, non coglievano l’occasione di grazia, l’opportunità di cominciare una vita nuova; erano chiusi nella presunzione di essere giusti. Perciò Giovanni dice loro: «Fate frutti degni di conversione!» (v. 8). È un grido di amore, come quello di un padre che vede il figlio rovinarsi e gli dice: “Non buttare via la tua vita!”. In effetti, cari fratelli e sorelle, l’ipocrisia è il pericolo più grave, perché può rovinare anche le realtà più sacre. L’ipocrisia è un pericolo grave! Per questo il Battista – come poi anche Gesù – è duro con gli ipocriti. Possiamo leggere per esempio il capitolo 23 di Matteo, dove Gesù parla agli ipocriti del tempo, così forte! E perché fa così il Battista e anche Gesù? Per scuoterli. Invece quelli che si sentivano peccatori «accorrevano a lui e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare» (v. 5). È così: per accogliere Dio non importa la bravura, ma l’umiltà. Questa è la strada per accogliere Dio, non la bravura: “siamo forti, siamo un popolo grande…”, no, l’umiltà: “sono un peccatore”; ma non in astratto, no, “per questo, questo, questo”, ognuno di noi deve confessare, prima di tutto a sé stesso, i propri peccati, le proprie mancanze, le proprie ipocrisie; bisogna scendere dal piedistallo e immergersi nell’acqua del pentimento.

Cari fratelli e sorelle, Giovanni, con le sue “reazioni allergiche”, ci fa riflettere. Non siamo anche noi a volte un po’ come quei farisei? Magari guardiamo gli altri dall’alto in basso, pensando di essere migliori di loro, di tenere in mano la nostra vita, di non aver bisogno ogni giorno di Dio, della Chiesa, dei fratelli. Dimentichiamo che soltanto in un caso è lecito guardare un altro dall’alto in basso: quando è necessario aiutarlo a sollevarsi; l’unico caso, gli altri non sono leciti. L’Avvento è un tempo di grazia per toglierci le nostre maschere – ognuno di noi ne ha – e metterci in coda con gli umili; per liberarci dalla presunzione di crederci autosufficienti, per andare a confessare i nostri peccati, quelli nascosti, e accogliere il perdono di Dio, per chiedere scusa a chi abbiamo offeso. Così comincia una vita nuova. E la via è una sola, quella dell’umiltà: purificarci dal senso di superiorità, dal formalismo e dall’ipocrisia, per vedere negli altri dei fratelli e delle sorelle, dei peccatori come noi, e in Gesù vedere il Salvatore che viene per noi – non per gli altri, per noi – così come siamo, con le nostre povertà, miserie e difetti, soprattutto con il nostro bisogno di essere rialzati, perdonati e salvati.

E ricordiamoci ancora una cosa: con Gesù la possibilità di ricominciare c’è sempre: mai è troppo tardi, sempre c’è la possibilità di ricominciare. Abbiate coraggio, Lui è vicino a noi e questo è un tempo di conversione. Ognuno può pensare: “Ho questa situazione dentro, questo problema che mi fa vergognare…”. Ma Gesù è accanto a te, ricomincia, sempre c’è la possibilità di fare un passo in più. Egli ci aspetta e non si stanca mai di noi. Mai si stanca! E noi siamo noiosi, ma mai si stanca. Ascoltiamo l’appello di Giovanni Battista di tornare a Dio e non lasciamo passare questo Avvento come i giorni del calendario, perché questo è un tempo di grazia, di grazia anche per noi, adesso, qui! Maria, l’umile serva del Signore, ci aiuti a incontrare Lui e i fratelli sulla via dell’umiltà, che è l’unica che ci farà andare avanti.

XXXVII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cattedrale di Asti
Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo - Domenica, 20 novembre 2022

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Abbiamo visto questo ragazzo, Stefano, che chiede di ricevere il ministero di accolito nel suo percorso verso il sacerdozio. Dobbiamo pregare per lui, perché vada avanti nella sua vocazione e sia fedele; ma anche dobbiamo pregare per questa Chiesa di Asti, perché il Signore invii vocazioni sacerdotali, perché come voi vedete la maggioranza sono vecchi, come me: ci vogliono preti giovani, come alcuni di qua che sono bravissimi. Preghiamo il Signore perché benedica questa terra.

E da queste terre mio padre è partito per emigrare in Argentina; e in queste terre, rese preziose da buoni prodotti del suolo e soprattutto dalla genuina laboriosità della gente, sono venuto a ritrovare il sapore delle radici. Ma oggi è ancora una volta il Vangelo a riportarci alle radici della fede. Esse si trovano nell’arido terreno del Calvario, dove il seme di Gesù, morendo, ha fatto germogliare la speranza: piantato nel cuore della terra ci ha aperto la via al Cielo; con la sua morte ci ha dato la vita eterna; attraverso il legno della croce ci ha portato i frutti della salvezza. Guardiamo dunque a Lui, guardiamo al Crocifisso.

Sulla croce appare una sola frase: «Costui è il re dei Giudei» (Lc 23,38). Ecco il titolo: Re. Però, osservando Gesù, la nostra idea di re viene ribaltata. Proviamo a immaginare visivamente un re: ci verrà in mente un uomo forte seduto su un trono con delle insegne preziose, uno scettro tra le mani e anelli luccicanti tra le dita, mentre proferisce ai sudditi parole solenni. Questa, grosso modo, è l’immagine che abbiamo in testa. Ma guardando Gesù, vediamo che è tutto il contrario. Egli non è seduto su un comodo trono, ma appeso ad un patibolo; il Dio che «rovescia i potenti dai troni» (Lc 1,52) opera come servo messo in croce dai potenti; ornato solo di chiodi e di spine, spogliato di tutto ma ricco di amore, dal trono della croce non ammaestra più le folle con la parola, non alza più la mano per insegnare. Fa di più: non punta il dito contro nessuno, ma apre le braccia a tutti. Così si manifesta il nostro Re: a braccia aperte, a brasa aduerte.

Solo entrando nel suo abbraccio noi capiamo: capiamo che Dio si è spinto fino a lì, fino al paradosso della croce, proprio per abbracciare tutto di noi, anche quanto di più distante c’era da Lui: la nostra morte – Lui ha abbracciato la nostra morte -, il nostro dolore, le nostre povertà, le nostre fragilità e le nostre miserie. E Lui ha abbracciato tutto questo. Si è fatto servo perché ciascuno di noi si senta figlio: ha pagato con la sua servitù la nostra figliolanza; si è lasciato insultare e deridere, perché in ogni umiliazione nessuno di noi sia più solo; si è lasciato spogliare, perché nessuno si senta spogliato della propria dignità; è salito sulla croce, perché in ogni crocifisso della storia vi sia la presenza di Dio. Ecco il nostro Re, Re di ognuno di noi, Re dell’universo perché ha valicato i confini più remoti dell’umano, è entrato nei buchi neri dell’odio, nei buchi neri dell’abbandono per illuminare ogni vita e abbracciare ogni realtà. Fratelli, sorelle, questo è il Re che oggi festeggiamo! Non è facile capirlo, ma è il nostro Re. E la domanda da farci è: questo Re dell’universo è il Re della mia esistenza? Io credo a Lui? Come posso celebrarlo Signore di ogni cosa se non diventa anche il Signore della mia vita? E tu che oggi incominci questa strada verso il sacerdozio non dimenticarti che questo è il tuo modello: non aggrapparti agli onori, no. Questo è il tuo modello; se tu non pensi di essere sacerdote come questo Re, meglio fermati lì.

Fissiamo però ancora gli occhi in Gesù Crocifisso. Vedi, Lui non osserva la tua vita per un momento e basta, non ti dedica uno sguardo fugace come spesso facciamo noi con Lui, ma Lui rimane lì, a brasa aduerte, a dirti nel silenzio che niente di te gli è estraneo, che vuole abbracciarti, rialzarti, salvarti così come sei, con la tua storia, le tue miserie, i tuoi peccati. "Ma Signore, è vero? Con le mie miserie tu mi ami così?" Ognuno in questo momento pensi alla propria povertà: “Ma, tu mi ami con queste povertà spirituali che ho, con queste limitazioni?”. E Lui sorride e ci fa capire che ci ama e ha dato la vita per noi. Pensiamo un po' ai nostri limiti, anche alle cose buone: Lui ci ama come noi siamo, come siamo adesso. Lui ci dà la possibilità di regnare nella vita, se ti arrendi al suo amore mite che si propone ma non s’impone - l’amore di Dio non si impone mai - al suo amore che sempre ti perdona. Noi tante volte ci stanchiamo di perdonare la gente e facciamo la croce, facciamo la sepoltura sociale. Lui non si stanca mai di perdonare, mai, mai: sempre ti rimette in piedi, sempre ti restituisce la tua dignità regale. Sì, la salvezza da dove viene? Dal lasciarci amare da Lui, perché solo così veniamo liberati dalla schiavitù del nostro io, dalla paura di essere soli, dal pensare di non farcela. Fratelli, sorelle, mettiamoci spesso davanti al Crocifisso, lasciamoci amare, perché quelle brasa aduerte dischiudono anche a noi il paradiso, come al “buon ladrone”. Sentiamo rivolta a noi quella frase, l’unica che Gesù dice oggi dalla croce: «Con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Questo vuole e vuol dirci Dio, a tutti noi, ogni volta che ci lasciamo guardare da Lui. E allora capiamo di non avere un dio ignoto che sta lassù nei cieli, potente e distante, no: un Dio vicino, la vicinanza è lo stile di Dio: la vicinanza, con tenerezza e misericordia. Questo è lo stile di Dio, non ha un altro stile. Vicino, misericordioso e tenero. Tenero e compassionevole, le cui braccia aperte consolano e accarezzano. Ecco il nostro Re!

Fratelli, sorelle, dopo averlo guardato, che cosa possiamo fare? Il Vangelo oggi ci pone davanti a due strade. Di fronte a Gesù c’è chi fa da spettatore e chi si coinvolge. Gli spettatori sono molti, la maggioranza. Guardano, è uno spettacolo veder morire uno in croce. Infatti – dice il testo – «il popolo stava a vedere» (v. 35). Non era gente cattiva, tanti erano credenti, ma alla vista del Crocifisso restano spettatori: non fanno un passo in avanti verso Gesù, ma lo guardano da lontano, curiosi e indifferenti, senza interessarsi davvero, senza chiedersi che cosa poter fare. Avranno commentato, forse: “Ma guarda questo…” avranno espresso giudizi e pareri: “Ma è innocente, guarda questo così…” qualcuno si sarà lamentato, ma tutti sono rimasti a guardare con le mani in mano, a braccia conserte. Ma anche vicino alla croce ci sono degli spettatori: i capi del popolo, che vogliono assistere allo spettacolo cruento della fine ingloriosa di Cristo; i soldati, i quali sperano che l’esecuzione finisca presto, per andarsene a casa; uno dei malfattori, che scarica su Gesù la sua rabbia. Deridono, insultano, si sfogano.

E tutti questi spettatori condividono un ritornello, che il testo riporta tre volte: “Se sei re, salva te stesso!” (cfr vv. 35.37.39) Lo insultano così, lo sfidano! Salva te stesso, esattamente il contrario di quello che sta facendo Gesù, che non pensa a sé, ma a salvare loro, che lo insultano. Però il salva te stesso contagia: dai capi ai soldati alla gente, l’onda del male raggiunge quasi tutti. Ma pensiamo che il male è contagioso, ci contagia: come quando noi prendiamo una malattia infettiva, ci contagia subito. E quella gente parla di Gesù ma non si sintonizza neanche un momento con Gesù. Prende la distanza e parla. È il contagio letale dell’indifferenza. Una brutta malattia l’indifferenza. “Questo non tocca me, non tocca me”. Indifferenza verso Gesù e indifferenza anche verso i malati, verso i poveri, verso i miseri della terra. A me piace domandare alla gente, e domando ad ognuno di voi; so che ognuno di voi dà l’elemosina ai poveri, e io vi domando: “Quando tu dai l’elemosina ai poveri, li guardi negli occhi? Sei capace di guardare agli occhi di quel povero o quella povera che ti chiede l’elemosina? Quando tu dai l’elemosina ai poveri, tu butti la moneta o gli tocchi la mano? Sei capace di toccare una miseria umana?”. Ognuno poi si dia la risposta oggi. Quella gente era nell’indifferenza. Quella gente parla di Gesù ma non sintonizza con Gesù. E questo è il contagio letale dell’indifferenza: che crea delle distanze con le miserie. L’onda del male si propaga sempre così: comincia dal prendere le distanze, dal guardare senza far nulla, dal non curarsi, poi si pensa solo a ciò che interessa e ci abitua a girarsi dall’altra parte. È questo è un rischio anche per la nostra fede, che appassisce se resta una teoria non diventa pratica, se non c’è coinvolgimento, se non ci si spende in prima persona, se non ci si mette in gioco. Allora si diventa cristiani all’acqua di rose – come io ho sentito dire a casa mia - che dicono di credere in Dio e di volere la pace, ma non pregano e non si prendono cura del prossimo e anche, a loro non interessa Dio, né la pace. Questi cristiani soltanto di parola, superficiali!

Questa era l’onda cattiva, che era lì al Calvario. Ma c’è anche l’onda benefica del bene. Tra tanti spettatori, uno si coinvolge, cioè il “buon ladrone”. Gli altri ridono del Signore, Lui gli parla e lo chiama per nome: “Gesù”; tanti gli gettano addosso la loro rabbia, lui confessa a Cristo i suoi sbagli; molti dicono “salva te stesso”, Lui prega: «Gesù, ricordati di me» (v. 42). Chiede soltanto questo al Signore. Bella preghiera questa. Se ognuno di noi la recita tutti i giorni è una bella strada: la strada della santità: “Gesù ricordati di me.” Così un malfattore diventa il primo santo: si fa vicino a Gesù per un istante e il Signore lo tiene con sé per sempre. Ora, il Vangelo parla del buon ladrone per noi, per invitarci a vincere il male smettendo di rimanere spettatori. Per favore, questo è peggio di fare il male, l’indifferenza. Da dove cominciare? Dalla confidenza, dal chiamare Dio per nome, proprio come ha fatto il buon ladrone, che alla fine della vita ritrova la fiducia coraggiosa dei bambini, che si fidano, chiedono, insistono. E nella confidenza ammette i suoi sbagli, piange ma non su sé stesso, bensì davanti al Signore. E noi, abbiamo questa fiducia, portiamo a Gesù quello che abbiamo dentro o ci mascheriamo davanti a Dio, magari con un po’ di sacralità e di incenso? Per favore, non fare la spiritualità del trucco: quella è noiosa. Davanti a Dio: acqua e sapone, soltanto, senza trucco, ma l’anima così com’è. E da lì viene la salvezza. Chi pratica la confidenza, come questo buon ladrone, impara l’intercessione, impara a portare a Dio quello che vede, le sofferenze del mondo, le persone che incontra; a dirgli, come il buon ladrone: “Ricordati, Signore!”. Non siamo al mondo solo per salvare noi stessi, no: ma per portare i fratelli e le sorelle nell’abbraccio del Re. Intercedere, ricordare al Signore, apre le porte del paradiso. Ma noi, quando preghiamo, intercediamo? “Ricordati Signore, ricordati di me, della mia famiglia, ricordati di questo problema, ricordati, ricordati….” Attirare l’attenzione del Signore.

Fratelli, sorelle, oggi il nostro Re dalla croce ci guarda a brasa aduerte. Sta a noi scegliere se essere spettatori o coinvolti. Sono spettatore o voglio essere coinvolto? Vediamo le crisi di oggi, il calo della fede, la mancanza di partecipazione... Che cosa facciamo? Ci limitiamo a fare teorie, ci limitiamo a criticare, o ci rimbocchiamo le maniche, prendiamo in mano la vita, passiamo dal “se” delle scuse al “sì” della preghiera e del servizio? Tutti pensiamo di sapere che cosa non va nella società, tutti; parliamo tutti i giorni di che cosa non va nel mondo e anche nella Chiesa: tante cose non vanno nella Chiesa. Ma poi facciamo qualcosa? Ci sporchiamo le mani come il nostro Dio inchiodato al legno o stiamo con le mani in tasca a guardare? Oggi, mentre Gesù, spogliato sulla croce, toglie ogni velo su Dio e distrugge ogni falsa immagine della sua regalità, guardiamo a Lui, per trovare il coraggio di guardare a noi stessi, di percorrere le vie della confidenza e dell’intercessione, di farci servi per regnare con Lui. “Ricordati Signore, ricordati”: Facciamo questa preghiera più spesso. Grazie.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 27 novembre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona domenica!

Nel Vangelo della Liturgia odierna ascoltiamo una bella promessa che ci introduce nel Tempo di Avvento: «Il Signore vostro verrà» (Mt 24,42). Questo è il fondamento della nostra speranza, è ciò che ci sostiene anche nei momenti più difficili e dolorosi della nostra vita: Dio viene, Dio è vicino e viene. Non dimentichiamolo mai! Sempre il Signore viene, il Signore ci fa visita, il Signore si fa vicino, e ritornerà alla fine dei tempi per accoglierci nel suo abbraccio. Davanti a questa parola, ci chiediamo: come viene il Signore? E come riconoscerlo e accoglierlo? Soffermiamoci brevemente su questi due interrogativi.

La prima domanda: come viene il Signore? Tante volte abbiamo sentito dire che il Signore è presente nel nostro cammino, che ci accompagna e ci parla. Ma forse, distratti come siamo da tante cose, questa verità rimane per noi solo teorica; sì, sappiamo che il Signore viene ma non la viviamo questa verità oppure immaginiamo che il Signore venga in modo eclatante, magari attraverso qualche segno prodigioso. E invece Gesù dice che avverrà “come ai giorni di Noè” (cfr v. 37). E cosa facevano ai giorni di Noè? Semplicemente le cose normali e quotidiane della vita, come sempre: «mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito» (v. 38). Teniamo conto di questo: Dio è nascosto nella nostra vita, sempre c’è, è nascosto nelle situazioni più comuni e ordinarie della nostra vita. Non viene in eventi straordinari, ma nelle cose di ogni giorno, si manifesta nelle cose di ogni giorno. Lui è lì, nel nostro lavoro quotidiano, in un incontro casuale, nel volto di una persona che ha bisogno, anche quando affrontiamo giornate che appaiono grigie e monotone, proprio lì c’è il Signore, che ci chiama, ci parla e ispira le nostre azioni.

Tuttavia, c’è una seconda domanda: come riconoscere e accogliere il Signore? Dobbiamo essere svegli, attenti, vigilanti. Gesù ci avverte: c’è il pericolo di non accorgerci della sua venuta ed essere impreparati alla sua visita. Ho ricordato altre volte quanto diceva Sant’Agostino: «Temo il Signore che passa» (Serm. 88,14.13), cioè temo che Lui passi e io non lo riconosca! Infatti, di quelle persone del tempo di Noè, Gesù dice che mangiavano e bevevano «e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti» (v. 39). Facciamo attenzione a questo: non si accorsero di nulla! Erano presi dalle loro cose e non si resero conto che stava per venire il diluvio. Infatti Gesù dice che, quando Lui verrà, «due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato» (v. 40). In che senso? Qual è la differenza? Semplicemente che uno è stato vigilante, aspettava, capace di scorgere la presenza di Dio nella vita quotidiana; l’altro, invece, era distratto, ha “tirato a campare” e non si è accorto di nulla.

Fratelli e sorelle, in questo tempo di Avvento lasciamoci scuotere dal torpore e svegliamoci dal sonno! Proviamo a chiederci: sono consapevole di ciò che vivo, sono attento, sono sveglio? Cerco di riconoscere la presenza di Dio nelle situazioni quotidiane, oppure sono distratto e un po’ travolto dalle cose? Se non ci accorgiamo oggi della sua venuta, saremo impreparati anche quando verrà alla fine dei tempi. Perciò, fratelli e sorelle, restiamo vigilanti! Aspettando che il Signore venga, aspettando che il Signore ci avvicini, perché Lui c’è, ma aspettando attenti. E la Vergine Santa, Donna dell’attesa, che ha saputo cogliere il passaggio di Dio nell’umile e nascosta vita di Nazaret e lo ha accolto nel suo grembo, ci aiuti in questo cammino di essere attenti per aspettare il Signore che è fra noi e passa.

ANGELUS

Cattedrale di Asti
Domenica, 20 novembre 2022

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Al termine di questa Celebrazione desidero esprimere la mia riconoscenza alla Diocesi, alla Provincia e alla Città di Asti: grazie per l’accoglienza calorosa che mi avete riservato! Sono tanto grato alle Autorità civili e religiose anche per i preparativi che hanno reso possibile questa desiderata visita. A tutti voi vorrei dire che a la fame propri piasi’ encuntreve! [mi ha fatto piacere incontrarvi]; e augurarvi: ch’a staga bin! [state bene!]

Un pensiero e un abbraccio speciale vorrei rivolgere ai giovani – grazie di essere venuti così numerosi –. Dallo scorso anno, proprio nella Solennità di Cristo Re si celebra nelle Chiese particolari la Giornata Mondiale della Gioventù. Il tema, lo stesso della prossima GMG di Lisbona, a cui rinnovo l’invito a partecipare, è «Maria si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39). La Madonna fece questo quand’era giovane, e ci dice che il segreto per rimanere giovani sta proprio in quei due verbi, alzarsi e andare. A me piace pensare alla Madonna che andò in fretta, andò proprio di fretta, andò in fretta e tante volte io la prego, la Madonna: “Ma, affrettati a risolvere questo problema!”. Alzarsi e andare: non restare fermi a pensare a sé stessi, sprecando la vita a inseguire le comodità o l’ultima moda, ma puntare verso l’Alto, mettersi in cammino, uscire dalle proprie paure per tendere la mano a chi ha bisogno. E oggi ci vogliono giovani veramente “trasgressivi”, non conformisti, che non siano schiavi di un cellulare, ma cambino il mondo come Maria, portando Gesù agli altri, prendendosi cura degli altri, costruendo comunità fraterne con gli altri, realizzando sogni di pace!

Il nostro tempo sta vivendo una carestia di pace: stiamo vivendo una carestia di pace. Pensiamo a tanti luoghi del mondo flagellati dalla guerra, in particolare alla martoriata Ucraina. Diamoci da fare e continuiamo a pregare per la pace! Preghiamo anche per le famiglie delle vittime del grave incendio avvenuto nei giorni scorsi in un campo di rifugiati a Gaza, in Palestina, dove sono morti anche diversi bambini. Il Signore accolga in cielo quanti hanno perso la vita e consoli quella popolazione così provata da anni di conflitto. E invochiamo ora la Regina della pace, la Madonna, a cui è dedicata questa bella Cattedrale. A lei affido le nostre famiglie, i malati e ciascuno di voi, con le preoccupazioni e le buone intenzioni che portate nel cuore.

 
 

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 13 novembre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona domenica!

Il Vangelo odierno ci porta a Gerusalemme, nel luogo più sacro: il tempio. Lì, attorno a Gesù, alcune persone parlano della magnificenza di quel grandioso edificio, «ornato di belle pietre» (Lc 21,5). Ma il Signore afferma: «Di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» (v. 6). Poi rincara la dose, spiegando come nella storia quasi tutto crolla: ci saranno, dice, rivoluzioni e guerre, terremoti carestie, pestilenze e persecuzioni (cfr vv. 9-17). Come a dire: non bisogna riporre troppa fiducia nelle realtà terrene: passano. Sono parole sagge, che però possono darci un po’ di amarezza: già tante cose vanno male, perché anche il Signore fa discorsi così negativi? In realtà il suo intento non è essere negativo, è un altro, è quello di donarci un insegnamento prezioso, cioè la via di uscita da tutta questa precarietà. E qual è la via d’uscita? Come possiamo uscire da questa realtà che passa e passa e non ci sarà più?

Essa sta in una parola che forse ci sorprende. Cristo la svela nell’ultima frase del Vangelo, quando dice: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (v. 19). La perseveranza. Che cos’è? La parola indica l’essere “molto severi”; ma severi in che senso? Con sé stessi, ritenendosi non all’altezza? No. Con gli altri, diventando rigidi e inflessibili? Nemmeno. Gesù chiede di essere “severi”, ligi, persistenti in ciò che a Lui sta a cuore, in ciò che conta. Perché, quel che davvero conta, molte volte non coincide con ciò che attira il nostro interesse: spesso, come quella gente al tempio, diamo priorità alle opere delle nostre mani, ai nostri successi, alle nostre tradizioni religiose e civili, ai nostri simboli sacri e sociali. Questo va bene, ma gli diamo troppa priorità. Sono cose importanti, ma passano. Invece Gesù dice di concentrarsi su ciò che resta, per evitare di dedicare la vita a costruire qualcosa che poi sarà distrutto, come quel tempio, e dimenticarsi di edificare ciò che non crolla, di edificare sulla sua parola, sull’amore, sul bene. Essere perseveranti, essere severi e decisi nell’edificare su ciò che non passa.

Ecco allora che cos’è la perseveranza: è costruire ogni giorno il bene. Perseverare è rimanere costanti nel bene, soprattutto quando la realtà attorno spinge a fare altro. Facciamo qualche esempio: so che pregare è importante, ma anch’io, come tutti, ho sempre molto da fare, e allora rimando: “No, adesso sono indaffarato, non posso, la faccio dopo”. Oppure, vedo tanti furbi che approfittano delle situazioni, che “dribblano” le regole, e smetto pure io di osservarle, di perseverare nella giustizia e nella legalità: “Ma se questi furbi lo fanno, lo faccio anch’io”. Stai attendo a questo! Ancora: faccio un servizio nella Chiesa, per la comunità, per i poveri, ma vedo che tanta gente nel tempo libero pensa solo a divertirsi, e allora mi vien voglia di lasciar stare e fare come loro. Perché non vedo dei risultati o mi annoio o non mi rende felice.

Perseverare, invece, è restare nel bene. Chiediamoci: come va la mia perseveranza? Sono costante oppure vivo la fede, la giustizia e la carità a seconda dei momenti: se mi va prego, se mi conviene sono corretto, disponibile e servizievole, mentre, se sono insoddisfatto, se nessuno mi ringrazia, smetto? Insomma, la mia preghiera e il mio servizio dipendono dalle circostanze o da un cuore saldo nel Signore? Se perseveriamo – ci ricorda Gesù – non abbiamo nulla da temere, anche nelle vicende tristi e brutte della vita, nemmeno del male che vediamo attorno a noi, perché rimaniamo fondati nel bene. Dostoevskij scrisse: «Non abbiate paura dei peccati degli uomini, amate l’uomo anche col suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è il culmine dell’amore sulla terra» (I fratelli Karamazov, II,6,3g). La perseveranza è il riflesso nel mondo dell’amore di Dio, perché l’amore di Dio è fedele, è perseverante, non cambia mai.

La Madonna, serva del Signore perseverante nella preghiera (cfr At 1,12), rafforzi la nostra costanza.

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
nel REGNO DEL BAHREIN

in occasione del "Bahrain Forum for Dialogue: East and West for Human Coexistence"
(3 - 6 NOVEMBRE 2022)

INCONTRO CON LE AUTORITÀ, CON LA SOCIETÀ CIVILE E CON IL CORPO DIPLOMATICO

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Awali
Giovedì, 3 novembre 2022

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Maestà,
Altezze Reali,
illustri Membri del Governo e del Corpo Diplomatico,
distinte Autorità religiose e civili,
Signore e Signori,
As-salamu alaikum!

Ringrazio di cuore Sua Maestà per il gentile invito a visitare il Regno del Bahrein, per la calorosa e generosa accoglienza e per le parole di benvenuto che mi ha rivolto. Saluto cordialmente ciascuno di voi. Desidero indirizzare un pensiero amichevole e affettuoso a quanti abitano questo Paese: ad ogni credente, ad ogni persona e ad ogni famiglia, che la Costituzione del Bahrein definisce «pietra angolare della società». A tutti esprimo la mia gioia per essere tra voi.

Qui, dove le acque del mare circondano le sabbie del deserto e imponenti grattacieli affiancano i tradizionali mercati orientali, realtà lontane s’incontrano: antichità e modernità convergono, storia e progresso si fondono; soprattutto, genti di varie provenienze formano un originale mosaico di vita. Preparandomi a questo viaggio, sono venuto a conoscenza di un “emblema di vitalità” che caratterizza il Paese. Mi riferisco al cosiddetto “albero della vita” (Shajarat-al-Hayat), al quale vorrei ispirarmi per condividere alcuni pensieri. Si tratta di una maestosa acacia, che sopravvive da secoli in un’area desertica, dove le piogge sono molto scarse. Sembra impossibile che un albero tanto longevo resista e prosperi in tali condizioni. Secondo molti, il segreto sta nelle radici, che si estendono per decine di metri sotto il suolo, attingendo a depositi sotterranei d’acqua.

Le radici, dunque: il Regno del Bahrein è impegnato nella ricerca e nella valorizzazione del suo passato, il quale racconta di una terra estremamente antica, alla quale, già millenni fa, le genti accorrevano, attirate dalla sua bellezza, data in particolare dalle abbondanti sorgenti di acque dolci che le diedero la fama di essere paradisiaca: l’antico regno di Dilmun era detto “terra dei vivi”. Risalendo le vaste radici del tempo – ben 4.500 anni di ininterrotta presenza umana – emerge come la posizione geografica, la propensione e le capacità commerciali della gente, nonché certe vicende storiche, abbiano dato al Bahrein l’opportunità di plasmarsi quale crocevia di mutuo arricchimento tra i popoli. Un aspetto, dunque, risalta da questa terra: essa è sempre stata luogo di incontro tra popolazioni diverse.

Ecco l’acqua vitale alla quale ancora oggi attingono le radici del Bahrein, la cui più grande ricchezza risplende nella sua varietà etnica e culturale, nella convivenza pacifica e nella tradizionale accoglienza della popolazione. Una diversità non omologante, ma includente, rappresenta il tesoro di ogni Paese veramente evoluto. E su queste isole si ammira una società composita, multietnica e multireligiosa, capace di superare il pericolo dell’isolamento. È tanto importante nel nostro tempo, in cui il ripiegamento esclusivo su sé stessi e sui propri interessi impedisce di cogliere l’importanza irrinunciabile dell’insieme. Invece, i molti gruppi nazionali, etnici e religiosi qui coesistenti testimoniano che si può e si deve convivere nel nostro mondo, diventato da decenni un villaggio globale nel quale, data per scontata la globalizzazione, è ancora per molti versi sconosciuto “lo spirito del villaggio”: l’ospitalità, la ricerca dell’altro, la fraternità. Al contrario, assistiamo con preoccupazione alla crescita, su larga scala, dell’indifferenza e del sospetto reciproco, al dilatarsi di rivalità e contrapposizioni che si speravano superate, a populismi, estremismi e imperialismi che mettono a repentaglio la sicurezza di tutti. Nonostante il progresso e tante conquiste civili e scientifiche, la distanza culturale tra le varie parti del mondo aumenta, e alle benefiche opportunità di incontro si antepongono scellerati atteggiamenti di scontro.

Pensiamo invece all’albero della vita – il vostro simbolo – e negli aridi deserti della convivenza umana distribuiamo l’acqua della fraternità: non lasciamo evaporare la possibilità dell’incontro tra civiltà, religioni e culture, non permettiamo che secchino le radici dell’umano! Lavoriamo insieme, lavoriamo per l’insieme, per la speranza! Sono qui, nella terra dell’albero della vita, come seminatore di pace, per vivere giorni di incontro, per partecipare a un Forum di dialogo tra Oriente e Occidente per la pacifica convivenza umana. Ringrazio da ora i compagni di viaggio, in modo speciale i Rappresentanti religiosi. Questi giorni segnano una tappa preziosa nel percorso di amicizia intensificatosi negli ultimi anni con vari capi religiosi islamici: un cammino fraterno che, sotto lo sguardo del Cielo, vuole favorire la pace in Terra.

A tale proposito, esprimo apprezzamento per le conferenze internazionali e per le opportunità d’incontro che questo Regno organizza e favorisce, mettendo specialmente a tema il rispetto, la tolleranza e la libertà religiosa. Sono temi essenziali, riconosciuti dalla Costituzione del Paese, la quale stabilisce che «non vi deve essere alcuna discriminazione in base al sesso, alla provenienza, alla lingua, alla religione o al credo» (art. 18), che «la libertà di coscienza è assoluta» e che «lo Stato tutela l’inviolabilità del culto» (art. 22). Sono, soprattutto, impegni da tradurre costantemente in pratica, perché la libertà religiosa diventi piena e non si limiti alla libertà di culto; perché uguale dignità e pari opportunità siano concretamente riconosciute ad ogni gruppo e ad ogni persona; perché non vi siano discriminazioni e i diritti umani fondamentali non vengano violati, ma promossi. Penso anzitutto al diritto alla vita, alla necessità di garantirlo sempre, anche nei riguardi di chi viene punito, la cui esistenza non può essere eliminata.

Ritorniamo all’albero della vita. I molti rami di diverse dimensioni che lo caratterizzano col tempo hanno dato vita a folte chiome, accrescendone l’altezza e l’ampiezza. In questo Paese è stato proprio il contributo di tante persone di popoli differenti a consentire un notevole sviluppo produttivo. Ciò è stato reso possibile dall’immigrazione, di cui il Regno del Bahrein vanta uno dei tassi più elevati al mondo: circa la metà della popolazione residente è straniera e lavora in modo cospicuo per lo sviluppo di un Paese nel quale, pur avendo lasciato la propria patria, si sente a casa. Non si può però dimenticare che nei nostri tempi c’è ancora troppa mancanza di lavoro, e troppo lavoro disumanizzante: ciò non comporta solo gravi rischi di instabilità sociale, ma rappresenta un attentato alla dignità umana. Il lavoro, infatti, non è solo necessario per guadagnarsi da vivere, è un diritto indispensabile per sviluppare integralmente sé stessi e per plasmare una società a misura d’uomo.

Da questo Paese, attraente per le opportunità lavorative che offre, vorrei richiamare l’emergenza della crisi lavorativa mondiale: spesso il lavoro, prezioso come il pane, manca; sovente, è pane avvelenato, perché schiavizza. In entrambi i casi al centro non c’è più l’uomo, che da fine sacro e inviolabile del lavoro viene ridotto a mezzo per produrre denaro. Siano perciò ovunque garantite condizioni lavorative sicure e degne dell’uomo, che non impediscano, ma favoriscano la vita culturale e spirituale; che promuovano la coesione sociale, a vantaggio della vita comune e dello sviluppo stesso dei Paesi (cfr Gaudium et spes, 9.27.60.67).

Il Bahrein vanta preziose acquisizioni in tal senso: penso, ad esempio, alla prima scuola femminile sorta nel Golfo e all’abolizione della schiavitù. Sia faro nel promuovere in tutta l’area diritti e condizioni eque e sempre migliori per i lavoratori, le donne e i giovani, garantendo in pari tempo rispetto e attenzione per quanti si sentono più ai margini della società, come gli emigrati e i detenuti: lo sviluppo vero, umano, integrale si misura soprattutto dall’attenzione nei loro riguardi.

L’albero della vita, che si erge solitario nel paesaggio desertico, mi richiama ancora due ambiti decisivi per tutti e che interpellano anzitutto chi, governando, detiene la responsabilità di servire il bene comune. In primo luogo la questione ambientale: quanti alberi vengono abbattuti, quanti ecosistemi devastati, quanti mari inquinati dall’insaziabile avidità dell’uomo, che poi gli si ritorce contro! Non stanchiamoci di adoperarci per questa drammatica urgenza, ponendo in essere scelte concrete e lungimiranti, intraprese pensando alle giovani generazioni, prima che sia troppo tardi e si comprometta il loro futuro! La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP27), che avrà luogo in Egitto tra pochi giorni, sia un passo in avanti in tal senso!

In secondo luogo, l’albero della vita, con le sue radici che dal sottosuolo comunicano l’acqua vitale al tronco, e da questo ai rami e quindi alle foglie, che donano ossigeno alle creature, mi fa pensare alla vocazione dell’uomo, di ogni uomo che sta sulla terra: far prosperare la vita. Ma oggi assistiamo, ogni giorno di più, ad azioni e minacce di morte. Penso, in particolare, alla realtà mostruosa e insensata della guerra, che ovunque semina distruzione e sradica speranza. Nella guerra emerge il lato peggiore dell’uomo: egoismo, violenza e menzogna. Sì, perché la guerra, ogni guerra, rappresenta anche la morte della verità. Rifiutiamo la logica delle armi e invertiamo la rotta, tramutando le ingenti spese militari in investimenti per combattere la fame, la mancanza di cure sanitarie e di istruzione. Ho nel cuore il dolore per tante situazioni di conflitto. Guardando alla Penisola arabica, i cui Paesi desidero salutare con cordialità e rispetto, rivolgo un pensiero speciale e accorato allo Yemen, martoriato da una guerra dimenticata che, come ogni guerra, non porta a nessuna vittoria, ma solo a cocenti sconfitte per tutti. Porto nella preghiera soprattutto i civili, i bambini, gli anziani, i malati e imploro: tacciano le armi, tacciano le armi, tacciano le armi! Impegniamoci ovunque e davvero per la pace!

La Dichiarazione del Regno del Bahrein riconosce, a tale proposito, che la fede religiosa è «una benedizione per tutto il genere umano», il fondamento «per la pace nel mondo». Sono qui da credente, da cristiano, da uomo e pellegrino di pace, perché oggi come mai siamo chiamati, dappertutto, a impegnarci seriamente per la pace. Maestà, Altezze Reali, Autorità, Amici, faccio dunque mio e condivido con voi, quale auspicio per questi desiderati giorni di visita nel Regno del Bahrein, un bel passaggio della stessa Dichiarazione: «Ci impegniamo a lavorare per un mondo dove le persone dal credo sincero si uniscono tra di loro per ripudiare ciò che ci divide ed avvicinare invece ciò che ci unisce». Sia così, con la benedizione dell’Altissimo! Shukran! [grazie!]

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Martedì, 1° novembre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buona festa, buongiorno!

Oggi, festeggiamo tutti i Santi e potremmo avere un’impressione fuorviante: potremmo pensare di celebrare quelle sorelle e quei fratelli che in vita sono stati perfetti, sempre lineari, precisi, anzi “inamidati”. Invece, il Vangelo di oggi smentisce questa visione stereotipata, questa “santità da immaginetta”. Infatti le Beatitudini di Gesù (cfr Mt 5,1-12), che sono la carta d’identità dei santi, mostrano tutto l’opposto: parlano di una vita controcorrente, di una vita rivoluzionaria! I santi sono i veri rivoluzionari.

Prendiamo ad esempio una beatitudine, molto attuale: «Beati gli operatori di pace» (v. 9), e vediamo come la pace di Gesù sia molto diversa da quella che immaginiamo. Tutti desideriamo la pace, ma spesso quello che noi vogliamo non è proprio la pace, è stare in pace, essere lasciati in pace, non avere problemi ma tranquillità. Gesù, invece, non chiama beati i tranquilli, quelli che stanno in pace, ma quelli che fanno la pace e lottano per fare la pace, i costruttori, gli operatori di pace. Infatti, la pace va costruita e come ogni costruzione richiede impegno, collaborazione, pazienza. Noi vorremmo che la pace piovesse dall’alto, invece la Bibbia parla del «seme della pace» (Zc 8,12), perché essa germoglia dal terreno della vita, dal seme del nostro cuore; cresce nel silenzio, giorno dopo giorno, attraverso opere di giustizia e di misericordia, come ci mostrano i testimoni luminosi che festeggiamo oggi. Ancora, noi siamo portati a credere che la pace arrivi con la forza e la potenza: per Gesù è il contrario. La sua vita e quella dei santi ci dicono che il seme della pace, per crescere e dare frutto, deve prima morire. La pace non si raggiunge conquistando o sconfiggendo qualcuno, non è mai violenta, non è mai armata. Stavo vedendo nel programma “A Sua Immagine”, tanti santi e sante che hanno lottato, hanno fatto la pace ma con il lavoro, dando la propria vita, offrendo la vita.

Come si fa allora a diventare operatori di pace? Prima di tutto occorre disarmare il cuore. Sì, perché siamo tutti equipaggiati con pensieri aggressivi, uno contro l’altro, con parole taglienti, e pensiamo di difenderci con i fili spinati della lamentela e con i muri di cemento dell’indifferenza; e fra lamentela e indifferenza ci difendiamo, ma questo non è pace, questo è guerra. Il seme della pace chiede di smilitarizzare il campo del cuore. Come va il tuo cuore? È smilitarizzato o è così con queste cose, con la lamentela e l’indifferenza, con l’aggressione? E come si smilitarizza il cuore? Aprendoci a Gesù, che è «la nostra pace» (Ef 2,14); stando davanti alla sua Croce, che è la cattedra della pace; ricevendo da Lui, nella Confessione, «il perdono e la pace». Da qui si comincia, perché essere operatori di pace, essere santi, non è capacità nostra, è dono suo, è grazia.

Fratelli e sorelle, guardiamoci dentro e chiediamoci: siamo costruttori di pace? Lì dove viviamo, studiamo e lavoriamo, portiamo tensione, parole che feriscono, chiacchiere che avvelenano, polemiche che dividono? Oppure apriamo la via della pace: perdoniamo chi ci ha offeso, ci prendiamo cura di chi si trova ai margini, risaniamo qualche ingiustizia aiutando chi ha di meno? Questo si chiama costruire la pace.

Può sorgere però un’ultima domanda, che vale per ogni beatitudine: conviene vivere così? Non è perdente? È Gesù a darci la risposta: gli operatori di pace «saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9): nel mondo sembrano fuori posto, perché non cedono alla logica del potere e del prevalere, in Cielo saranno i più vicini a Dio, i più simili a Lui. Ma, in realtà, anche qui chi prevarica resta a mani vuote, mentre chi ama tutti e non ferisce nessuno vince: come dice il Salmo, “l’uomo di pace avrà una discendenza” (cfr Sal 37,37).

La Vergine Maria, Regina di tutti i santi, ci aiuti a essere costruttori di pace nella vita di ogni giorno.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 30 ottobre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, nella Liturgia, il Vangelo narra l’incontro tra Gesù e Zaccheo, capo dei pubblicani nella città di Gerico (Lc 19,1-10). Al centro di questo racconto c’è il verbo cercare. Stiamo attenti: cercare. Zaccheo «cercava di vedere chi era Gesù» (v. 3) e Gesù, dopo averlo incontrato, afferma: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (v. 10). Soffermiamoci un po’ sui due sguardi che si cercano: lo sguardo di Zaccheo che cerca Gesù e lo sguardo di Gesù che cerca Zaccheo.

Lo sguardo di Zaccheo. Si tratta di un pubblicano, cioè uno di quegli ebrei che raccoglievano le tasse per conto dei dominatori romani – un traditore della patria – e approfittavano di questa loro posizione. Per questo, Zaccheo era ricco, odiato da tutti e additato come peccatore. Il testo dice che «era piccolo di statura» (v. 3) e con questo forse allude anche alla sua bassezza interiore, alla sua vita mediocre, disonesta, con lo sguardo sempre rivolto in basso. Ma l’importante è che era piccolino. Eppure, Zaccheo vuole vedere Gesù. Qualcosa lo spinge a vederlo. «Corse avanti – dice il Vangelo – e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là» (v. 4). Salì su un sicomoro: Zaccheo, l’uomo che dominava tutto, fa il ridicolo, va sulla strada del ridicolo per vedere Gesù. Pensiamo un po’ cosa accadrebbe se, per esempio, un ministro dell’economia salisse su un albero per guardare un’altra cosa: rischia la beffa. E Zaccheo ha rischiato la beffa per vedere Gesù, ha fatto il ridicolo. Zaccheo, nella sua bassezza, sente il bisogno di cercare un altro sguardo, quello di Cristo. Ancora non lo conosce, ma aspetta qualcuno che lo liberi della sua condizione – moralmente bassa –, che lo faccia uscire dalla palude in cui si trova. Questo è fondamentale: Zaccheo ci insegna che, nella vita, non è mai tutto perduto. Per favore, mai tutto è perduto, mai! Sempre possiamo fare spazio al desiderio di ricominciare, di ripartire, di convertirci. E questo è quello che fa Zaccheo.

Decisivo in questo senso è il secondo aspetto: lo sguardo di Gesù. Egli è stato inviato dal Padre a cercare chi si è perduto; e quando arriva a Gerico, passa proprio accanto all’albero dove sta Zaccheo. Il Vangelo narra che «Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”» (v. 5). È un’immagine molto bella, perché se Gesù deve alzare lo sguardo, significa che guarda Zaccheo dal basso. Questa è la storia della salvezza: Dio non ci ha guardato dall’alto per umiliarci e giudicarci, no; al contrario, si è abbassato fino a lavarci i piedi, guardandoci dal basso e restituendoci dignità. Così, l’incrocio di sguardi tra Zaccheo e Gesù sembra riassumere l’intera storia della salvezza: l’umanità con le sue miserie cerca la redenzione, ma anzitutto Dio con misericordia cerca la creatura per salvarla.

Fratelli, sorelle, ricordiamoci questo: lo sguardo di Dio non si ferma mai al nostro passato pieno di errori, ma guarda con infinita fiducia a ciò che possiamo diventare. E se a volte ci sentiamo persone di bassa statura, non all’altezza delle sfide della vita e tanto meno del Vangelo, impantanati nei problemi e nei peccati, Gesù ci guarda sempre con amore; come con Zaccheo ci viene incontro, ci chiama per nome e, se lo accogliamo, viene a casa nostra. Allora possiamo chiederci: come guardiamo a noi stessi? Ci sentiamo inadeguati e ci rassegniamo, oppure proprio lì, quando ci sentiamo giù, cerchiamo l’incontro con Gesù? E poi: che sguardo abbiamo verso coloro che hanno sbagliato e faticano a rialzarsi dalla polvere dei loro errori? È uno sguardo dall’alto, che giudica, disprezza, che esclude? Ricordiamoci che è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto per aiutarla a sollevarsi: niente di più. Soltanto in questo è lecito guardare dall’alto in basso. Ma noi cristiani dobbiamo avere lo sguardo di Cristo, che abbraccia dal basso, che cerca chi è perduto, con compassione. Questo è, e dev’essere, lo sguardo della Chiesa, sempre, lo sguardo di Cristo, non lo sguardo condannatore.

Preghiamo Maria, di cui il Signore ha guardato l’umiltà, e chiediamole il dono di uno sguardo nuovo su di noi e sugli altri.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 23 ottobre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna ci presenta una parabola che ha due protagonisti, un fariseo e un pubblicano (cfr Lc 18,9-14), cioè un uomo religioso e un peccatore conclamato. Entrambi salgono al tempio a pregare, ma soltanto il pubblicano si eleva veramente a Dio, perché con umiltà scende nella verità di sé stesso e si presenta così com’è, senza maschere, con le sue povertà. Potremmo dire, allora, che la parabola è compresa tra due movimenti, espressi da due verbi: salire e scendere.

Il primo movimento è salire. Il testo infatti comincia dicendo: «Due uomini salirono al tempio a pregare» (v. 10). Questo aspetto richiama tanti episodi della Bibbia, dove per incontrare il Signore si sale verso il monte della sua presenza: Abramo sale sul monte per offrire il sacrificio; Mosè sale sul Sinai per ricevere i comandamenti; Gesù sale sul monte, dove viene trasfigurato. Salire, perciò, esprime il bisogno del cuore di staccarsi da una vita piatta per andare incontro al Signore; di elevarsi dalle pianure del nostro io per salire verso Dio – liberarsi del proprio io –; di raccogliere quanto viviamo a valle per portarlo al cospetto del Signore. Questo è “salire”, e quando preghiamo noi saliamo.

Ma per vivere l’incontro con Lui ed essere trasformati dalla preghiera, per elevarci a Dio, c’è bisogno del secondo movimento: scendere. Come mai? Che cosa significa questo? Per salire verso di Lui dobbiamo scendere dentro di noi: coltivare la sincerità e l’umiltà del cuore, che ci donano uno sguardo onesto sulle nostre fragilità e le nostre povertà interiori. Nell’umiltà, infatti, diventiamo capaci di portare a Dio, senza finzioni, ciò che realmente siamo, i limiti e le ferite, i peccati, le miserie che ci appesantiscono il cuore, e di invocare la sua misericordia perché ci risani, ci guarisca, ci rialzi. Sarà Lui a rialzarci, non noi. Più noi scendiamo con umiltà, più Dio ci fa salire in alto.

Infatti, il pubblicano della parabola umilmente si ferma a distanza (cfr v. 13) – non si avvicina, ha vergogna –, chiede perdono, e il Signore lo rialza. Invece il fariseo si esalta, sicuro di sé, convinto di essere a posto: stando in piedi, inizia a parlare al Signore solo di sé stesso, a lodarsi, a elencare tutte le buone opere religiose che fa, e disprezza gli altri: “Non sono come quello là…”. Perché questo fa la superbia spirituale – “Ma padre, perché ci parla della superbia spirituale?”. Perché tutti noi rischiamo di cadere in questo –. Essa ti porta a crederti per bene e a giudicare gli altri. Questa è la superbia spirituale: “Io sto bene, io sono migliore degli altri: questo è la tal cosa, quello è la tal altra…”. E così, senza accorgerti, adori il tuo io e cancelli il tuo Dio. È un ruotare intorno a sé stessi. Questa è la preghiera senza umiltà.

Fratelli, sorelle, il fariseo e il pubblicano ci riguardano da vicino. Pensando a loro, guardiamo a noi stessi: verifichiamo se in noi, come nel fariseo, c’è «l’intima presunzione di essere giusti» (v. 9) che ci porta a disprezzare gli altri. Succede, ad esempio, quando ricerchiamo i complimenti e facciamo sempre l’elenco dei nostri meriti e delle nostre buone opere, quando ci preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo. Vigiliamo sul narcisismo e sull’esibizionismo, fondati sulla vanagloria, che portano anche noi cristiani, noi preti, noi vescovi ad avere sempre una parola sulle labbra, quale parola? “Io”: “io ho fatto questo, io ho scritto quest’altro, io l’avevo detto, io l’avevo capito prima di voi”, e così via. Dove c’è troppo io, c’è poco Dio. Da noi, nella mia terra, questa persone le si chiama “io-con me-per me-solo io”, questo è il nome di quella gente. E una volta si parlava di un prete che era così, centrato in sé stesso, e la gente per scherzare diceva: “Quello, quando fa l’incensazione, la fa a rovescio, si autoincensa”. È così, ti fa cadere anche nel ridicolo.

Chiediamo l’intercessione di Maria Santissima, l’umile serva del Signore, immagine vivente di ciò che il Signore ama compiere, rovesciando i potenti dai troni e innalzando gli umili (cfr Lc 1,52).

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 16 ottobre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna si conclude con una domanda preoccupata di Gesù: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Come a dire: quando verrò alla fine della storia – ma, possiamo pensare, anche ora, in questo momento della vita – troverò un po’ fede in voi, nel vostro mondo? È una domanda seria. Immaginiamo che il Signore venga oggi sulla terra: vedrebbe, purtroppo, tante guerre, tanta povertà, tante disuguaglianze, e al tempo stesso grandi conquiste della tecnica, mezzi moderni e gente che va sempre di corsa, senza fermarsi mai; ma troverebbe chi gli dedica tempo e affetto, chi lo mette al primo posto? E soprattutto chiediamoci: che cosa troverebbe in me, se il Signore oggi venisse, che cosa troverebbe in me, nella mia vita, nel mio cuore? Quali priorità della mia vita vedrebbe?

Noi, spesso, ci concentriamo su tante cose urgenti ma non necessarie, ci occupiamo e ci preoccupiamo di molte realtà secondarie; e magari, senza accorgerci, trascuriamo quello che più conta e lasciamo che il nostro amore per Dio si vada raffreddando, si raffreddi poco a poco. Oggi Gesù ci offre il rimedio per riscaldare una fede intiepidita. E qual è il rimedio? La preghiera. La preghiera è la medicina della fede, il ricostituente dell’anima. Bisogna, però, che sia una preghiera costante. Se dobbiamo seguire una cura per stare meglio, è importante osservarla bene, assumere i farmaci nei modi e nei tempi dovuti, con costanza e regolarità. In tutto nella vita c’è bisogno di questo. Pensiamo a una pianta che teniamo in casa: dobbiamo nutrirla con costanza ogni giorno, non possiamo inzupparla e poi lasciarla senz’acqua per settimane! A maggior ragione per la preghiera: non si può vivere solo di momenti forti o di incontri intensi ogni tanto per poi “entrare in letargo”. La nostra fede si seccherà. C’è bisogno dell’acqua quotidiana della preghiera, c’è bisogno di un tempo dedicato a Dio, in modo che Lui possa entrare nel nostro tempo, nella nostra storia; di momenti costanti in cui gli apriamo il cuore, così che Egli possa riversare in noi ogni giorno amore, pace, gioia, forza, speranza; nutrire, cioè, la nostra fede.

Per questo Gesù oggi parla «ai suoi discepoli – a tutti, non solo ad alcuni! – della necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (v. 1). Ma uno potrebbe obiettare: “Ma io come faccio? Non vivo in un convento, non ho molto tempo per pregare!”. Può venire in aiuto, forse, a questa difficoltà, che è vera, una pratica spirituale sapiente, che si è oggi un po’ dimenticata, che i nostri anziani, soprattutto le nonne, conoscono bene: quella delle cosiddette giaculatorie. Il nome è un po’ desueto, ma la sostanza è buona. Di che cosa si tratta? Di brevissime preghiere, facili da memorizzare, che possiamo ripetere spesso durante la giornata, nel corso delle varie attività, per restare “sintonizzati” con il Signore. Facciamo qualche esempio. Appena svegliati possiamo dire: “Signore, ti ringrazio e ti offro questa giornata”: questa è una piccola preghiera; poi, prima di un’attività, possiamo ripetere: “Vieni, Spirito Santo”; e tra una cosa e l’altra pregare così: “Gesù, confido in te, Gesù, ti amo”. Piccole preghierine ma che ci mantengono in contatto con il Signore. Quante volte mandiamo “messaggini” alle persone a cui vogliamo bene! Facciamolo anche con il Signore, perché il cuore rimanga connesso a Lui. E non dimentichiamo di leggere le sue risposte. Il Signore risponde, sempre. Dove le troviamo? Nel Vangelo, da tenere sempre sotto mano e da aprire ogni giorno alcune volte, per ricevere una Parola di vita diretta a noi.

E torniamo a quel consiglio che ho dato tante volte: portate un piccolo Vangelo tascabile, nella tasca, nella borsa, e così quando avete un minuto aprite e leggete qualcosa, e il Signore risponderà.

La Vergine Maria, fedele nell’ascolto, ci insegni l’arte di pregare sempre, senza stancarci.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 9 ottobre 2022

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Prima di concludere questa Celebrazione eucaristica, saluto e ringrazio tutti voi, che siete venuti per onorare i nuovi Santi. Saluto i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, in particolare i Missionari e le Missionarie di San Carlo Borromeo e i Fratelli salesiani coadiutori. Saluto con riconoscenza le Delegazioni ufficiali.

Oggi, a Fabriano, verrà beatificata Maria Costanza Panas, monaca clarissa cappuccina, vissuta nel Monastero di Fabriano dal 1917 al 1963, quando partì per il Cielo. Accoglieva quanti bussavano al monastero infondendo in tutti serenità e fiducia. Negli ultimi anni, gravemente inferma, offrì le sue sofferenze per il Concilio Vaticano II, di cui ricorre dopodomani il 60° di apertura. La Beata Maria Costanza ci aiuti ad essere sempre fiduciosi in Dio e accoglienti verso il prossimo. Un applauso alla nuova Beata!

A proposito dell’inizio del Concilio, 60 anni fa, non possiamo dimenticare il pericolo di guerra nucleare che proprio allora minacciava il mondo. Perché non imparare dalla storia? Anche in quel momento c’erano conflitti e grandi tensioni, ma si scelse la via pacifica. Sta scritto nella Bibbia: «Così dice il Signore: «Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita» (Ger 6,16).

Assicuro la mia preghiera per le vittime del folle atto di violenza avvenuto tre giorni fa in Tailandia. Con commozione affido al Padre della vita, in particolare, i piccoli bambini e le loro famiglie.

Ed ora ci rivolgiamo alla Vergine Maria, perché ci aiuti ad essere testimoni del Vangelo, animati dall’esempio dei Santi.

 

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 2 ottobre 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

L’andamento della guerra in Ucraina è diventato talmente grave, devastante e minaccioso, da suscitare grande preoccupazione. Per questo oggi vorrei dedicarvi l’intera riflessione prima dell’Angelus. Infatti, questa terribile e inconcepibile ferita dell’umanità, anziché rimarginarsi, continua a sanguinare sempre di più, rischiando di allargarsi.

Mi affliggono i fiumi di sangue e di lacrime versati in questi mesi. Mi addolorano le migliaia di vittime, in particolare tra i bambini, e le tante distruzioni, che hanno lasciato senza casa molte persone e famiglie e minacciano con il freddo e la fame vasti territori. Certe azioni non possono mai essere giustificate, mai! È angosciante che il mondo stia imparando la geografia dell’Ucraina attraverso nomi come Bucha, Irpin, Mariupol, Izium, Zaporizhzhia e altre località, che sono diventate luoghi di sofferenze e paure indescrivibili. E che dire del fatto che l’umanità si trova nuovamente davanti alla minaccia atomica? È assurdo.

Che cosa deve ancora succedere? Quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? In nome di Dio e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate-il-fuoco. Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili. E tali saranno se fondate sul rispetto del sacrosanto valore della vita umana, nonché della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni Paese, come pure dei diritti delle minoranze e delle legittime preoccupazioni.

Deploro vivamente la grave situazione creatasi negli ultimi giorni, con ulteriori azioni contrarie ai principi del diritto internazionale. Essa, infatti, aumenta il rischio di un’escalation nucleare, fino a far temere conseguenze incontrollabili e catastrofiche a livello mondiale.

Il mio appello si rivolge innanzitutto al Presidente della Federazione Russa, supplicandolo di fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte. D’altra parte, addolorato per l’immane sofferenza della popolazione ucraina a seguito dell’aggressione subita, dirigo un altrettanto fiducioso appello al Presidente dell’Ucraina ad essere aperto a serie proposte di pace. A tutti i protagonisti della vita internazionale e ai responsabili politici delle Nazioni chiedo con insistenza di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per porre fine alla guerra in corso, senza lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation, e per promuovere e sostenere iniziative di dialogo. Per favore, facciamo respirare alle giovani generazioni l’aria sana della pace, non quella inquinata della guerra, che è una pazzia!

Dopo sette mesi di ostilità, si faccia ricorso a tutti gli strumenti diplomatici, anche quelli finora eventualmente non utilizzati, per far finire questa immane tragedia. La guerra in sé stessa è un errore e un orrore!

Confidiamo nella misericordia di Dio, che può cambiare i cuori, e nell’intercessione materna della Regina della pace, nel momento in cui si eleva la Supplica alla Madonna del Rosario di Pompei, spiritualmente uniti ai fedeli radunati presso il suo Santuario e in tante parti del mondo.

VISITA PASTORALE A MATERA
PER LA CONCLUSIONE DEL 27° CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Stadio comunale XXI Settembre (Matera)
Domenica, 25 settembre 2022

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Al termine di questa Celebrazione, desidero ringraziare tutti voi che vi avete preso parte, rappresentando il Popolo santo di Dio che è in Italia. E sono grato al Cardinale Zuppi che se n’è fatto portavoce. Mi congratulo con la Comunità diocesana di Matera-Irsina per lo sforzo organizzativo e di accoglienza; e ringrazio tutti coloro che hanno collaborato per questo Congresso Eucaristico.

Ora, prima di concludere, ci rivolgiamo alla Vergine Maria, Donna eucaristica. A Lei affidiamo il cammino della Chiesa in Italia, perché in ogni comunità si senta il profumo di Cristo Pane vivo disceso dal Cielo. Io oserei oggi chiedere per l’Italia: più nascite, più figli. E invochiamo la sua materna intercessione per i bisogni più urgenti del mondo.

Penso, in particolare, al Myanmar. Da più di due anni quel nobile Paese è martoriato da gravi scontri armati e violenze, che hanno causato tante vittime e sfollati. Questa settimana mi è giunto il grido di dolore per la morte di bambini in una scuola bombardata. Si vede che è la moda, bombardare le scuole, oggi, nel mondo! Che il grido di questi piccoli non resti inascoltato! Queste tragedie non devono avvenire!

Maria, Regina della Pace, conforti il martoriato popolo ucraino e ottenga ai capi delle Nazioni la forza di volontà per trovare subito iniziative efficaci che conducano alla fine della guerra.

Mi unisco all’appello dei Vescovi del Camerun per la liberazione di alcune persone sequestrate nella Diocesi di Mamfe, tra cui cinque sacerdoti e una religiosa. Prego per loro e per le popolazioni della provincia ecclesiastica di Bamenda: il Signore doni pace ai cuori e alla vita sociale di quel caro Paese.

Oggi, in questa domenica, la Chiesa celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, sul tema “Costruire il futuro con i migranti e i rifugiati”. Rinnoviamo l’impegno per edificare il futuro secondo il disegno di Dio: un futuro in cui ogni persona trovi il suo posto e sia rispettata; in cui i migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta possano vivere in pace e con dignità. Perché il Regno di Dio si realizza con loro, senza esclusi. È anche grazie a questi fratelli e sorelle che le comunità possono crescere a livello sociale, economico, culturale e spirituale; e la condivisione di diverse tradizioni arricchisce il Popolo di Dio. Impegniamoci tutti a costruire un futuro più inclusivo e fraterno! I migranti vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 4 settembre 2022

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Cari fratelli e sorelle,

prima di concludere questa celebrazione, rivolgo a tutti voi il mio saluto e vi ringrazio per la partecipazione.

Sono grato ai fratelli Cardinali, ai Vescovi e ai sacerdoti provenienti da diversi Paesi.

Saluto le Delegazioni ufficiali qui convenute per rendere omaggio al nuovo Beato. Il mio deferente pensiero va al Signor Presidente della Repubblica Italiana e al Primo Ministro del Principato di Monaco.

Saluto tutti voi pellegrini, in modo speciale i fedeli di Venezia, Belluno e Vittorio Veneto, località legate all’esperienza umana, sacerdotale ed episcopale del Beato Albino Luciani.

Ed ora ci rivolgiamo in preghiera alla Vergine Maria, perché ottenga il dono della pace in tutto il mondo, specialmente nella martoriata Ucraina. Lei, la prima e perfetta discepola del Signore, ci aiuti a seguire l’esempio e la santità di vita di Giovanni Paolo I.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 21 agosto 2022

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Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Nel brano del Vangelo di Luca della liturgia di questa domenica, un tale domanda a Gesù: «Sono pochi quelli che si salvano?». E il Signore risponde: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta» (Lc 13,24). La porta stretta è un’immagine che potrebbe spaventarci, come se la salvezza fosse destinata solo a pochi eletti o ai perfetti. Ma ciò contraddice quanto Gesù ci ha insegnato in molte occasioni; e infatti, poco più avanti, Egli afferma: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (v. 29). Dunque, questa porta è stretta, ma è aperta a tutti! Non dimenticare questo: a tutti! La porta è aperta a tutti!

Ma per capire meglio questa porta stretta, occorre chiedersi che cosa essa sia. Gesù trae l’immagine dalla vita del tempo e probabilmente si riferisce al fatto che, quando arrivava la sera, le porte della città venivano chiuse e ne restava aperta una sola, più piccola e più stretta: per rientrare a casa si poteva passare solo di lì.

Pensiamo allora a quando Gesù dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato» (Gv 10,9). Ci vuole dire che per entrare nella vita di Dio, nella salvezza, bisogna passare attraverso di Lui, non di un altro, di Lui; accogliere Lui e la sua Parola. Come per entrare in città bisognava “misurarsi” con l’unica porta stretta rimasta aperta, così quella del cristiano è una vita “a misura di Cristo”, fondata e modellata su di Lui. Significa che il metro di misura è Gesù e il suo Vangelo: non quello che pensiamo noi, ma quello che ci dice Lui. E allora si tratta di una porta stretta non perché sia destinata a pochi, no, ma perché essere di Gesù significa seguirlo, impegnare la vita nell’amore, nel servizio e nel dono di sé come ha fatto Lui, che è passato per la porta stretta della croce. Entrare nel progetto di vita che Dio ci propone chiede di restringere lo spazio dell’egoismo, di ridurre la presunzione dell’autosufficienza, di abbassare le alture della superbia e dell’orgoglio e di superare la pigrizia per attraversare il rischio dell’amore, anche quando comporta la croce.

Pensiamo, per essere concreti, ai gesti quotidiani di amore che portiamo avanti con fatica: pensiamo ai genitori che si dedicano ai figli facendo sacrifici e rinunciando al tempo per sé stessi; a coloro che si occupano degli altri e non solo dei propri interessi: quanta gente è così, buona; pensiamo a chi si spende al servizio degli anziani, dei più poveri e dei più fragili; pensiamo a chi va avanti a lavorare con impegno, sopportando disagi e magari incomprensioni; pensiamo a chi soffre a motivo della fede, ma continua a pregare e ad amare; pensiamo a quanti, anziché seguire i propri istinti, rispondono al male con il bene, trovano la forza di perdonare e il coraggio di ricominciare. Questi sono solo alcuni esempi di gente che non sceglie la porta larga del proprio comodo, ma la porta stretta di Gesù, di una vita spesa nell’amore. Costoro, dice oggi il Signore, saranno riconosciuti dal Padre molto più di quelli che si credono già salvati e, in realtà, nella vita sono «operatori di ingiustizia» (Lc 13,27).

Fratelli e sorelle, noi da che parte vogliamo stare? Preferiamo la strada facile del pensare solo a noi stessi o scegliamo la porta stretta del Vangelo, che mette in crisi i nostri egoismi ma ci rende capaci di accogliere la vita vera che viene da Dio e ci fa felici? Da che parte stiamo? La Madonna, che ha seguito Gesù fino alla croce, ci aiuti a misurare la nostra vita su di Lui, per entrare nella vita piena ed eterna.

SOLENNITÀ DELL'ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Lunedì, 15 agosto 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Buona Festa!

Oggi, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, il Vangelo ci propone il dialogo tra lei e la cugina Elisabetta. Quando Maria entra in casa e saluta Elisabetta, questa le dice: «Benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,42). Queste parole, piene di fede e di gioia e di stupore, sono entrate a far parte dell’“Ave Maria”. Ogni volta che recitiamo questa preghiera tanto bella e familiare, facciamo come Elisabetta: salutiamo Maria, la benediciamo, perché lei ci porta Gesù.

Maria accoglie la benedizione di Elisabetta e risponde con il cantico, un regalo per noi, per tutta la storia: il Magnificat. È un canto di lode che potremmo definire “il cantico della speranza”. È un inno di lode e di esultanza per le grandi cose che il Signore ha compiuto in lei, ma Maria va oltre: contempla l’opera di Dio in tutta la storia del suo popolo. Dice, ad esempio, che il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (vv. 52-53). Ascoltando queste parole, potremmo chiederci: la Vergine non sta forse esagerando un po’, descrivendo un mondo che non c’è? Infatti, quello che dice non sembra corrispondere alla realtà; mentre lei parla, i potenti del tempo non sono stati rovesciati: il temibile Erode, ad esempio, sta saldo sul suo trono. E anche i poveri e gli affamati rimangono tali, mentre i ricchi continuano a prosperare.

Cosa significa quel cantico di Maria? Qual è il senso? Lei non vuole fare la cronaca del tempo – non è una giornalista -, ma dirci qualcosa di molto più importante: che Dio, attraverso lei, ha inaugurato una svolta storica, ha definitivamente stabilito un nuovo ordine di cose. Lei, piccola e umile, è stata innalzata e – lo festeggiamo oggi – portata alla gloria del Cielo, mentre i potenti del mondo sono destinati a rimanere a mani vuote. Pensate alla parabola di quell’uomo ricco che aveva davanti alla porta un mendicante, Lazzaro. Come è finito? A mani vuote. La Madonna, in altre parole, annuncia un cambiamento radicale, un rovesciamento di valori. Mentre parla con Elisabetta portando Gesù in grembo, anticipa quello che suo Figlio dirà, quando proclamerà beati i poveri e gli umili e metterà in guardia i ricchi e chi si fonda sulla propria autosufficienza. La Vergine, dunque, profetizza con questo cantico, con questa preghiera: profetizza che a primeggiare non sono il potere, il successo e il denaro, ma a primeggiare c’è il servizio, l’umiltà, l’amore. E guardando a lei nella gloria, capiamo che il vero potere è il servizio – non dimentichiamo questo: il vero potere è il servizio - e regnare significa amare. E che questa è la strada per il Cielo.

Allora guardando a noi possiamo chiederci: quel rovesciamento annunciato da Maria, tocca la mia vita? Credo che amare è regnare e servire è potere? Credo che la meta del mio vivere è il Cielo, è il paradiso? O mi preoccupo solo di passarla bene quaggiù, mi preoccupo solo delle cose terrene, materiali? Ancora, osservando le vicende del mondo, mi lascio intrappolare dal pessimismo oppure, come la Vergine, so scorgere l’opera di Dio che, attraverso la mitezza e la piccolezza, compie grandi cose? Fratelli e sorelle, Maria oggi canta la speranza e riaccende in noi la speranza, in lei vediamo la meta del cammino: lei è la prima creatura che con tutta sé stessa, in anima e corpo, taglia vincitrice il traguardo del Cielo. Ci mostra che il Cielo è a portata di mano. Come mai? Sì, il Cielo è a portata di mano, se anche noi non cediamo al peccato, lodiamo Dio in umiltà e serviamo gli altri con generosità. Non cedere al peccato; ma qualcuno può dire: “Ma, padre io sono debole” – “Ma il Signore sempre ti è vicino, perché è misericordioso”. Non dimenticarti qual è lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza; Egli è sempre vicino a noi con il suo stile. La nostra Madre, ci prende per mano, ci accompagna alla gloria, ci invita a gioire pensando al paradiso. Benediciamo Maria con la nostra preghiera e chiediamole uno sguardo capace di intravedere il Cielo in terra.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 17 luglio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di questa domenica ci presenta un vivace quadretto domestico con Marta e Maria, due sorelle che offrono ospitalità a Gesù nella loro casa (cfr Lc 10,38-42). Marta si dà subito da fare per l’accoglienza degli ospiti, mentre Maria si siede ai piedi di Gesù per ascoltarlo. Allora Marta si rivolge al Maestro e gli chiede di dire a Maria che l’aiuti. La lamentela di Marta non sembra fuori luogo; sentiamo anzi di darle ragione. Eppure Gesù le risponde: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,41-42). È una risposta che sorprende. Ma Gesù molte volte ribalta il nostro modo di pensare. Chiediamoci perché il Signore, pur apprezzando la generosa premura di Marta, afferma che l’atteggiamento di Maria è da preferire.

La “filosofia” di Marta sembra questa: prima il dovere, poi il piacere. L’ospitalità, in effetti, non è fatta di belle parole, ma esige che si metta mano ai fornelli, che ci si dia da fare in tutto ciò che occorre perché l’ospite possa sentirsi ben accolto. Questo, Gesù lo sa molto bene. E difatti riconosce l’impegno di Marta. Però, vuole farle capire che c’è un ordine di priorità nuovo, diverso da quello che fino ad allora aveva seguito. Maria ha intuito che c’è una “parte migliore” a cui va dato il primo posto. Tutto il resto viene dopo, come un corso d’acqua che scaturisce dalla sorgente. E così ci domandiamo: che cos’è questa “parte migliore”? È l’ascolto delle parole di Gesù. Dice il Vangelo: «Maria, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola» (v. 39). Notiamo: non ascoltava in piedi, facendo altro, ma si era seduta ai piedi di Gesù. Ha capito che Lui non è un ospite come gli altri. A prima vista sembra che sia venuto a ricevere, perché ha bisogno di cibo e di un alloggio, ma in realtà, il Maestro è venuto per donarci sé stesso mediante la sua parola.

La parola di Gesù non è astratta, è un insegnamento che tocca e plasma la vita, la cambia, la libera dalle opacità del male, appaga e infonde una gioia che non passa: la parola di Gesù è la parte migliore, quella che aveva scelto Maria. Per questo lei le dà il primo posto: si ferma e ascolta. Il resto verrà dopo. Questo non toglie nulla al valore dell’impegno pratico, però esso non deve precedere, ma sgorgare dall’ascolto della parola di Gesù, dev’essere animato dal suo Spirito. Altrimenti si riduce a un affannarsi e agitarsi per molte cose, si riduce a un attivismo sterile.

Fratelli e sorelle, approfittiamo di questo tempo di vacanze, per fermarci e metterci in ascolto di Gesù. Oggi si fa sempre più fatica a trovare momenti liberi per meditare. Per tante persone i ritmi di lavoro sono frenetici, logoranti. Il periodo estivo può essere prezioso anche per aprire il Vangelo e leggerlo lentamente, senza fretta, un passo ogni giorno, un piccolo passo del Vangelo. E questo fa entrare in questa dinamica di Gesù. Lasciamoci interrogare da quelle pagine, domandandoci come sta andando la nostra vita, la mia vita, se è in linea con ciò che dice Gesù o non tanto. In particolare, chiediamoci: quando inizio la giornata, mi butto a capofitto nelle cose da fare, oppure cerco prima ispirazione nella Parola di Dio? A volte noi incominciamo le giornate automaticamente, a fare le cose… come le galline. No. Dobbiamo incominciare le giornate prima di tutto guardando al Signore, prendendo la sua Parola, breve, ma che sia questa l’ispirazione delle giornata. Se al mattino usciamo di casa serbando nella mente una parola di Gesù, sicuramente la giornata acquisterà un tono segnato da quella parola, che ha il potere di orientare le nostre azioni secondo ciò che vuole il Signore.

La Vergine Maria ci insegni a scegliere la parte migliore, che non ci sarà mai tolta.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 10 luglio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna narra la parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37); tutti la conosciamo. Sullo sfondo c’è la strada che da Gerusalemme scende a Gerico, lungo la quale giace un uomo picchiato a sangue e derubato dai briganti. Un sacerdote di passaggio lo vede ma non si ferma, passa oltre; lo stesso fa un levita, cioè un addetto al culto nel tempio. «Invece un Samaritano, – dice il Vangelo – che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (v. 33). Non dimenticare queste parole: “ne ebbe compassione”; è quello che sente Dio ogni volta che vede noi in un problema, in un peccato, in una miseria: “ne ebbe compassione”. L’Evangelista tiene a precisare che il Samaritano era in viaggio. Dunque, quel Samaritano, pur avendo i suoi programmi ed essendo diretto a una meta lontana, non trova scuse e si lascia interpellare, si lascia interpellare da ciò che accade lungo la strada. Pensiamoci: il Signore non ci insegna a fare proprio così? A guardare lontano, alla meta finale, mettendo tuttavia molta attenzione ai passi da compiere, qui e adesso, per arrivarvi.

È significativo che i primi cristiani furono chiamati “discepoli della Via” (cfr At 9,2) cioè del cammino. Il credente infatti somiglia molto al Samaritano: come lui è in viaggio, è un viandante. Sa di non essere una persona “arrivata”, ma vuole imparare ogni giorno, mettendosi al seguito del Signore Gesù, che disse: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Io sono la via: il discepolo di Cristo cammina seguendo Lui, e così diventa “discepolo della Via”. Va dietro al Signore, che non è un sedentario, ma sempre in cammino: per la strada incontra le persone, guarisce i malati, visita villaggi e città. Così ha fatto il Signore, sempre in cammino.

Il “discepolo della Via” – cioè noi cristiani – vede perciò che il suo modo di pensare e di agire cambia gradualmente, diventando sempre più conforme a quello del Maestro. Camminando sulle orme di Cristo, diventa un viandante, e impara – come il Samaritano – a vedere e ad avere compassione. Vede e ne ha compassione. Anzitutto vede: apre gli occhi sulla realtà, non è egoisticamente chiuso nel giro dei propri pensieri. Invece il sacerdote e il levita vedono il malcapitato, ma è come se non lo vedessero, passano oltre, guardano da un’altra parte. Il Vangelo ci educa a vedere: guida ognuno di noi a comprendere rettamente la realtà, superando giorno dopo giorno preconcetti e dogmatismi. Tanti credenti si rifugiano nei dogmatismi per difendersi dalla realtà. E poi ci insegna a seguire Gesù, perché seguire Gesù ci insegna ad avere compassione: ad accorgerci degli altri, soprattutto di chi soffre, di chi ha più bisogno. E di intervenire come il Samaritano: non andare oltre, ma fermarsi.

Davanti a questa parabola evangelica può capitare di colpevolizzare o colpevolizzarsi, di puntare il dito verso altri paragonandoli al sacerdote e al levita: “Ma questo o quello vanno avanti, non si fermano!”, oppure di colpevolizzare sé stessi enumerando le proprie mancanze di attenzione verso il prossimo. Ma io vorrei suggervi un altro tipo di esercizio. Non tanto quello di incolparci, no; certo, dobbiamo riconoscere quando siamo stati indifferenti e ci siamo giustificati, ma non fermiamoci lì. Lo dobbiamo riconoscere, è uno sbaglio, ma chiediamo al Signore di farci uscire dalla nostra indifferenza egoistica e di metterci sulla Via. Chiediamogli di vedere e avere compassione. Questa è una grazia, dobbiamo chiederla al Signore: “Signore che io veda, che io abbia compassione, come Tu vedi me e Tu hai compassione di me”. Questa è la preghiera che oggi suggerisco a voi: “Signore che io veda, che io abbia compassione, come Tu vedi me e hai compassione di me”. Che abbiamo compassione di coloro che incontriamo lungo il cammino, soprattutto di chi soffre ed è nel bisogno, per avvicinarci e fare quello che possiamo per dare una mano.

Tante volte, quando mi trovo con qualche cristiano o cristiana che viene a parlare di cose spirituali, io domando se fa l’elemosina. “Sì”, mi dice – “E, dimmi, tu tocchi la mano della persona alla quale dai la moneta?” – “No, no, la butto lì.” – “E tu guardi gli occhi di quella persona?” – “No, non mi viene in mente.” Se tu dai l’elemosina senza toccare la realtà, senza guardare gli occhi della persona bisognosa, quella elemosina è per te, non per lei. Pensa a questo: “Io tocco le miserie, anche quelle miserie che aiuto? Io guardo gli occhi delle persone che soffrono, delle persone che aiuto?” Vi lascio questo pensiero: vedere e avere compassione.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 3 luglio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Vangelo della Liturgia di questa domenica leggiamo che «il Signore designò altri settantadue [discepoli] e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1). I discepoli sono stati inviati a due a due, non singolarmente. Andare in missione a due a due, da un punto di vista pratico, sembrerebbe comportare più svantaggi che vantaggi. C’è il rischio che i due non vadano d’accordo, che abbiano un passo diverso, che uno si stanchi o si ammali lungo la via, costringendo anche l’altro a fermarsi. Quando invece si è da soli, sembra che il cammino diventi più spedito e senza intoppi. Gesù però non la pensa così: davanti a sé non invia dei solitari, ma discepoli che vanno a due a due. Ma facciamoci una domanda: qual è la ragione di questa scelta del Signore?

Compito dei discepoli è di andare avanti nei villaggi e preparare la gente ad accogliere Gesù; e le istruzioni che Egli dà loro sono non tanto su che cosa devono dire, quanto su come devono essere: cioè non sul “libretto” che devono dire, no; sulla testimonianza di vita, la testimonianza da dare più che sulle parole da dire. Infatti li definisce operai: sono cioè chiamati a operare, a evangelizzare mediante il loro comportamento. E la prima azione concreta con cui i discepoli svolgono la loro missione è proprio quella di andare a due a due. I discepoli non sono dei “battitori liberi”, dei predicatori che non sanno cedere la parola a un altro. È anzitutto la vita stessa dei discepoli ad annunciare il Vangelo: il loro saper stare insieme, il rispettarsi reciprocamente, il non voler dimostrare di essere più capace dell’altro, il concorde riferimento all’unico Maestro.

Si possono elaborare piani pastorali perfetti, mettere in atto progetti ben fatti, organizzarsi nei minimi dettagli; si possono convocare folle e avere tanti mezzi; ma se non c’è disponibilità alla fraternità, la missione evangelica non avanza. Una volta, un missionario raccontava di essere partito per l’Africa insieme a un confratello. Dopo qualche tempo però si separò da lui, fermandosi in un villaggio dove realizzò con successo una serie di attività edilizie per il bene della comunità. Tutto funzionava bene. Ma un giorno ebbe come un sussulto: si accorse che la sua vita era quella di un bravo imprenditore, sempre in mezzo a cantieri e carte contabili! Ma … e il “ma” è rimasto lì. Allora lasciò la gestione ad altri, ai laici, e raggiunse il suo confratello. Comprese così perché il Signore aveva mandato i discepoli “a due a due”: la missione evangelizzatrice non si basa sull’attivismo personale, cioè sul “fare” ma sulla testimonianza di amore fraterno, anche attraverso le difficoltà che il vivere insieme comporta.

Allora possiamo chiederci: come portiamo agli altri la buona notizia del Vangelo? Lo facciamo con spirito e stile fraterno, oppure alla maniera del mondo, con protagonismo, competitività ed efficientismo? Domandiamoci se abbiamo la capacità di collaborare, se sappiamo prendere decisioni insieme, rispettando sinceramente chi ci sta accanto e tenendo conto del suo punto di vista, se lo facciamo in comunità, non da soli. Infatti, è soprattutto così che la vita del discepolo lascia trasparire quella del Maestro, annunciandolo realmente agli altri.

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Mercoledì, 29 giugno 2022

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Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo della Liturgia odierna, solennità dei Santi Patroni di Roma, riporta le parole che Pietro rivolge a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). È una professione di fede, che Pietro pronuncia non sulla base della sua comprensione umana, ma perché Dio Padre gliel’ha ispirata (cfr v. 17). Per il pescatore Simone, detto Pietro, fu l’inizio di un cammino: dovrà in effetti passare molto tempo prima che la portata di quelle parole entri a fondo nella sua vita, coinvolgendola interamente. C’è un “apprendistato” della fede, che ha riguardato anche gli apostoli Pietro e Paolo, simile a quello di ognuno di noi. Anche noi crediamo che Gesù è il Messia, il Figlio del Dio vivente, ma occorrono tempo, pazienza e tanta umiltà perché il nostro modo di pensare e di agire aderisca pienamente al Vangelo.

Di questo, l’apostolo Pietro fece esperienza immediatamente. Proprio dopo aver dichiarato a Gesù la propria fede, quando Lui annuncia che dovrà soffrire ed essere condannato a morte, rifiuta questa prospettiva, che considera incompatibile con il Messia. Si sente addirittura in dovere di rimproverare il Maestro, il quale a sua volta lo apostrofa: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» ( v. 23).

Pensiamoci: non succede lo stesso anche a noi? Noi ripetiamo il Credo, lo diciamo con fede; ma davanti alle prove dure della vita sembra che tutto vacilli. Siamo portati a protestare col Signore, dicendogli che non è giusto, che ci devono essere altre vie, più diritte, meno faticose. Viviamo la lacerazione del credente, che crede in Gesù, si fida di Lui; ma nello stesso tempo sente che è difficile seguirlo ed è tentato di cercare strade diverse da quelle del Maestro. San Pietro ha vissuto questo dramma interiore, ed ha avuto bisogno di tempo e di maturazione. All’inizio inorridiva al pensiero della croce; ma alla fine della vita testimoniò il Signore con coraggio, fino al punto di farsi crocifiggere – secondo la tradizione – a testa ingiù, per non essere uguale al Maestro.

Anche l’apostolo Paolo ha il proprio percorso, anche lui è passato attraverso una lenta maturazione della fede, sperimentando momenti di incertezza e di dubbio. L’apparizione del Risorto sulla via di Damasco, che da persecutore lo rese cristiano, va vista come l’avvio di un percorso durante il quale l’Apostolo ha fatto i conti con le crisi, i fallimenti e i continui tormenti di quella che chiama “spina nella carne” (cfr 2 Cor 12,7). Il cammino di fede non è mai una passeggiata, per nessuno, né per Pietro né per Paolo, per nessun cristiano. Il cammino di fede non è una passeggiata, ma è impegnativo, a volte arduo: anche Paolo, divenuto cristiano, dovette imparare ad esserlo fino in fondo in maniera graduale, soprattutto attraverso i momenti di prova.

Alla luce di questa esperienza dei santi apostoli Pietro e Paolo, ognuno di noi può domandarsi: quando professo la mia fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, lo faccio con la consapevolezza di dover sempre imparare, oppure presumo di “aver già capito tutto”? E ancora: nelle difficoltà e nelle prove mi scoraggio, mi lamento, oppure imparo a farne occasione per crescere nella fiducia verso il Signore? Egli infatti – scrive Paolo a Timoteo – ci libera da ogni male e ci porta in salvo nei cieli (cfr 2 Tm 4,18). La Vergine Maria, Regina degli Apostoli, ci insegni ad imitarli avanzando giorno per giorno nella via della fede.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 26 giugno 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di questa Domenica ci parla di una svolta. Dice così: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Così inizia il “grande viaggio” verso la città santa, che richiede una speciale decisione perché è l’ultimo. I discepoli, pieni di entusiasmo ancora troppo mondano, sognano che il Maestro vada incontro al trionfo; Gesù invece sa che a Gerusalemme lo attendono il rifiuto e la morte (cfr Lc 9,22.43b-45); sa che dovrà soffrire molto; e ciò esige una ferma decisione. Così Gesù va con passo deciso verso Gerusalemme. È la stessa decisione che noi dobbiamo prendere, se vogliamo essere discepoli di Gesù. In che cosa consiste questa decisione? Perché noi dobbiamo essere discepoli di Gesù sul serio, con vera decisione, non – come diceva una vecchietta che ho conosciuto – “cristiani all’acqua di rose”. No! Cristiani decisi. E ci aiuta a capirlo l’episodio che l’Evangelista Luca racconta subito dopo.

Mentre erano in cammino, un villaggio di Samaritani, avendo saputo che Gesù era diretto a Gerusalemme – che era la città avversaria –, non lo accoglie. Gli apostoli Giacomo e Giovanni, sdegnati, suggeriscono a Gesù di punire quella gente facendo scendere un fuoco dal cielo. Gesù non soltanto non accetta la proposta, ma rimprovera i due fratelli. Essi vogliono coinvolgerlo nel loro desiderio di vendetta e Lui non ci sta (cfr vv. 52-55). Il “fuoco” che Lui è venuto a portare sulla terra è un altro, (cfr Lc 12,49) è l’Amore misericordioso del Padre. E per far crescere questo fuoco ci vuole pazienza, ci vuole costanza, ci vuole spirito penitenziale.

Giacomo e Giovanni invece si lasciano prendere dall’ira. E questo capita anche a noi, quando, pur facendo del bene, magari con sacrificio, anziché accoglienza troviamo una porta chiusa. Viene allora la rabbia: tentiamo perfino di coinvolgere Dio stesso, minacciando castighi celesti. Gesù invece percorre un’altra via, non la via della rabbia, ma quella della ferma decisione di andare avanti, che, lungi dal tradursi in durezza, implica calma, pazienza, longanimità, senza tuttavia minimamente allentare l’impegno nel fare il bene. Questo modo di essere non denota debolezza ma, al contrario, una grande forza interiore. Lasciarsi prendere dalla rabbia nelle contrarietà è facile, è istintivo. Ciò che è difficile invece è dominarsi, facendo come Gesù che – dice il Vangelo – si mise «in cammino verso un altro villaggio» (v. 56). Questo vuol dire che, quando troviamo delle chiusure, dobbiamo volgerci a fare il bene altrove, senza recriminazioni. Così Gesù ci aiuta a essere persone serene, contente del bene compiuto e che non cercano le approvazioni umane.

Adesso domandiamoci: noi a che punto siamo? A che punto siamo noi? Davanti alle contrarietà, alle incomprensioni, ci rivolgiamo al Signore, gli chiediamo la sua fermezza nel fare il bene? Oppure cerchiamo conferme negli applausi, finendo per essere aspri e rancorosi quando non li sentiamo? Quante volte, più o meno consapevolmente, cerchiamo gli applausi, l’approvazione altrui? Facciamo quella cosa per gli applausi? No, non va. Dobbiamo fare il bene per il servizio e non cercare gli applausi. A volte pensiamo che il nostro fervore sia dovuto al senso di giustizia per una buona causa, ma in realtà il più delle volte non è altro che orgoglio, unito a debolezza, suscettibilità e impazienza. Chiediamo allora a Gesù la forza di essere come Lui, di seguirlo con ferma decisione in questa strada di servizio. Di non essere vendicativi, di non essere intolleranti quando si presentano difficoltà, quando ci spendiamo per il bene e gli altri non lo capiscono, anzi, quando ci squalificano. No, silenzio e avanti.

La Vergine Maria ci aiuti a fare nostra la ferma decisione di Gesù di rimanere nell’amore fino in fondo.

SOLENNITÀ DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 19 giugno 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buona domenica!

In Italia e in altri Paesi oggi si celebra la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. L’Eucaristia, istituita nell’Ultima Cena, fu come il punto di arrivo di un percorso, lungo il quale Gesù l’aveva prefigurata mediante alcuni segni, soprattutto la moltiplicazione dei pani, raccontata nel Vangelo della Liturgia odierna (cfr Lc 9,11b-17). Gesù si prende cura della grande folla che lo ha seguito per ascoltare la sua parola ed essere liberata da vari mali. Benedice cinque pani e due pesci, li spezza, i discepoli distribuiscono, e «tutti mangiarono a sazietà» (Lc 9,17), dice il Vangelo. Nell’Eucaristia ognuno può fare esperienza di questa amorosa e concreta attenzione del Signore. Chi riceve con fede il Corpo e il Sangue di Cristo non solo mangia, ma viene saziato. Mangiare ed essere saziati: si tratta di due fondamentali necessità, che nell’Eucaristia vengono appagate.

Mangiare. «Tutti mangiarono», scrive San Luca. Sul far della sera i discepoli consigliano a Gesù di congedare la folla, perché possa andare a cercare il cibo. Ma il Maestro vuole provvedere anche a questo: a chi lo ha ascoltato vuole dare pure da mangiare. Il miracolo dei pani e dei pesci non avviene però in maniera spettacolare, ma quasi riservatamente, come alle nozze di Cana: il pane aumenta passando di mano in mano. E mentre mangia, la folla si rende conto che Gesù si prende cura di tutto. Questo è il Signore presente nell’Eucaristia: ci chiama ad essere cittadini del Cielo, ma intanto tiene conto del cammino che dobbiamo affrontare qui in terra. Se ho poco pane nella borsa, Lui lo sa e se ne preoccupa.

Talvolta c’è il rischio di confinare l’Eucaristia in una dimensione vaga, lontana, magari luminosa e profumata di incenso, ma lontana dalle strettoie del quotidiano. In realtà, il Signore prende a cuore tutti i nostri bisogni, a partire da quelli più elementari. E vuole dare l’esempio ai discepoli, dicendo: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13), a quella gente che lo aveva ascoltato durante la giornata. La nostra adorazione eucaristica trova la sua verifica quando ci prendiamo cura del prossimo, come fa Gesù: attorno a noi c’è fame di cibo, ma anche di compagnia, c’è fame di consolazione, di amicizia, di buonumore, c’è fame di attenzione, c’è fame di essere evangelizzati. Questo troviamo nel Pane eucaristico: l’attenzione di Cristo alle nostre necessità, e l’invito a fare altrettanto verso chi ci è accanto. Bisogna mangiare e dare da mangiare.

Oltre il mangiare, però, non deve mancare l’essere saziati. La folla si saziò per l’abbondanza di cibo, e anche per la gioia e lo stupore di averlo ricevuto da Gesù! Abbiamo certo bisogno di alimentarci, ma anche di essere saziati, di sapere cioè che il nutrimento ci venga dato per amore. Nel Corpo e nel Sangue di Cristo troviamo la sua presenza, la sua vita donata per ognuno di noi. Non ci dà solo l’aiuto per andare avanti, ma ci dà sé stesso: si fa nostro compagno di viaggio, entra nelle nostre vicende, visita le nostre solitudini, ridando senso ed entusiasmo. Questo ci sazia, quando il Signore dà senso alla nostra vita, alle nostre oscurità, ai nostri dubbi, ma Lui vede il senso e questo senso che ci dà il Signore ci sazia, questo ci dà quel “di più” che tutti cerchiamo: cioè la presenza del Signore! Perché al calore della sua presenza la nostra vita cambia: senza di Lui sarebbe davvero grigia. Adorando il Corpo e il Sangue di Cristo, chiediamogli con il cuore: “Signore, dammi il pane quotidiano per andare avanti, Signore saziami con la tua presenza!”.

La Vergine Maria ci insegni ad adorare Gesù vivo nell’Eucaristia e a condividerlo con i nostri fratelli e sorelle.

SOLENNITÀ DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 12 giugno 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buona domenica!

Oggi è la solennità della Santissima Trinità, e nel Vangelo della celebrazione Gesù ci presenta le altre due Persone divine, il Padre e lo Spirito Santo. Dello Spirito dice: «Non parlerà da sé stesso, ma prenderà quel che è mio e ve lo annuncerà». E poi, a proposito del Padre, dice: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Gv 16,14-15). Notiamo che lo Spirito Santo parla, ma non di sé stesso: annuncia Gesù e rivela il Padre. E notiamo anche che il Padre, il quale tutto possiede, perché è l’origine di ogni cosa, dà al Figlio tutto quello che possiede: non trattiene nulla per sé e si dona interamente al Figlio. Ossia, lo Spirito Santo parla non di sé stesso, parla di Gesù, parla di altri. E il Padre, non dà sé stesso, dà il Figlio. È la generosità aperta, uno aperto all’altro.

E ora guardiamo a noi, a ciò di cui parliamo e a quello che possediamo. Quando parliamo, sempre vogliamo che si dica bene di noi e spesso parliamo solo di noi stessi e di quello che facciamo. Quante volte! “Io ho fatto questo, quell’altro…”, “Avevo questo problema…”. Sempre si parla così. Quanta differenza rispetto allo Spirito Santo, che parla annunciando gli altri, e il Padre il Figlio! E, circa quello che possediamo, quanto ne siamo gelosi e quanta fatica facciamo a condividerlo con gli altri, anche con chi manca del necessario! A parole è facile, ma poi in pratica è molto difficile.

Ecco allora che festeggiare la Santissima Trinità non è tanto un esercizio teologico, ma una rivoluzione del nostro modo di vivere. Dio, nel quale ogni Persona vive per l’altra in continua relazione, in continuo rapporto, non per sé stessa, ci provoca a vivere con gli altri e per gli altri. Aperti. Oggi possiamo chiederci se la nostra vita riflette il Dio in cui crediamo: io, che professo la fede in Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, credo davvero che per vivere ho bisogno degli altri, ho bisogno di donarmi agli altri, ho bisogno di servire gli altri? Lo affermo a parole o lo affermo con la vita?

Il Dio trino e unico, cari fratelli e sorelle, va mostrato così, con i fatti prima che con le parole. Dio, che è autore della vita, si trasmette meno attraverso i libri e più attraverso la testimonianza di vita. Egli che, come scrive l’evangelista Giovanni, «è amore» (1 Gv 4,16), si rivela attraverso l’amore. Pensiamo alle persone buone, generose, miti che abbiamo incontrato: ricordando il loro modo di pensare e di agire, possiamo avere un piccolo riflesso di Dio-Amore. E che cosa vuol dire amare? Non solo volere bene e fare del bene, ma prima ancora, alla radice, accogliere, essere aperto agli altri, fare posto agli altri, dare spazio agli altri. Questo significa amare, alla radice.

Per capirlo meglio, pensiamo ai nomi delle Persone divine, che pronunciamo ogni volta che facciamo il segno della croce: in ciascun nome c’è la presenza dell’altro. Il Padre, ad esempio, non sarebbe tale senza il Figlio; così pure il Figlio non può essere pensato da solo, ma sempre come Figlio del Padre. E lo Spirito Santo, a sua volta, è Spirito del Padre e del Figlio. In breve, la Trinità ci insegna che non si può mai stare senza l’altro. Non siamo isole, siamo al mondo per vivere a immagine di Dio: aperti, bisognosi degli altri e bisognosi di aiutare gli altri. E allora, poniamoci quest’ultima domanda: nella vita di tutti i giorni sono anch’io un riflesso della Trinità? Il segno di croce che faccio ogni giorno – Padre e Figlio e Spirito Santo –, quel segno di croce che facciamo tutti i giorni, rimane un gesto fine a sé stesso o ispira il mio modo di parlare, di incontrare, di rispondere, di giudicare, di perdonare?

PAPA FRANCESCO

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 5 giugno 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona domenica!

E oggi anche buona festa, perché oggi si celebra la solennità di Pentecoste. Si celebra l’effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli, avvenuta cinquanta giorni dopo la Pasqua. Gesù lo aveva promesso più volte. Nella Liturgia odierna il Vangelo riporta una di queste promesse, quando Gesù disse ai discepoli: «Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, Lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Ecco cosa fa lo Spirito: insegna e ricorda quanto Cristo ha detto. Riflettiamo su queste due azioni, insegnare e ricordare, perché è così che Egli fa entrare nei nostri cuori il Vangelo di Gesù.

Anzitutto lo Spirito Santo insegna. In questo modo ci aiuta a superare un ostacolo che si presenta nell’esperienza di fede: quello della distanza. Lui ci aiuta a superare l’ostacolo della distanza nell’esperienza di fede. Infatti, può sorgere il dubbio che tra il Vangelo e la vita di tutti i giorni ci sia molta distanza: Gesù è vissuto duemila anni fa, erano altri tempi, altre situazioni, e dunque il Vangelo sembra superato, sembra inadeguato a parlare al nostro oggi con le sue esigenze e i suoi problemi. Viene anche a noi questo interrogativo: cosa può dire il Vangelo nell’epoca di internet, nell’epoca della globalizzazione? Come può incidere la sua parola?

Possiamo dire che lo Spirito Santo è specialista nel colmare le distanze, Lui sa colmare le distanze; ci insegna a superarle. È Lui che collega l’insegnamento di Gesù con ogni tempo e ogni persona. Con Lui le parole di Cristo non sono un ricordo, no: le parole di Cristo per la forza dello Spirito Santo diventano vive, oggi! Lo Spirito le rende vive per noi: attraverso la Sacra Scrittura ci parla e ci orienta nel presente. Lo Spirito Santo non teme lo scorrere dei secoli; anzi, rende i credenti attenti ai problemi e alle vicende del loro tempo. Lo Spirito Santo, infatti, quando insegna, attualizza: mantiene la fede sempre giovane. Noi rischiamo di fare della fede una cosa da museo: è il rischio! Lui invece la mette al passo coi tempi, sempre al giorno, la fede al giorno: è questo il suo lavoro. Perché lo Spirito Santo non si lega a epoche o mode che passano, ma porta nell’oggi l’attualità di Gesù, risorto e vivo.

E in che modo lo Spirito fa questo? Facendoci ricordare. Ecco il secondo verbo, ri-cordare. Cosa vuol dire ricordare? Ri-cordare vuol dire riportare al cuore, ri-cordare: lo Spirito riporta il Vangelo nel nostro cuore. Avviene come per gli Apostoli: avevano ascoltato Gesù tante volte, eppure lo avevano compreso poco. A noi succede lo stesso. Ma da Pentecoste in poi, con lo Spirito Santo, ri-cordano e comprendono. Accolgono le sue parole come fatte apposta per loro e passano da una conoscenza esteriore, una conoscenza di memoria, a un rapporto vivo, a un rapporto convinto, gioioso con il Signore. È lo Spirito a fare questo, a far passare dal “sentito dire” alla conoscenza personale di Gesù, che entra nel cuore. Così lo Spirito ci cambia la vita: fa sì che i pensieri di Gesù diventino i nostri pensieri. E questo lo fa ri-cordandoci le sue parole, portando al cuore, oggi, le parole di Gesù.

Fratelli e sorelle, senza lo Spirito che ci ricorda Gesù, la fede diventa smemorata. Tante volte la fede diventa un ricordo senza memoria: invece la memoria è viva e la memoria viva la porta lo Spirito. E noi – proviamo a domandarci – siamo cristiani smemorati? Magari basta una contrarietà, una fatica, una crisi per dimenticare l’amore di Gesù e cadere nel dubbio e nella nostra paura? Guai! Stiamo attenti a non diventare cristiani smemorati. Il rimedio è invocare lo Spirito Santo. Facciamolo spesso, specialmente nei momenti importanti, prima delle decisioni difficili e in situazioni non facili. Prendiamo in mano il Vangelo e invochiamo lo Spirito. Possiamo dire così: “Vieni, Santo Spirito, ricordami Gesù, illumina il mio cuore”. È una bella preghiera, questa: “Vieni, Santo Spirito, ricordami Gesù, illumina il mio cuore”. La diciamo insieme? “Vieni, Santo Spirito, ricordami Gesù, illumina il mio cuore”. Poi, apriamo il Vangelo e leggiamo un piccolo passo, lentamente. E lo Spirito lo farà parlare alla nostra vita.

La Vergine Maria, piena di Spirito Santo, accenda in noi il desiderio di pregarlo e di accogliere la Parola di Dio.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 29 maggio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi in Italia e in molti Paesi si celebra l’Ascensione del Signore, cioè il suo ritorno al Padre. Nella Liturgia, il Vangelo secondo Luca narra l’ultima apparizione del Risorto ai discepoli (cfr 24,46-53). La vita terrena di Gesù culmina proprio con l’Ascensione, che professiamo anche nel Credo: «È salito al cielo, siede alla destra del Padre». Che cosa significa questo avvenimento? Come dobbiamo intenderlo? Per rispondere a questa domanda, soffermiamoci su due azioni che Gesù compie prima di salire al Cielo: Egli anzitutto annuncia il dono dello Spirito e poi benedice i discepoli. Annuncia il dono dello Spirito e benedice.

Per prima cosa Gesù dice ai suoi amici: «Io mando su di voi Colui che il Padre mio ha promesso» (v. 49). Sta parlando dello Spirito Santo, del Consolatore, di Colui che li accompagnerà, li guiderà, li sosterrà nella missione, li difenderà nelle battaglie spirituali. Comprendiamo allora una cosa importante: Gesù non sta abbandonando i discepoli. Ascende al Cielo, ma non ci lascia soli. Anzi, proprio salendo verso il Padre assicura l’effusione dello Spirito Santo, del suo Spirito. In un’altra occasione aveva detto: «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito» (Gv 16,7), cioè lo Spirito. Anche in questo si vede l’amore di Gesù per noi: la sua è una presenza che non vuole limitare la nostra libertà. Al contrario, fa spazio a noi, perché il vero amore genera sempre una vicinanza che non schiaccia, non è possessivo, è vicino ma non possessivo; anzi, il vero amore ci rende protagonisti. E così Cristo rassicura: “Vado al Padre, e voi sarete rivestiti di potenza dall’alto: vi manderò il mio stesso Spirito e con la sua forza continuerete la mia opera nel mondo!” (cfr Lc 24,49). Dunque, salendo al Cielo Gesù, anziché rimanere accanto a pochi con il corpo, si fa vicino a tutti con il suo Spirito. Lo Spirito Santo rende presente Gesù in noi, oltre le barriere del tempo e dello spazio, per farci suoi testimoni nel mondo.

Subito dopo – è la seconda azione – Cristo alza le mani e benedice gli apostoli (cfr v. 50). È un gesto sacerdotale. Dio, fin dai tempi di Aronne, aveva affidato ai sacerdoti il compito di benedire il popolo (cfr Nm 6,26). Il Vangelo vuole dirci che Gesù è il grande sacerdote della nostra vita. Gesù sale al Padre per intercedere a nostro favore, per presentargli la nostra umanità. Così, davanti agli occhi del Padre, ci sono e ci saranno sempre, con l’umanità di Gesù, le nostre vite, le nostre speranze, le nostre ferite. Dunque, mentre compie il suo “esodo” verso il Cielo, Cristo “ci fa strada”, va a prepararci un posto e, fin da ora, intercede per noi, perché possiamo essere sempre accompagnati e benedetti dal Padre.

Fratelli e sorelle, pensiamo oggi al dono dello Spirito che abbiamo ricevuto da Gesù per essere testimoni del Vangelo. Chiediamoci se lo siamo davvero; e anche se siamo capaci di amare gli altri lasciandoli liberi e facendo loro spazio. E poi: sappiamo farci intercessori per gli altri, cioè sappiamo pregare per loro e benedire le loro vite? Oppure ci serviamo degli altri per i nostri interessi? Impariamo questo: la preghiera di intercessione, intercedere per le speranze e per le sofferenze del mondo, intercedere per la pace. E benediciamo con lo sguardo e con le parole chi incontriamo ogni giorno!

Ora preghiamo la Madonna, la benedetta tra le donne che, ricolma di Spirito Santo, prega e intercede sempre per noi.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 22 maggio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Nel Vangelo della Liturgia di oggi Gesù, dando l’addio ai suoi discepoli durante l’ultima cena, dice, quasi come una sorta di testamento: «Vi lascio la pace». E subito aggiunge: «Vi do la mia pace» (Gv 14,27). Soffermiamoci su queste brevi frasi.

Anzitutto vi lascio la pace. Gesù si congeda con parole che esprimono affetto e serenità, ma lo fa in un momento tutt’altro che sereno. Giuda è uscito per tradirlo, Pietro sta per rinnegarlo, e quasi tutti per abbandonarlo: il Signore lo sa, eppure non rimprovera, non usa parole severe, non fa discorsi duri. Anziché mostrare agitazione, rimane gentile fino alla fine. Un proverbio dice che si muore così come si è vissuto. Le ultime ore di Gesù sono in effetti come l’essenza di tutta la sua vita. Prova paura e dolore, ma non dà spazio al risentimento e alla protesta. Non si lascia andare all’amarezza, non si sfoga, non è insofferente. È in pace, una pace che viene dal suo cuore mite, abitato dalla fiducia. E da qui sgorga la pace che Gesù ci lascia. Perché non si può lasciare agli altri la pace se non la si ha in sé. Non si può dare pace se non si è in pace.

Vi lascio la pace: Gesù dimostra che la mitezza è possibile. Lui l’ha incarnata proprio nel momento più difficile; e desidera che ci comportiamo così anche noi, che siamo gli eredi della sua pace. Ci vuole miti, aperti, disponibili all’ascolto, capaci di disinnescare le contese e di tessere concordia. Questo è testimoniare Gesù e vale più di mille parole e di tante prediche. La testimonianza di pace. Chiediamoci se, nei luoghi dove viviamo, noi discepoli di Gesù ci comportiamo così: allentiamo le tensioni, spegniamo i conflitti? Siamo anche noi in attrito con qualcuno, sempre pronti a reagire, a esplodere, o sappiamo rispondere con la non violenza, sappiamo rispondere con gesti e parole di pace? Come reagisco io? Ognuno se lo domandi.

Certo, questa mitezza non è facile: quanta fatica si fa, ad ogni livello, a disinnescare i conflitti! Qui ci viene in aiuto la seconda frase di Gesù: vi do la mia pace. Gesù sa che da soli non siamo in grado di custodire la pace, che ci serve un aiuto, un dono. La pace, che è impegno nostro, è prima di tutto dono di Dio. Gesù infatti dice: «Vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (v. 27). Che cos’è questa pace che il mondo non conosce e il Signore ci dona? Questa pace è lo Spirito Santo, lo stesso Spirito di Gesù. È la presenza di Dio in noi, è “la forza di pace” di Dio. È Lui, lo Spirito Santo, che disarma il cuore e lo riempie di serenità. È Lui, lo Spirito Santo, che scioglie le rigidità e spegne le tentazioni di aggredire gli altri. È Lui, lo Spirito Santo, a ricordarci che accanto a noi ci sono fratelli e sorelle, non ostacoli e avversari. È Lui, lo Spirito Santo, che ci dà la forza di perdonare, di ricominciare, di ripartire, perché con le nostre forze non possiamo. Ed è con Lui, con lo Spirito Santo, che si diventa uomini e donne di pace.

Cari fratelli e sorelle, nessun peccato, nessun fallimento, nessun rancore deve scoraggiarci dal domandare con insistenza il dono dello Spirito Santo che ci dà la pace. Più sentiamo che il cuore è agitato, più avvertiamo dentro di noi nervosismo, insofferenza, rabbia, più dobbiamo chiedere al Signore lo Spirito della pace. Impariamo a dire ogni giorno: “Signore, dammi la tua pace, dammi lo Spirito Santo”. È una bella preghiera. La diciamo insieme? “Signore, dammi la tua pace, dammi lo Spirito Santo”. Non ho sentito bene, un’altra volta: “Signore, dammi la tua pace, dammi lo Spirito Santo”. E chiediamolo anche per chi vive accanto a noi, per chi incontriamo ogni giorno, e per i responsabili delle Nazioni.

La Madonna ci aiuti ad accogliere lo Spirito Santo per essere operatori di pace.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 15 maggio 2022

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Cari fratelli e sorelle,

prima di concludere questa Celebrazione eucaristica, desidero salutare e ringraziare tutti voi: i fratelli Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, le religiose e i religiosi, specialmente coloro che appartengono alle famiglie spirituali dei nuovi Santi, e voi tutti i fedeli, popolo fedele di Dio, qui convenuti da tante parti del mondo.

Saluto le Delegazioni ufficiali di diversi Paesi, in particolare il Signor Presidente della Repubblica Italiana. È bello constatare che, con la loro testimonianza evangelica, questi Santi hanno favorito la crescita spirituale e sociale delle rispettive Nazioni e anche dell’intera famiglia umana. Mentre tristemente nel mondo crescono le distanze e aumentano le tensioni e le guerre, i nuovi Santi ispirino soluzioni di insieme, vie di dialogo, specialmente nei cuori e nelle menti di quanti ricoprono incarichi di grande responsabilità e sono chiamati a essere protagonisti di pace e non di guerra.

Saluto tutti voi, cari pellegrini, come pure quanti hanno seguito questa Messa mediante i mezzi di comunicazione.

Ed ora ci rivolgiamo alla Vergine Maria perché ci aiuti a imitare con gioia l’esempio dei nuovi Santi.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 8 maggio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di oggi ci parla del legame che c’è tra il Signore e ciascuno di noi (cfr Gv 10,27-30). Per farlo, Gesù utilizza un’immagine tenera, un’immagine bella, quella del pastore che sta con le pecore. E la spiega con tre verbi: «Le mie pecore – dice Gesù – ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (v. 27). Tre verbi: ascoltare, conoscere, seguire. Vediamo questi tre verbi.

Anzitutto le pecore ascoltano la voce del pastore. L’iniziativa viene sempre dal Signore; tutto parte dalla sua grazia: è Lui che ci chiama alla comunione con Lui. Ma questa comunione nasce se noi ci apriamo all’ascolto; se rimaniamo sordi non ci può dare questa comunione. Aprirsi all’ascolto perché ascoltare significa disponibilità, significa docilità, significa tempo dedicato al dialogo. Oggi siamo travolti dalle parole e dalla fretta di dover sempre dire e fare qualcosa, anzi quante volte due persone stanno parlando e una non aspetta che l’altra finisca il pensiero, la taglia a metà cammino, risponde… Ma se non la si lascia parlare, non c’è ascolto. Questo è un male del nostro tempo. Oggi siamo travolti dalle parole, dalla fretta di dover sempre dire qualcosa, abbiamo paura del silenzio. Quanta fatica si fa ad ascoltarsi! Ascoltarsi fino alla fine, lasciare che l’altro si esprima, ascoltarsi in famiglia, ascoltarsi a scuola, ascoltarsi al lavoro, e persino nella Chiesa! Ma per il Signore anzitutto occorre ascoltare. Lui è la Parola del Padre e il cristiano è figlio dell’ascolto, chiamato a vivere con la Parola di Dio a portata di mano. Chiediamoci oggi se siamo figli dell’ascolto, se troviamo tempo per la Parola di Dio, se diamo spazio e attenzione ai fratelli e alle sorelle. Se sappiamo ascoltare fino a che l’altro si possa esprimere fino alla fine, senza tagliare il suo discorso. Chi ascolta gli altri, sa ascoltare anche il Signore, e viceversa. E sperimenta una cosa molto bella, cioè che il Signore stesso ascolta: ci ascolta quando lo preghiamo, quando ci confidiamo con Lui, quando lo invochiamo.

Ascoltare Gesù diventa così la via per scoprire che Egli ci conosce. Ecco il secondo verbo, che riguarda il buon pastore: Egli conosce le sue pecore. Ma ciò non significa solo che sa molte cose su di noi: conoscere in senso biblico vuol dire anche amare. Vuol dire che il Signore, mentre “ci legge dentro”, ci vuole bene, non ci condanna. Se lo ascoltiamo, scopriamo questo, che il Signore ci ama. La via per scoprire l’amore del Signore è ascoltarlo. Allora il rapporto con Lui non sarà più impersonale, freddo o di facciata. Gesù cerca una calda amicizia, una confidenza, un’intimità. Vuole donarci una conoscenza nuova e meravigliosa: quella di saperci sempre amati da Lui e quindi mai lasciati soli a noi stessi. Stando con il buon pastore si vive l’esperienza di cui parla il Salmo: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me» (Sal 23,4). Soprattutto nelle sofferenze, nelle fatiche, nelle crisi che sono il buio: Lui ci sostiene attraversandole con noi. E così, proprio nelle situazioni difficili, possiamo scoprire di essere conosciuti e amati dal Signore. Chiediamoci allora: io mi lascio conoscere dal Signore? Gli faccio spazio nella mia vita, gli porto quello che vivo? E, dopo tante volte in cui ho sperimentato la sua vicinanza, la sua compassione, la sua tenerezza, che idea ho io del Signore? Il Signore è vicino, il Signore è buon pastore.

Infine, il terzo verbo: le pecore che ascoltano e si scoprono conosciute seguono: ascoltano, si sentono conosciute dal Signore e seguono il Signore, che è il loro pastore. E chi segue Cristo, che cosa fa? Va dove va Lui, sulla stessa strada, nella stessa direzione. Va a cercare chi è perduto (cfr Lc 15,4), si interessa di chi è lontano, prende a cuore la situazione di chi soffre, sa piangere con chi piange, tende la mano al prossimo, se lo carica sulle spalle. E io? Mi lascio solo amare da Gesù e dal lasciarci amare passo ad amarlo, all’imitarlo? La Vergine Santa ci aiuti ad ascoltare Cristo, a conoscerlo sempre di più e seguirlo sulla via del servizio. Ascoltare, conoscerlo e seguirlo.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 1° maggio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Il Vangelo della Liturgia odierna (Gv 21,1-19) racconta la terza apparizione di Gesù risorto agli apostoli. È un incontro che avviene presso il lago di Galilea e coinvolge soprattutto Simon Pietro. Tutto inizia con lui che dice agli altri discepoli: «Io vado a pescare» (v. 3). Niente di strano, era un pescatore, ma aveva abbandonato questo mestiere da quando, proprio sulla riva di quel lago, aveva lasciato le reti per seguire Gesù. E ora, mentre il Risorto si fa attendere, Pietro, forse un po’ sfiduciato, propone agli altri di tornare alla vita di prima. E gli altri accettano: «Veniamo anche noi con te». Ma «quella notte non presero nulla» (v. 3).

Può succedere anche a noi, per stanchezza, delusione, magari per pigrizia, di scordarci del Signore e di trascurare le grandi scelte che abbiamo fatto, per accontentarci di qualcos’altro. Ad esempio, non si dedica tempo a parlarsi in famiglia, preferendo i passatempi personali; si dimentica la preghiera, lasciandosi prendere dai propri bisogni; si trascura la carità, con la scusa delle urgenze quotidiane. Ma, così facendo, ci si ritrova delusi: era proprio la delusione che aveva Pietro, con le reti vuote, come lui. È una strada che ti porta indietro e non ti soddisfa.

E Gesù, che cosa fa con Pietro? Torna ancora sulla riva del lago dove aveva scelto lui, Andrea, Giacomo e Giovanni, tutti e quattro li aveva scelti lì. Non fa rimproveri – Gesù non rimprovera, tocca il cuore, sempre – ma chiama i discepoli con tenerezza: «Figlioli» (v. 5). Poi li invita, come un tempo, a gettare di nuovo le reti, con coraggio. E ancora una volta le reti si riempiono all’inverosimile. Fratelli e sorelle, quando nella vita abbiamo le reti vuote, non è tempo di piangerci addosso, di svagarci, di tornare a vecchi passatempi. È tempo di ripartire con Gesù, è tempo di trovare il coraggio di ricominciare, è tempo di riprendere il largo con Gesù. Tre verbi: ripartire, ricominciare, riprendere il largo. Sempre, davanti a una delusione, o a una vita che ha perso un po’ il senso – “oggi sento che sono andato indietro...” – riparti con Gesù, ricomincia, riprendi il largo! Lui ti sta aspettando. E pensa solo a te, a me, a ognuno di noi.

Pietro aveva bisogno di quella “scossa”. Quando sente Giovanni gridare: «È il Signore!» (v. 7), lui subito si tuffa in acqua e nuota verso Gesù. È un gesto di amore, perché l’amore va oltre l’utile, il conveniente e il dovuto; l’amore genera stupore, ispira slanci creativi, gratuiti. Così, mentre Giovanni, il più giovane, riconosce il Signore, è Pietro, più anziano, a tuffarsi incontro a Lui. In quel tuffo c’è tutto lo slancio ritrovato di Simon Pietro.

Cari fratelli e sorelle, oggi Cristo risorto ci invita a uno slancio nuovo, tutti, ognuno di noi, ci invita a tuffarci nel bene senza la paura di perdere qualcosa, senza calcolare troppo, senza aspettare che comincino gli altri. Perché? Non aspettare gli altri, perché per andare incontro a Gesù bisogna sbilanciarsi. Bisogna sbilanciarsi con coraggio, riprendere, e riprendere sbilanciandosi, rischiare. Chiediamoci: sono capace di qualche scatto di generosità, oppure freno gli slanci del cuore e mi chiudo nell’abitudine, o nella paura? Buttarsi, tuffarsi. Questa è la parola di oggi di Gesù.

Poi, alla fine di questo episodio, Gesù rivolge a Pietro, per tre volte, la domanda: «Mi ami?» (vv. 15.16). Il Risorto lo chiede anche a noi oggi: Mi ami? Perché a Pasqua Gesù vuole che anche il nostro cuore risorga; perché la fede non è questione di sapere, ma di amore. Mi ami?, chiede Gesù a te, a me, a noi, che abbiamo le reti vuote e abbiamo tante volte paura di ricominciare; a te, a me, a tutti noi, che non abbiamo il coraggio di tuffarci e abbiamo perso forse lo slancio. Mi ami?, chiede Gesù. Da allora, Pietro smise per sempre di pescare e si dedicò al servizio di Dio e dei fratelli, fino a dare la vita qui, dove ci troviamo adesso. E noi, vogliamo amare Gesù?

La Madonna, che ha detto prontamente “sì” al Signore, ci aiuti a ritrovare lo slancio del bene.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
II domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, 24 aprile 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, ultimo giorno dell’Ottava di Pasqua, il Vangelo ci racconta la prima e la seconda apparizione del Risorto ai discepoli. Gesù viene a Pasqua, mentre gli Apostoli sono chiusi nel cenacolo, per paura, ma poiché Tommaso, uno dei Dodici, non è presente, otto giorni dopo ritorna (cfr Gv 20,19-29). Focalizziamoci sui due protagonisti, Tommaso e Gesù, guardando prima al discepolo e poi al Maestro. È un bel dialogo che hanno, questi due.

L’Apostolo Tommaso, anzitutto. Egli rappresenta tutti noi, che non eravamo presenti nel cenacolo quando il Signore è apparso e non abbiamo avuto altri segni fisici o apparizioni da parte di Lui. Anche noi, come quel discepolo, a volte facciamo fatica: come si fa a credere che Gesù è risorto, che ci accompagna ed è il Signore della nostra vita senza averlo visto, senza averlo toccato? Come si fa, a credere questo? Perché il Signore non ci dà qualche segno più evidente della sua presenza e del suo amore? Qualche segno che io possa vedere meglio… Ecco, anche noi siamo come Tommaso, con gli stessi dubbi, gli stessi ragionamenti.

Ma non dobbiamo vergognarci di questo. Raccontandoci la storia di Tommaso, infatti, il Vangelo ci dice che il Signore non cerca cristiani perfetti. Il Signore non cerca cristiani perfetti. Io vi dico: ho paura quando vedo qualche cristiano, qualche associazione di cristiani che si credono i perfetti. Il Signore non cerca cristiani perfetti; il Signore non cerca cristiani che non dubitano mai e ostentano sempre una fede sicura. Quando un cristiano è così, c’è qualcosa che non va. No, l’avventura della fede, come per Tommaso, è fatta di luci e di ombre. Se no, che fede sarebbe? Essa conosce tempi di consolazione, di slancio e di entusiasmo, ma anche stanchezze, smarrimenti, dubbi e oscurità. Il Vangelo ci mostra la “crisi” di Tommaso per dirci che non dobbiamo temere le crisi della vita e della fede. Le crisi non sono peccato, sono cammino, non dobbiamo temerle. Tante volte ci rendono umili, perché ci spogliano dall’idea di essere a posto, di essere migliori degli altri. Le crisi ci aiutano a riconoscerci bisognosi: ravvivano il bisogno di Dio e ci permettono così di tornare al Signore, di toccare le sue piaghe, di fare nuovamente esperienza del suo amore, come la prima volta. Cari fratelli e sorelle, è meglio una fede imperfetta ma umile, che sempre ritorna a Gesù, di una fede forte ma presuntuosa, che rende orgogliosi e arroganti. Guai a questi, guai!

E davanti all’assenza e al cammino di Tommaso, che è spesso anche il nostro, qual è l’atteggiamento di Gesù? Il Vangelo per due volte dice che Egli «venne» (vv. 19.26). Una prima volta, poi una seconda volta, otto giorni dopo. Gesù non si arrende, non si stanca di noi, non si spaventa delle nostre crisi, delle nostre debolezze. Egli ritorna sempre: quando le porte sono chiuse, torna; quando dubitiamo, torna; quando, come Tommaso, abbiamo bisogno di incontrarlo e di toccarlo più da vicino, torna. Gesù torna sempre, bussa alla porta sempre, e non torna con segni potenti che ci farebbero sentire piccoli e inadeguati, anche vergognosi, ma con le sue piaghe; torna mostrandoci le sue piaghe, segni del suo amore che ha sposato le nostre fragilità.

Fratelli e sorelle, specialmente quando sperimentiamo stanchezze o momenti di crisi, Gesù, il Risorto, desidera tornare per stare con noi. Aspetta solo che lo cerchiamo, lo invochiamo, persino che, come Tommaso, protestiamo, portandogli i nostri bisogni e la nostra incredulità. Egli torna sempre. Perché? Perché è paziente e misericordioso. Viene ad aprire i cenacoli delle nostre paure, delle nostre incredulità, perché sempre ci vuol dare un’altra opportunità. Gesù è il Signore delle “altre opportunità”: sempre ce ne dà un’altra, sempre. Pensiamo allora all’ultima volta – facciamo un po’ di memoria – in cui, durante un momento difficile, o un periodo di crisi, ci siamo chiusi in noi stessi, barricandoci nei nostri problemi e lasciando Gesù fuori casa. E ripromettiamoci, la prossima volta, nella fatica, di ricercare Gesù, di tornare a Lui, al suo perdono – Lui sempre perdona, sempre! –, tornare a quelle piaghe che ci hanno risanato. Così, diventeremo anche capaci di compassione, di avvicinare senza rigidità e senza pregiudizi le piaghe degli altri.

La Madonna, Madre di misericordia – a me piace pensarla come Madre della misericordia il lunedì dopo la Domenica della Misericordia –, ci accompagni nel cammino della fede e dell’amore.

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Lunedì dell'Angelo, 18 aprile 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

I giorni nell’Ottava di Pasqua sono come un unico giorno in cui si prolunga la gioia della Risurrezione. Così il Vangelo della Liturgia odierna continua a raccontarci del Risorto, della sua apparizione alle donne che si erano recate al sepolcro (cfr Mt 28,8-15). Gesù va loro incontro, le saluta; poi dice loro due cose, che farà bene anche a noi accogliere, come dono pasquale. Sono due consigli del Signore, un dono pasquale.

Per prima cosa le rassicura con due semplici parole: «Non temete» (v. 10). Non avere paura. Il Signore sa che i timori sono i nostri nemici quotidiani. Sa pure che le nostre paure nascono dalla grande paura, la paura della morte: paura di svanire, di perdere le persone care, di star male e non farcela più... Ma a Pasqua Gesù ha vinto la morte. Nessun altro, dunque, può dirci in modo più convincente: “Non temere”, “non avere paura”. Il Signore lo dice proprio lì, accanto al sepolcro da cui è uscito vittorioso. Ci invita così a uscire dalle tombe delle nostre paure. Ascoltiamo bene: uscire dalle tombe delle nostre paure, perché le nostre paure sono come le tombe, ci seppelliscono dentro. Egli sa che il timore sta sempre accovacciato alla porta del nostro cuore e che abbiamo bisogno di sentirci ripetere non temere, non avere paura, non temere: al mattino di Pasqua come al mattino di ogni giorno sentire: “Non temere”. Abbi coraggio. Fratello, sorella che credi in Cristo, non temere! “Io – ti dice Gesù – ho provato per te la morte, ho preso su di me il tuo male. Ora sono risorto per dirti: Sono qui, con te, per sempre. Non temere!”. Non abbiate paura.

Ma come fare, possiamo dire, a combattere la paura? Ci aiuta la seconda cosa che Gesù dice alle donne: «Andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno» (v. 10). Andate ad annunciare. La paura ci chiude sempre in noi stessi; ci chiude in noi stessi. Gesù, invece, ci fa uscire e ci manda agli altri. Ecco il rimedio. Ma io – possiamo dire – non sono capace! Ma pensate, quelle donne non erano certo le più adatte e preparate per annunciare il Risorto, ma al Signore non importa. A Lui importa che si esca e si annunci. Uscire e annunciare. Uscire e annunciare. Perché la gioia pasquale non è da tenere per sé. La gioia di Cristo si rafforza donandola, si moltiplica condividendola. Se ci apriamo e portiamo il Vangelo, il nostro cuore si dilata e supera la paura. Questo è il segreto: annunciare per vincere la paura.

Il testo di oggi, racconta che l’annuncio può incontrare un ostacolo: la falsità. Il Vangelo narra infatti “un contro-annuncio”. Qual è? Quello dei soldati che avevano fatto la guardia al sepolcro di Gesù. Essi vengono pagati – dice il Vangelo - «con una buona somma di denaro» (v. 12), una bella mancia, e ricevono queste istruzioni: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo”» (v. 13). Voi dormivate? L’avete visto nel sonno come rubavano il corpo? C’è una contraddizione lì, ma una contraddizione a cui tutti credono, perché ci sono dei soldi di mezzo. È il potere del denaro, quell’altro signore di cui Gesù dice che non dobbiamo servire mai. Sono due signori: Dio e il denaro. Non servire mai il denaro! Ecco la falsità, la logica dell’occultamento, che si oppone all’annuncio della verità. È un richiamo anche per noi: le falsità – nelle parole e nella vita – inquinano l’annuncio, corrompono dentro, riportano al sepolcro. Le falsità ci portano indietro, ci portano proprio alla morte, al sepolcro. Il Risorto, invece, ci vuole far uscire dai sepolcri delle falsità e delle dipendenze. Davanti al Signore risorto, c’è quest’altro “dio”: il dio denaro, che sporca tutto, rovina tutto, chiude le porte alla salvezza. E questo è dappertutto: nella vita quotidiana c’è la tentazione di adorare questo dio denaro.

Cari fratelli e sorelle, giustamente noi ci scandalizziamo quando, attraverso l’informazione, scopriamo menzogne e bugie nella vita delle persone e nella società. Ma diamo un nome anche alla falsità che abbiamo dentro! E mettiamo queste nostre opacità, le nostre falsità, davanti alla luce di Gesù risorto. Egli vuole portare alla luce le cose nascoste, per farci testimoni trasparenti e luminosi della gioia del Vangelo, della verità che ci fa liberi (cfr Gv 8,32).

Maria, la Madre del Risorto, ci aiuti a vincere le nostre paure e ci doni la passione per la verità.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica delle Palme e della Passione del Signore, 10 aprile 2022

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Cari fratelli e sorelle!

Prima di concludere questa Celebrazione, desidero salutare tutti voi, in particolare i pellegrini venuti da diversi Paesi, tra i quali numerosi giovani. A tutti, anche a quanti sono collegati tramite i media, auguro una buona Settimana Santa!

Sono vicino al caro popolo del Perù, che sta attraversando un difficile momento di tensione sociale. Vi accompagno con la preghiera e incoraggio tutte le parti a trovare al più presto una soluzione pacifica per il bene del Paese, specialmente dei più poveri, nel rispetto dei diritti di tutti e delle istituzioni.

Tra poco ci rivolgeremo alla Madonna nella preghiera dell’Angelus. Fu proprio l’Angelo del Signore che, nell’Annunciazione, disse a Maria: «Nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37). Nulla è impossibile a Dio. Anche far cessare una guerra di cui non si vede la fine. Una guerra che ogni giorno ci pone davanti agli occhi stragi efferate e atroci crudeltà compiute contro civili inermi. Preghiamo su questo.

Siamo nei giorni che precedono la Pasqua. Ci stiamo preparando a celebrare la vittoria del Signore Gesù Cristo sul peccato e sulla morte. Sul peccato e sulla morte, non su qualcuno e contro qualcun altro. Ma oggi c’è la guerra. Perché si vuole vincere così, alla maniera del mondo? Così si perde soltanto. Perché non lasciare che vinca Lui? Cristo ha portato la croce per liberarci dal dominio del male. È morto perché regnino la vita, l’amore, la pace.

Si depongano le armi! Si inizi una tregua pasquale; ma non per ricaricare le armi e riprendere a combattere, no!, una tregua per arrivare alla pace, attraverso un vero negoziato, disposti anche a qualche sacrificio per il bene della gente. Infatti, che vittoria sarà quella che pianterà una bandiera su un cumulo di macerie?

Nulla è impossibile a Dio. A Lui ci affidiamo, per intercessione della Vergine Maria.

 

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
A MALTA
(2-3 APRILE 2022)

ANGELUS

Piazzale dei Granai, Floriana
Domenica, 3 aprile 2022

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Cari fratelli e sorelle!

Sono grato per le parole che Mons. Scicluna mi ha rivolto a nome vostro. Ma sono io che dico a voi: Grazzi! [Grazie!]

Vorrei esprimere la mia riconoscenza al Signor Presidente della Repubblica e alle Autorità, ai miei Fratelli vescovi, a voi, cari sacerdoti, religiosi e religiose, e a tutti i cittadini e i fedeli di Malta e di Gozo per l’accoglienza e l’affetto ricevuti. Questa sera, dopo aver incontrato diversi fratelli e sorelle migranti, sarà già ora di fare ritorno a Roma, ma porterò con me molti momenti e parole di questi giorni. Tanti gesti. Soprattutto conserverò nel cuore tanti volti, e il volto luminoso di Malta! Ringrazio anche coloro che hanno lavorato per questa visita; e vorrei salutare cordialmente i fratelli e le sorelle di varie confessioni cristiane e religioni che ho incontrato. A tutti chiedo di pregare per me; io lo farò per voi. Preghiamo a vicenda!

In queste isole si respira il senso del Popolo di Dio. Andate avanti così, ricordando che la fede cresce nella gioia e si rafforza nel dono. Proseguite la catena di santità che ha portato tanti maltesi a donarsi con entusiasmo a Dio e agli altri. Penso a Dun Ġorġ Preca, canonizzato quindici anni fa. E vorrei infine rivolgere una parola ai giovani, che sono il vostro avvenire. Cari amici giovani, condivido con voi la cosa più bella della vita. Sapete qual è? È la gioia di spendersi nell’amore, che ci fa liberi. Ma questa gioia ha un nome: Gesù. Vi auguro la bellezza di innamorarvi di Gesù, che è Dio della misericordia – lo abbiamo sentito oggi nel Vangelo –, che crede in voi, sogna con voi, ama le vostre vite e non vi deluderà mai. E per andare avanti sempre con Gesù anche con la famiglia, con il popolo di Dio, non dimenticatevi delle radici. Parlate con i vecchi, parlate con i nonni, parlate con gli anziani!

Il Signore vi accompagni e la Madonna vi custodisca. La preghiamo ora per la pace, pensando alla tragedia umanitaria della martoriata Ucraina, ancora sotto i bombardamenti di questa guerra sacrilega. Non stanchiamoci di pregare e di aiutare chi soffre. La pace sia con voi!

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 27 marzo 2022

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Cari fratelli e sorelle, buona domenica, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di questa domenica narra la cosiddetta parabola del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-32). Essa ci porta al cuore di Dio, che sempre perdona con compassione e tenerezza, sempre. Dio perdona sempre, siamo noi a stancarci di chiedere perdono ma Lui perdona sempre. Ci dice che Dio è Padre, che non solo riaccoglie, ma gioisce e fa festa per il suo figlio, tornato a casa dopo aver dilapidato tutti gli averi. Siamo noi quel figlio, e commuove pensare a quanto il Padre sempre ci ami e ci attenda.

Ma nella stessa parabola c’è anche il figlio maggiore, che va in crisi di fronte a questo Padre. E che può mettere in crisi anche noi. Infatti, dentro di noi c’è anche questo figlio maggiore e, almeno in parte, siamo tentati di dargli ragione: aveva sempre fatto il suo dovere, non era andato via di casa, perciò si indigna nel vedere il Padre riabbracciare il fratello che si era comportato male. Protesta e dice: «Ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando», invece per «questo tuo figlio» addirittura fai festa! (vv. 29-30). “Non ti capisco”. È lo sdegno del figlio maggiore.

Da queste parole emerge il problema del figlio maggiore. Nel rapporto con il Padre egli basa tutto sulla pura osservanza dei comandi, sul senso del dovere. Può essere anche il nostro problema, il nostro problema tra noi e con Dio: perdere di vista che è Padre e vivere una religione distante, fatta di divieti e doveri. E la conseguenza di questa distanza è la rigidità verso il prossimo, che non si vede più come fratello. Nella parabola, infatti, il figlio maggiore non dice al Padre mio fratello, no, dice tuo figlio, come per dire: non è mio fratello. E alla fine proprio lui rischia di rimanere fuori di casa. Infatti – dice il testo – «non voleva entrare» (v. 28). Perché c’era l’altro.

Vedendo questo, il Padre esce a supplicarlo: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). Cerca di fargli capire che per lui ogni figlio è tutta la sua vita. Lo sanno bene i genitori, che si avvicinano molto al sentire di Dio. È bello quello che dice un papà in un romanzo: «Quando sono diventato padre, ho capito Dio» (H. de Balzac, Il padre Goriot, Milano 2004, 112). A questo punto della parabola, il Padre apre il cuore al figlio maggiore e gli esprime due bisogni, che non sono comandi, ma necessità del cuore: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32). Vediamo se anche noi abbiamo nel cuore i due bisogni del Padre: far festa e rallegrarsi.

Anzitutto far festa, cioè manifestare a chi si pente o è in cammino, a chi è in crisi o è lontano, la nostra vicinanza. Perché bisogna fare così? Perché questo aiuterà a superare la paura e lo scoraggiamento, che possono venire dal ricordo dei propri peccati. Chi ha sbagliato, spesso si sente rimproverato dal suo stesso cuore; distanza, indifferenza e parole pungenti non aiutano. Perciò, secondo il Padre, bisogna offrirgli una calda accoglienza, che incoraggi ad andare avanti. “Ma padre questo ne ha fatte tante!”: calda accoglienza. E noi, facciamo così? Cerchiamo chi è lontano, desideriamo fare festa con lui? Quanto bene può fare un cuore aperto, un ascolto vero, un sorriso trasparente; fare festa, non far sentire a disagio! Il padre poteva dire: va bene figlio, torna a casa, torna a lavorare, vai nella tua stanza, sistemati, e al lavoro! E questo sarebbe stato un perdono buono. Ma no! Dio non sa perdonare senza fare festa! E il padre fa festa, per la gioia che ha perché è tornato il figlio.

E poi, secondo il Padre, bisogna rallegrarsi. Chi ha un cuore sintonizzato con Dio, quando vede il pentimento di una persona, per quanto gravi siano stati i suoi errori, se ne rallegra. Non rimane fermo sugli sbagli, non punta il dito sul male, ma gioisce per il bene, perché il bene dell’altro è anche il mio! E noi, sappiamo vedere gli altri così?

Mi permetto di raccontare una storia, finta, ma che fa vedere il cuore del padre. C’è stata un’opera pop, tre quattro anni fa, sull’argomento del figlio prodigo, con tutta la storia. E alla fine, quando quel figlio decide di tornare dal padre, si confronta con un amico e gli dice: “Sai, ho paura che mio padre mi rifiuti, che non mi perdoni”. E l’amico gli consiglia: “Manda una letterina al tuo papà e digli: “Padre, sono pentito, voglio tornare a casa, ma non sono sicuro se tu sarai contento. Se tu vuoi ricevermi, per favore, metti un fazzoletto bianco alla finestra”. E poi cominciò il cammino. E quando era vicino a casa, dove la strada faceva l’ultima curva, ebbe di fronte la sua casa. E cosa vide? Non un fazzoletto: era piena di fazzoletti bianchi, le finestre, tutto! Il Padre ci riceve così, con pienezza, con gioia. Questo è il nostro Padre!

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 20 marzo 2022

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Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Siamo al cuore del cammino quaresimale e oggi il Vangelo inizialmente presenta Gesù che commenta alcuni fatti di cronaca. Mentre era vivo il ricordo di diciotto persone morte sotto il crollo di una torre, gli raccontano di alcuni Galilei che Pilato aveva fatto uccidere (cfr Lc 13,1). E c’è una domanda che sembra accompagnare queste tragiche notizie: di chi è la colpa di questi fatti terribili? Forse quelle persone erano più colpevoli di altre e Dio le ha punite? Questi sono interrogativi che tornano sempre attuali; quando la cronaca nera ci opprime e ci sentiamo impotenti dinanzi al male, spesso viene da chiedersi: si tratta forse di un castigo di Dio? È Lui a mandare una guerra o una pandemia per punirci dei nostri peccati? E perché il Signore non interviene?

Dobbiamo stare attenti: quando il male ci opprime rischiamo di perdere lucidità e, per trovare una risposta facile a quanto non riusciamo a spiegarci, finiamo per incolpare Dio. E tante volte la brutta e cattiva abitudine delle bestemmie viene da qui. Quante volte attribuiamo a Lui le nostre disgrazie, attribuiamo le sventure del mondo a Lui che, invece, ci lascia sempre liberi e dunque non interviene mai imponendosi, solo proponendosi; a Lui che non usa mai violenza e, anzi, soffre per noi e con noi! Gesù, infatti, rifiuta e contesta con forza l’idea di imputare a Dio i nostri mali: quelle persone fatte uccidere da Pilato e quelle morte sotto la torre non erano più colpevoli di altre e non sono vittime di un Dio spietato e vendicativo, che non esiste! Da Dio non può mai venire il male perché Egli «non ci tratta secondo i nostri peccati» (Sal 103,10), ma secondo la sua misericordia. È lo stile di Dio. Non può trattarci altrimenti. Sempre ci tratta con misericordia.

Ma invece di incolpare Dio, dice Gesù, bisogna guardarsi dentro: è il peccato che produce la morte; sono i nostri egoismi a lacerare le relazioni; sono le nostre scelte sbagliate e violente a scatenare il male. A questo punto il Signore offre la vera soluzione. Qual è? La conversione: «Se non vi convertite – dice –, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,5). È un invito pressante, specialmente in questo tempo di Quaresima. Accogliamolo con cuore aperto. Convertiamoci dal male, rinunciamo a quel peccato che ci seduce, apriamoci alla logica del Vangelo: perché, dove regnano l’amore e la fraternità, il male non ha più potere!

Gesù, però, sa che convertirsi non è facile, e vuole aiutarci in questo. Sa che tante volte ricadiamo negli stessi errori e negli stessi peccati; che ci scoraggiamo e, magari, ci sembra che il nostro impegno nel bene sia inutile in un mondo dove il male pare regnare. E allora, dopo il suo appello, ci incoraggia con una parabola che racconta la pazienza di Dio. Dobbiamo pensare alla pazienza di Dio, la pazienza che Dio ha verso di noi. Ci offre l’immagine consolante di un albero di fichi che non porta frutti nel periodo stabilito, ma che non viene tagliato: gli si concede altro tempo, un’altra possibilità. A me piace pensare che un bel nome di Dio sarebbe “il Dio di un’altra possibilità”: sempre ci dà un’altra opportunità, sempre, sempre. Così è la sua misericordia. Così fa il Signore con noi: non ci taglia fuori dal suo amore, non si perde d’animo, non si stanca di ridarci fiducia con tenerezza. Fratelli e sorelle, Dio crede in noi! Dio si fida di noi e ci accompagna con pazienza, la pazienza di Dio con noi. Non si scoraggia, ma ripone sempre speranza in noi. Dio è Padre e ti guarda da padre: come il migliore dei papà, non vede i risultati che non hai ancora raggiunto, ma i frutti che potrai ancora portare; non tiene il conto delle tue mancanze, ma incoraggia le tue possibilità; non si sofferma sul tuo passato, ma scommette con fiducia sul tuo futuro. Perché Dio ci è vicino, Lui è vicino a noi. Lo stile di Dio – non dimentichiamo –: vicinanza, lui è vicino, con misericordia e tenerezza. E così ci accompagna Dio: vicino, misericordioso e tenero.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 13 marzo 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di questa seconda Domenica di Quaresima narra la Trasfigurazione di Gesù (cfr Lc 9,28-36). Egli, mentre prega su un alto monte, cambia d’aspetto, la sua veste diventa candida e sfolgorante, e nella luce della sua gloria appaiono Mosè ed Elia, che parlano con Lui della Pasqua che lo attende a Gerusalemme, cioè della passione, morte e risurrezione di Lui.

Testimoni di questo straordinario avvenimento sono gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo, saliti sul monte con Gesù. Noi li immaginiamo con gli occhi spalancati di fronte a quello spettacolo unico. E certamente sarà stato così. Ma l’evangelista Luca annota che «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» e che «quando si svegliarono» videro la gloria di Gesù (cfr v. 32). Il sonno dei tre discepoli appare come una nota stonata. Gli stessi apostoli, poi, si addormenteranno anche nel Getsemani, durante la preghiera angosciata di Gesù, che aveva chiesto loro di vegliare (cfr Mc 14,37-41). Stupisce questa sonnolenza in momenti tanto importanti.

Leggendo però con attenzione, vediamo che Pietro, Giovanni e Giacomo si assopiscono prima che inizi la Trasfigurazione, cioè proprio mentre Gesù è in preghiera. Lo stesso avverrà al Getsemani. Si tratta evidentemente di una preghiera che si protraeva a lungo, nel silenzio e nel raccoglimento. Possiamo pensare che all’inizio anche loro stessero pregando, fino a quando la stanchezza, il sonno, prevalse.

Fratelli, sorelle, questo sonno fuori luogo non somiglia forse a tanti nostri sonni che ci vengono durante momenti che sappiamo essere importanti? Magari alla sera, quando vorremmo pregare, stare un po’ con Gesù dopo una giornata trascorsa tra mille corse e impegni. Oppure quando è ora di scambiare qualche parola in famiglia e non si ha più la forza. Vorremmo essere più svegli, attenti, partecipi, non perdere occasioni preziose, ma non ci riusciamo, o ci riusciamo in qualche modo e poco.

Il tempo forte della Quaresima è un’opportunità in questo senso. È un periodo in cui Dio vuole svegliarci dal letargo interiore, da questa sonnolenza che non lascia esprimere lo Spirito. Perché – ricordiamolo bene – tenere sveglio il cuore non dipende solo da noi: è una grazia, e va chiesta. Lo dimostrano i tre discepoli del Vangelo: erano bravi, avevano seguito Gesù sul monte, ma con le loro forze non riuscivano a stare svegli. Questo succede anche a noi. Però si svegliano proprio durante la Trasfigurazione. Possiamo pensare che fu la luce di Gesù a ridestarli. Come loro, anche noi abbiamo bisogno della luce di Dio, che ci fa vedere le cose in modo diverso; ci attira, ci risveglia, riaccende il desiderio e la forza di pregare, di guardarci dentro, e di dedicare tempo agli altri. Possiamo superare la stanchezza del corpo con la forza dello Spirito di Dio. E quando noi non riusciamo a superare questo, dobbiamo dire allo Spirito Santo: “Aiutaci, vieni, vieni Spirito Santo. Aiutami: io voglio incontrare Gesù, voglio stare attento, sveglio”. Chiedere allo Spirito Santo che ci tiri fuori da questa sonnolenza che ci impedisce di pregare.

In questo tempo quaresimale, dopo le fatiche di ogni giornata, ci farà bene non spegnere la luce della stanza senza metterci alla luce di Dio. Pregare un pochino prima di dormire. Diamo al Signore la possibilità di sorprenderci e ridestarci il cuore. Lo possiamo fare, ad esempio, aprendo il Vangelo, lasciandoci stupire dalla Parola di Dio, perché la Scrittura illumina i nostri passi e fa ardere il cuore. Oppure possiamo guardare il Crocifisso e meravigliarci davanti all’amore folle di Dio, che non si stanca mai di noi e ha il potere di trasfigurare le nostre giornate, di dare loro un senso nuovo, una luce diversa, una luce inattesa.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 6 marzo 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della liturgia di oggi, prima domenica di Quaresima, ci porta nel deserto, dove Gesù è condotto dallo Spirito Santo, per quaranta giorni, per essere tentato dal diavolo (cfr Lc 4,1-13). Anche Gesù è stato tentato dal diavolo, e ci accompagna, ognuno di noi, nelle nostre tentazioni. Il deserto simboleggia la lotta contro le seduzioni del male, per imparare a scegliere la vera libertà. Gesù, infatti, vive l’esperienza del deserto appena prima di iniziare la sua missione pubblica. È proprio attraverso quella lotta spirituale che Egli afferma decisamente quale genere di Messia intende essere. Non un Messia così, ma così: direi che questa è proprio la dichiarazione dell’identità messianica di Gesù, della via messianica di Gesù. “Io sono Messia, ma per questa strada”. Guardiamo allora da vicino le tentazioni contro cui combatte.

Il diavolo per due volte si rivolge a Lui dicendogli: «Se sei il Figlio di Dio…» (vv. 3.9). Gli propone, cioè, di sfruttare la sua posizione: dapprima per soddisfare i bisogni materiali che sente (cfr v. 3) – la fame –; poi per accrescere il suo potere (cfr vv. 6-7); infine per avere da Dio un segno prodigioso (cfr vv. 9-11). Tre tentazioni. È come se dicesse: “Se sei Figlio di Dio, approfittane!”. Quante volte succede a noi, questo: “Ma se tu stai in quella posizione, approfittane! Non lasciar perdere l’opportunità, l’occasione”, cioè “pensa al tuo profitto”. È una proposta seducente, ma ti porta alla schiavitù del cuore: rende ossessionati dalla brama di avere, riduce tutto al possesso delle cose, del potere, della fama. È questo il nucleo delle tentazioni: “il veleno delle passioni” in cui si radica il male. Guardiamoci dentro e troveremo che sempre le nostre tentazioni hanno questo schema, sempre questo modo di agire.

Ma Gesù si oppone in modo vincente alle attrattive del male. Come fa? Rispondendo alle tentazioni con la Parola di Dio, che dice di non approfittare, di non usare Dio, gli altri e le cose per sé stessi, di non sfruttare la propria posizione per acquisire privilegi. Perché la felicità e la libertà vera non stanno nel possedere, ma nel condividere; non nell’approfittare degli altri, ma nell’amarli; non nell’ossessione del potere, ma nella gioia del servizio.

Fratelli e sorelle, queste tentazioni accompagnano anche noi nel cammino della vita. Dobbiamo vigilare, non spaventarci –  succede a tutti – e vigilare, perché spesso si presentano sotto un’apparente forma di bene. Infatti, il diavolo, che è astuto, usa sempre l’inganno. Ha voluto far credere a Gesù che le sue proposte fossero utili per dimostrare che era davvero il Figlio di Dio.

E vorrei sottolineare una cosa. Gesù non dialoga con il diavolo: Gesù mai ha dialogato con il diavolo. O lo ha cacciato via, quando guariva gli indemoniati, o in questo caso, dovendo rispondere, lo fa con la Parola di Dio, mai con la sua parola. Fratelli e sorelle, mai entrare in dialogo con il diavolo: è più astuto di noi. Mai! Essere aggrappati alla Parola di Dio come Gesù e al massimo rispondere sempre con la Parola di Dio. E per questa strada non sbaglieremo.

Così fa con noi, il diavolo: arriva spesso “con gli occhi dolci”, “con il viso angelico”; sa persino travestirsi di motivazioni sacre, apparentemente religiose! Se cediamo alle sue lusinghe, finisce che giustifichiamo la nostra falsità, mascherandola di buone intenzioni. Per esempio, quanto volte abbiamo sentito questo: “Ho fatto affari strani, ma ho aiutato i poveri”; “ho approfittato del mio ruolo – di politico, di governante, di sacerdote, di vescovo –, ma anche a fin di bene”; “ho ceduto ai miei istinti, ma in fondo non ho fatto male a nessuno”, queste giustificazioni, e così via, una dietro l’altra. Per favore: con il male, niente compromessi! Con il diavolo, niente dialogo! Con la tentazione non si deve dialogare, non bisogna cadere in quel sonno della coscienza che fa dire: “Ma, in fondo non è grave, fanno tutti così”! Guardiamo a Gesù, che non cerca accomodamenti, non fa accordi con il male. Al diavolo oppone la Parola di Dio, che è più forte del diavolo, e così vince le tentazioni.

Questo tempo di Quaresima sia anche per noi tempo di deserto. Prendiamoci gli spazi di silenzio e di preghiera – un pochettino, ci farà bene –; in questi spazi fermiamoci e guardiamo ciò che si agita nel nostro cuore, la nostra verità interiore, quella che noi sappiamo non può essere giustificata. Facciamo chiarezza interiore, mettendoci davanti alla Parola di Dio nella preghiera, perché abbia luogo in noi una benefica lotta contro il male che ci rende schiavi, una lotta per la libertà.

Chiediamo alla Vergine Santa di accompagnarci nel deserto quaresimale e di aiutare il nostro cammino di conversione.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 27 febbraio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Vangelo della Liturgia odierna Gesù ci invita a riflettere sul nostro sguardo e sul nostro parlare. Lo sguardo e il parlare.

Anzitutto sul nostro sguardo. Il rischio che corriamo, dice il Signore, è concentrarci a guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello senza accorgerci della trave che c’è nel nostro (cfr Lc 6,41). In altre parole, essere attentissimi ai difetti degli altri, anche a quelli piccoli come una pagliuzza, trascurando serenamente i nostri, dandogli poco peso. È vero quanto dice Gesù: troviamo sempre motivi per colpevolizzare gli altri e giustificare noi stessi. E tante volte ci lamentiamo per le cose che non vanno nella società, nella Chiesa, nel mondo, senza metterci prima in discussione e senza impegnarci a cambiare anzitutto noi stessi. Ogni cambiamento fecondo, positivo, deve incominciare da noi stessi. Al contrario, non ci sarà cambiamento. Ma – spiega Gesù – facendo così il nostro sguardo è cieco. E se siamo ciechi non possiamo pretendere di essere guide e maestri per gli altri: un cieco, infatti, non può guidare un altro cieco (cfr v. 39).

Cari fratelli e sorelle, il Signore ci invita a ripulire il nostro sguardo. Per prima cosa ci chiede di guardare dentro di noi per riconoscere le nostre miserie. Perché se non siamo capaci di vedere i nostri difetti, saremo sempre portati a ingigantire quelli altrui. Se invece riconosciamo i nostri sbagli e le nostre miserie, si apre per noi la porta della misericordia. E dopo esserci guardati dentro, Gesù ci invita a guardare gli altri come fa Lui – questo è il segreto: guardare gli altri come fa Lui –, che non vede anzitutto il male, ma il bene. Dio ci guarda così: non vede in noi degli sbagli irrimediabili, ma vede dei figli che sbagliano. Cambia l’ottica: non si concentra sugli sbagli, ma sui figli che sbagliano. Dio distingue sempre la persona dai suoi errori. Salva sempre la persona. Crede sempre nella persona ed è sempre pronto a perdonare gli errori. Sappiamo che Dio perdona sempre. E ci invita a fare lo stesso: a non ricercare negli altri il male, ma il bene.

Dopo lo sguardo, Gesù oggi ci invita a riflettere sul nostro parlare. Il Signore spiega che la bocca «esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (v. 45). È vero, da come uno parla ti accorgi subito di quello che ha nel cuore. Le parole che usiamo dicono la persona che siamo. A volte, però, prestiamo poca attenzione alle nostre parole e le usiamo in modo superficiale. Ma le parole hanno un peso: ci permettono di esprimere pensieri e sentimenti, di dare voce alle paure che abbiamo e ai progetti che intendiamo realizzare, di benedire Dio e gli altri. Purtroppo, però, con la lingua possiamo anche alimentare pregiudizi, alzare barriere, aggredire e perfino distruggere; con la lingua possiamo distruggere i fratelli: il pettegolezzo ferisce e la calunnia può essere più tagliente di un coltello! Al giorno d’oggi, poi, specialmente nel mondo digitale, le parole corrono veloci; ma troppe veicolano rabbia e aggressività, alimentano notizie false e approfittano delle paure collettive per propagare idee distorte. Un diplomatico, che fu Segretario Generale delle Nazioni Unite e vinse il Nobel per la Pace, disse che «abusare della parola equivale a disprezzare l’essere umano» (D. Hammarskjöld, Tracce di cammino, Magnano BI 1992, 131).

Domandiamoci allora che genere di parole utilizziamo: parole che esprimono attenzione, rispetto, comprensione, vicinanza, compassione, oppure parole che mirano principalmente a farci belli davanti agli altri? E poi, parliamo con mitezza o inquiniamo il mondo spargendo veleni: criticando, lamentandoci, alimentando l’aggressività diffusa?

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 20 febbraio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Vangelo della Liturgia odierna Gesù dà ai discepoli alcune indicazioni fondamentali di vita. Il Signore si riferisce alle situazioni più difficili, quelle che costituiscono per noi il banco di prova, quelle che ci mettono di fronte a chi ci è nemico e ostile, a chi cerca sempre di farci del male. In questi casi il discepolo di Gesù è chiamato a non cedere all’istinto e all’odio, ma ad andare oltre, molto oltre. Andare oltre l’istinto, andare oltre l’odio. Gesù dice: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27). E ancora più concreto: «A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra» (v. 29). Quando noi sentiamo questo, ci sembra che il Signore chieda l’impossibile. E poi, perché amare i nemici? Se non si reagisce ai prepotenti, ogni sopruso ha via libera, e questo non è giusto. Ma è proprio così? Davvero il Signore ci chiede cose impossibili, anzi ingiuste? È  così?

Consideriamo anzitutto quel senso di ingiustizia che avvertiamo nel “porgi l’altra guancia”. E pensiamo a Gesù. Durante la passione, nel suo ingiusto processo davanti al sommo sacerdote, a un certo punto riceve uno schiaffo da una delle guardie. E Lui come si comporta? Non lo insulta, no, dice alla guardia: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). Chiede conto del male ricevuto. Porgere l’altra guancia non significa subire in silenzio, cedere all’ingiustizia. Gesù con la sua domanda denuncia ciò che è ingiusto. Però lo fa senza ira, senza violenza, anzi con gentilezza. Non vuole innescare una discussione, ma disinnescare il rancore, questo è importante: spegnere insieme l’odio e l’ingiustizia, cercando di recuperare il fratello colpevole. Non è facile questo, ma Gesù lo ha fatto e ci dice di farlo anche noi. Questo è porgere l’altra guancia: la mitezza di Gesù è una risposta più forte della percossa che ha ricevuto. Porgere l’altra guancia non è il ripiego del perdente, ma l’azione di chi ha una forza interiore più grande. Porgere l’altra guancia è vincere il male con il bene, che apre una breccia nel cuore del nemico, smascherando l’assurdità del suo odio. E questo atteggiamento, questo porgere l’altra guancia, non è dettato dal calcolo o dall’odio, ma dall’amore. Cari fratelli e sorelle, è l’amore gratuito e immeritato che riceviamo da Gesù a generare nel cuore un modo di fare simile al suo, che rifiuta ogni vendetta. Noi siamo abituati alle vendette: “Mi hai fatto questo, io ti farò quell’altro”, o a custodire nel cuore questo rancore, rancore che fa male, distrugge la persona.

Veniamo all’altra obiezione: è possibile che una persona giunga ad amare i propri nemici? Se dipendesse solo da noi, sarebbe impossibile. Ma ricordiamoci che, quando il Signore chiede qualcosa, vuole donarla. Mai il Signore ci chiede qualcosa che Lui non ci dà prima. Quando mi dice di amare i nemici, vuole darmi la capacità di farlo. Senza quella capacità noi non potremmo, ma Lui ti dice “ama il nemico” e ti dà la capacità di amare. Sant’Agostino pregava così – ascoltate che bella preghiera questa –: Signore, «dammi ciò che chiedi e chiedimi ciò che vuoi» (Confessioni, X, 29.40), perché me lo hai dato prima. Che cosa chiedergli? Che cosa Dio è contento di donarci? La forza di amare, che non è una cosa, ma è lo Spirito Santo. La forza di amare è lo Spirito Santo, e con lo Spirito di Gesù possiamo rispondere al male con il bene, possiamo amare chi ci fa del male. Così fanno i cristiani. Com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi guerra! È molto triste.

E noi, proviamo a vivere gli inviti di Gesù? Pensiamo a una persona che ci ha fatto del male. Ognuno pensi a una persona. È comune che abbiamo subito il male da qualcuno, pensiamo a quella persona. Forse c’è del rancore dentro di noi. Allora, a questo rancore affianchiamo l’immagine di Gesù, mite, durante il processo, dopo lo schiaffo. E poi chiediamo allo Spirito Santo di agire nel nostro cuore. Infine preghiamo per quella persona: pregare per chi ci ha fatto del male (cfr Lc 6,28). Noi, quando ci hanno fatto qualcosa di male, andiamo subito a raccontare agli altri e ci sentiamo vittime. Fermiamoci, e preghiamo il Signore per quella persona, che l’aiuti, e così viene meno questo sentimento di rancore. Pregare per chi ci ha trattato male è la prima cosa per trasformare il male in bene. La preghiera. La Vergine Maria ci aiuti a essere operatori di pace verso tutti, soprattutto verso chi ci è ostile e non ci piace.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 13 febbraio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Al centro del Vangelo della Liturgia odierna ci sono le Beatitudini (cfr Lc 6,20-23). È interessante notare che Gesù, pur essendo attorniato da una grande folla, le proclama rivolgendosi «verso i suoi discepoli» (v. 20). Parla ai discepoli. Le Beatitudini, infatti, definiscono l’identità del discepolo di Gesù. Esse possono suonare strane, quasi incomprensibili a chi non è discepolo; mentre, se ci chiediamo come è un discepolo di Gesù, la risposta sono proprio le Beatitudini. Vediamo la prima, che è la base di tutte le altre: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (v. 20). Beati voi, poveri. Due cose dice Gesù dei suoi: che sono beati e che sono poveri; anzi, che sono beati perché poveri.

In che senso? Nel senso che il discepolo di Gesù non trova la sua gioia nel denaro, nel potere o in altri beni materiali, ma nei doni che riceve ogni giorno da Dio: la vita, il creato, i fratelli e le sorelle, e così via. Sono doni della vita. Anche i beni che possiede, è contento di condividerli, perché vive nella logica di Dio. E qual è la logica di Dio? La gratuità. Il discepolo ha imparato a vivere nella gratuità. Questa povertà è anche un atteggiamento verso il senso della vita, perché il discepolo di Gesù non pensa di possederlo, di sapere già tutto, ma sa di dover imparare ogni giorno. E questa è una povertà: la coscienza di dovere imparare ogni giorno. Il discepolo di Gesù, poiché ha questo atteggiamento, è una persona umile, aperta, aliena dai pregiudizi e dalle rigidità.

C’era un bell’esempio nel Vangelo di domenica scorsa: Simon Pietro, esperto pescatore, accoglie l’invito di Gesù a gettare le reti in un’ora insolita; e poi, pieno di stupore per la pesca prodigiosa, lascia la barca e tutti i suoi beni per seguire il Signore. Pietro si dimostra docile lasciando tutto, e così diventa discepolo. Invece, chi è troppo attaccato alle proprie idee, alle proprie sicurezze, difficilmente segue davvero Gesù. Lo segue un po’, soltanto nelle cose in cui “io sono d’accordo con Lui e Lui è d’accordo con me”, ma poi, per il resto, non va. E questo non è un discepolo. E così cade nella tristezza. Diventa triste perché i conti non gli tornano, perché la realtà sfugge ai suoi schemi mentali e si trova insoddisfatto. Il discepolo, invece, sa mettersi in discussione, sa cercare Dio umilmente ogni giorno, e questo gli permette di addentrarsi nella realtà, cogliendone la ricchezza e la complessità.

Il discepolo, in altre parole, accetta il paradosso delle Beatitudini: esse dichiarano che è beato, cioè felice, chi è povero, chi manca di tante cose e lo riconosce. Umanamente, siamo portati a pensare in un altro modo: è felice chi è ricco, chi è sazio di beni, chi riceve applausi ed è invidiato da molti, chi ha tutte le sicurezze. Ma questo è un pensiero mondano, non è il pensiero delle Beatitudini! Gesù, al contrario, dichiara fallimentare il successo mondano, in quanto si regge su un egoismo che gonfia e poi lascia il vuoto nel cuore. Davanti al paradosso delle Beatitudini il discepolo si lascia mettere in crisi, consapevole che non è Dio a dover entrare nelle nostre logiche, ma noi nelle sue. Questo richiede un cammino, a volte faticoso, ma sempre accompagnato dalla gioia. Perché il discepolo di Gesù è gioioso con la gioia che gli viene da Gesù. Perché, ricordiamoci, la prima parola che Gesù dice è: beati; da qui il nome delle Beatitudini. È questo il sinonimo dell’essere discepoli di Gesù. Il Signore, liberandoci dalla schiavitù dell’egocentrismo, scardina le nostre chiusure, scioglie la nostra durezza, e ci dischiude la felicità vera, che spesso si trova dove noi non pensiamo. È Lui a guidare la nostra vita, non noi, con i nostri preconcetti o con le nostre esigenze. Il discepolo, infine, è quello che si lascia guidare da Gesù, che apre il cuore a Gesù, lo ascolta e segue la sua strada.

Possiamo allora chiederci: io – ognuno di noi – ho la disponibilità del discepolo? O mi comporto con la rigidità di chi si sente a posto, di chi si sente per bene, di chi si sente già arrivato? Mi lascio “scardinare dentro” dal paradosso delle Beatitudini, o rimango nel perimetro delle mie idee? E poi, con la logica delle Beatitudini, al di là delle fatiche e delle difficoltà, sento la gioia di seguire Gesù? Questo è il tratto saliente del discepolo: la gioia del cuore. Non dimentichiamoci: la gioia del cuore. Questa è la pietra di paragone per sapere se una persona è discepolo: ha la gioia nel cuore? Io ho la gioia nel cuore? Questo è il punto.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 6 febbraio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna ci porta sulle rive del lago di Galilea. La folla fa ressa attorno a Gesù, mentre alcuni pescatori delusi, tra cui Simon Pietro, lavano le reti dopo una notte di pesca andata male. Ed ecco che Gesù sale proprio sulla barca di Simone; poi lo invita a prendere il largo e a gettare ancora le reti (cfr Lc 5,1-4). Fermiamoci su queste due azioni di Gesù: dapprima sale sulla barca e poi, la seconda, invita a prendere il largo. È stata una notte andata male, senza pesci, ma Pietro si fida e prende il largo.

Anzitutto, Gesù sale sulla barca di Simone. Per fare cosa? Per insegnare. Chiede proprio quella barca, che non è piena di pesci ma è tornata a riva vuota, dopo una notte di fatiche e delusioni. È una bella immagine anche per noi. Ogni giorno la barca della nostra vita lascia le rive di casa per inoltrarsi nel mare delle attività quotidiane; ogni giorno cerchiamo di “pescare al largo”, di coltivare sogni, di portare avanti progetti, di vivere l’amore nelle nostre relazioni. Ma spesso, come Pietro, viviamo la “notte delle reti vuote” – la notte delle reti vuote –, la delusione di impegnarci tanto e di non vedere i risultati sperati: «Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (v. 5), dice Simone. Quante volte anche noi restiamo con un senso di sconfitta, mentre nel cuore nascono delusione e amarezza. Due tarli pericolosissimi.

Che cosa fa allora il Signore? Sceglie proprio di salire sulla nostra barca. Da lì vuole annunciare il Vangelo. Proprio quella barca vuota, simbolo delle nostre incapacità, diventa la “cattedra” di Gesù, il pulpito da cui proclama la Parola. E questo ama fare il Signore – il Signore è il Signore delle sorprese, dei miracoli nelle sorprese –: salire sulla barca della nostra vita quando non abbiamo nulla da offrirgli; entrare nei nostri vuoti e riempirli con la sua presenza; servirsi della nostra povertà per annunciare la sua ricchezza, delle nostre miserie per proclamare la sua misericordia. Ricordiamoci questo: Dio non vuole una nave da crociera, gli basta una povera barca “sgangherata”, purché lo accogliamo. Questo sì, accoglierlo; non interessa su quale barca, accoglierlo. Ma noi – mi domando – lo facciamo salire sulla barca della nostra vita? Gli mettiamo a disposizione il poco che abbiamo? A volte ci sentiamo indegni di Lui perché siamo peccatori. Ma questa è una scusa che al Signore non piace, perché lo allontana da noi! Lui è il Dio della vicinanza, della compassione, della tenerezza, e non cerca perfezionismo: cerca accoglienza. Anche a te dice: “Fammi salire sulla barca della tua vita” – “Ma, Signore, guarda…” – “Così, fammi salire, così com’è”. Pensiamoci.

Così il Signore ricostruisce la fiducia di Pietro. Salito sulla sua barca, dopo aver predicato gli dice: «Prendi il largo» (v. 4). Non era un’ora adatta per pescare, era pieno giorno, ma Pietro si fida di Gesù. Non si basa sulle strategie dei pescatori, che ben conosceva, ma si basa sulla novità di Gesù. Quello stupore che lo muoveva a fare quello che Gesù gli diceva. È così anche per noi: se ospitiamo il Signore sulla nostra barca, possiamo prendere il largo. Con Gesù si naviga nel mare della vita senza paura, senza cedere alla delusione quando non si pesca nulla e senza arrendersi al “non c’è più niente da fare”. Sempre, nella vita personale come in quella della Chiesa e della società, c’è qualcosa di bello e di coraggioso che si può fare, sempre. Sempre possiamo ricominciare, sempre il Signore ci invita a rimetterci in gioco perché Lui apre nuove possibilità. E allora accogliamo l’invito: scacciamo il pessimismo e la sfiducia e prendiamo il largo con Gesù! Anche la nostra piccola barca vuota assisterà a una pesca miracolosa.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 30 gennaio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella Liturgia di oggi il Vangelo racconta la prima predicazione di Gesù nel suo paese, Nazaret. L’esito è amaro: anziché ricevere consensi, Gesù trova incomprensione e anche ostilità (cfr Lc 4,21-30). I suoi compaesani, più che una parola di verità, volevano miracoli, segni prodigiosi. Il Signore non ne opera e loro lo rifiutano, perché dicono di conoscerlo già da bambino, è il figlio di Giuseppe (cfr v. 22) e così via. Così Gesù pronuncia una frase diventata proverbiale: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria» (v. 24).

Queste parole rivelano che l’insuccesso per Gesù non era del tutto imprevisto. Egli conosceva i suoi, conosceva il cuore dei suoi, sapeva il rischio che correva, metteva in conto il rifiuto. Allora possiamo chiederci: ma se la cosa era così, se prevede un fallimento, perché va lo stesso al suo paese? Perché fare del bene a gente che non è disposta ad accoglierti? È una domanda che ci poniamo spesso anche noi. Ma è una domanda che ci aiuta a capire meglio Dio. Egli, davanti alle nostre chiusure, non si tira indietro: non mette freni al suo amore. Davanti alle nostre chiusure, Lui va avanti. Ne vediamo un riflesso in quei genitori che sono consapevoli dell’ingratitudine dei figli, ma non per questo smettono di amarli e di fare loro del bene. Dio è così, ma a un livello molto più alto. E oggi invita anche noi a credere nel bene, a non lasciare nulla di intentato nel fare il bene.

In ciò che avviene a Nazaret troviamo però dell’altro: l’ostilità nei confronti di Gesù da parte dei “suoi” ci provoca: loro non furono accoglienti, e noi? Per verificarlo, guardiamo ai modelli di accoglienza che Gesù oggi propone, ai suoi compaesani e a noi. Sono due stranieri: una vedova di Sarepta di Sidone e Naamàn, il Siro. Tutti e due accolsero dei profeti: la prima Elia, il secondo Eliseo. Ma non fu un’accoglienza facile, passò attraverso delle prove. La vedova ospitò Elia, nonostante la carestia e benché il profeta fosse perseguitato (cfr 1 Re 17,7-16), era un perseguitato politico-religioso. Naamàn, invece, pur essendo una persona di altissimo livello, accolse la richiesta del profeta Eliseo, che lo portò a umiliarsi, a bagnarsi per sette volte in un fiume (cfr 2 Re 5,1-14), come se fosse un bambino ignorante. La vedova e Naamàn, insomma, accolsero attraverso la disponibilità e l’umiltà. Il modo di accogliere Dio è sempre essere disponibili, accoglierlo ed essere umili. La fede passa di qua: disponibilità e umiltà. La vedova e Naamàn non hanno rifiutato le vie di Dio e dei suoi profeti; sono stati docili, non rigidi e chiusi.

Fratelli e sorelle, anche Gesù percorre la via dei profeti: si presenta come non ce l’aspetteremmo. Non lo trova chi cerca miracoli – se noi cerchiamo dei miracoli non troveremo Gesù –,  chi cerca sensazioni nuove, esperienze intime, cose strane; chi cerca una fede fatta di potenza e segni esteriori. No, non lo troverà. Soltanto lo trova, invece, chi accetta le sue vie e le sue sfide, senza lamentele, senza sospetti, senza critiche e musi lunghi. Gesù, in altre parole, ti chiede di accoglierlo nella realtà quotidiana che vivi; nella Chiesa di oggi, così com’è; in chi hai vicino ogni giorno; nella concretezza dei bisognosi, nei problemi della tua famiglia, nei genitori, nei figli, nei nonni, accogliere Dio lì. Lì c’è Lui, che ci invita a purificarci nel fiume della disponibilità e in tanti salutari bagni di umiltà. Ci vuole umiltà per incontrare Dio, per lasciarci incontrare da Lui.

E noi, siamo accoglienti o assomigliamo ai suoi compaesani, che credevano di sapere tutto su di Lui? “Io ho studiato teologia, ho fatto quel corso di catechesi… Io conosco tutto su Gesù!”. Sì, come uno scemo! Non fare lo scemo, tu non conosci Gesù. Magari, dopo tanti anni che siamo credenti, pensiamo di conoscere bene il Signore, con le nostre idee e i nostri giudizi, tante volte. Il rischio è di abituarci, abituarci a Gesù. E così come ci abituiamo? Chiudendoci, chiudendoci alle sue novità, al momento in cui Lui bussa alla tua porta e ti dice una cosa nuova, vuole entrare in te. Noi dobbiamo uscire da questo rimanere fissi sulle nostre posizioni. Il Signore chiede una mente aperta e un cuore semplice. E quando una persona ha una mente aperta, un cuore semplice, ha la capacità di sorprendersi, di stupirsi. Il Signore sempre ci sorprende, è questa la bellezza dell’incontro con Gesù. La Madonna, modello di umiltà e disponibilità, ci mostri la via per accogliere Gesù.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 23 gennaio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Vangelo della Liturgia odierna vediamo Gesù che inaugura la sua predicazione (cfr Lc 4,14-21): è la prima predica di Gesù. Si reca a Nazaret, dove è cresciuto, e partecipa alla preghiera nella sinagoga. Si alza a leggere e, nel rotolo del profeta Isaia, trova il passo riguardante il Messia, che proclama un messaggio di consolazione e liberazione per i poveri e gli oppressi (cfr Is 61,1-2). Finita la lettura, «gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (v. 20). E Gesù esordisce dicendo: «Oggi si è compiuta questa Scrittura» (v. 21). Soffermiamoci su questo oggi. È la prima parola della predicazione di Gesù riportata dal Vangelo di Luca. Pronunciata dal Signore, indica un “oggi” che attraversa ogni epoca e rimane sempre valido. La Parola di Dio sempre è “oggi”. Incomincia un “oggi”: quando tu leggi la Parola di Dio, nella tua anima incomincia un “oggi”, se tu la intendi bene. Oggi. La profezia di Isaia risaliva a secoli prima, ma Gesù, «con la potenza dello Spirito» (v. 14), la rende attuale e, soprattutto, la porta a compimento e indica il modo di ricevere la Parola di Dio: oggi. Non come una storia antica, no: oggi. Oggi parla al tuo cuore.

I compaesani di Gesù sono colpiti dalla sua parola. Anche se, annebbiati dai pregiudizi, non gli credono, si accorgono che il suo insegnamento è diverso da quello degli altri maestri (cfr v. 22): intuiscono che in Gesù c’è di più. Che cosa? C’è l’unzione dello Spirito Santo. A volte, capita che le nostre prediche e i nostri insegnamenti rimangono generici, astratti, non toccano l’anima e la vita della gente. E perché? Perché mancano della forza di questo oggi, quello che Gesù “riempie di senso” con la potenza dello Spirito è l’oggi. Oggi ti sta parlando. Sì, a volte si ascoltano conferenze impeccabili, discorsi ben costruiti, che però non smuovono il cuore e così tutto resta come prima. Anche tante omelia – lo dico con rispetto ma con dolore – sono astratte, e invece di svegliare l’anima l’addormentano. Quando i fedeli incominciano a guardare l’orologio – “quando finirà questo?” – addormentano l’anima. La predicazione corre questo rischio: senza l’unzione dello Spirito impoverisce la Parola di Dio, scade nel moralismo o in concetti astratti; presenta il Vangelo con distacco, come se fosse fuori dal tempo, lontano dalla realtà. E questa non è la strada. Ma una parola in cui non pulsa la forza dell’oggi non è degna di Gesù e non aiuta la vita della gente. Per questo chi predica, per favore, è il primo a dover sperimentare l’oggi di Gesù, così da poterlo comunicare nell’oggi degli altri. E se vuole fare lezioni, conferenze, che lo faccia, ma da un’altra parte, non al momento dell’omelia, dove deve dare la Parola così che scuota i cuori.

Cari fratelli e sorelle, in questa Domenica della Parola di Dio vorrei ringraziare i predicatori e gli annunciatori del Vangelo che rimangono fedeli alla Parola che scuote il cuore, che rimangono fedeli all’“oggi”. Preghiamo per loro, perché vivano l’oggi di Gesù, la dolce forza del suo Spirito che rende la Scrittura viva. La Parola di Dio, infatti, è viva ed efficace (cfr Eb 4,12), ci cambia, entra nelle nostre vicende, illumina il nostro quotidiano, consola e mette ordine. Ricordiamoci: la Parola di Dio trasforma una giornata qualsiasi nell’oggi in cui Dio ci parla. Allora, prendiamo in mano il Vangelo, ogni giorno un piccolo brano da leggere e rileggere. Portate in tasca il Vangelo o nella borsa, per leggerlo nel viaggio, in qualsiasi momento, e leggerlo con calma. Con il tempo scopriremo che quelle parole sono fatte apposta per noi, per la nostra vita. Ci aiuteranno ad accogliere ogni giornata con uno sguardo migliore, più sereno, perché, quando il Vangelo entra nell’oggi, lo riempie di Dio. Vorrei farvi una proposta. Nelle domeniche di quest’anno liturgico viene proclamato il Vangelo di Luca, il Vangelo della misericordia. Perché non leggerlo anche personalmente, tutto quanto, un piccolo passo ogni giorno? Un piccolo passo. Familiarizziamo col Vangelo, ci porterà la novità e la gioia di Dio!

La Parola di Dio è anche il faro che guida il percorso sinodale avviato in tutta la Chiesa. Mentre ci impegniamo ad ascoltarci a vicenda, con attenzione e discernimento – perché non è fare un’inchiesta di opinioni, no, ma discernere la Parola, lì –, ascoltiamo insieme la Parola di Dio e lo Spirito Santo. E la Madonna ci ottenga la costanza per nutrirci ogni giorno del Vangelo.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 16 gennaio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna narra l’episodio delle nozze di Cana, dove Gesù trasforma l’acqua in vino per la gioia degli sposi. E si conclude così: «Questo fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2,11). Notiamo che l’evangelista Giovanni non parla di miracolo, cioè di un fatto potente e straordinario che genera meraviglia. Scrive che a Cana avviene un segno, che suscita la fede dei discepoli. Possiamo allora domandarci: che cos’è un “segno” secondo il Vangelo?

Un segno è un indizio che rivela l’amore di Dio, che non richiama cioè l’attenzione sulla potenza del gesto, ma sull’amore che lo ha provocato. Ci insegna qualcosa dell’amore di Dio, che è sempre vicino, tenero e compassionevole. Il primo segno avviene mentre due sposi sono in difficoltà nel giorno più importante della loro vita. Nel bel mezzo della festa manca un elemento essenziale, il vino, e la gioia rischia di spegnersi tra le critiche e l’insoddisfazione degli invitati. Figuriamoci come può andare avanti una festa di nozze solo con l’acqua! È terribile, una brutta figura faranno gli sposi!

Ad accorgersi del problema è la Madonna, che lo segnala con discrezione a Gesù. E Lui interviene senza clamore, senza quasi darlo a vedere. Tutto si svolge nel riserbo, “dietro le quinte”: Gesù dice ai servi di riempire le anfore d’acqua, che diventa vino. Così agisce Dio, con vicinanza, con discrezione. I discepoli di Gesù colgono questo: vedono che grazie a Lui la festa di nozze è diventata ancora più bella. E vedono anche il modo di agire di Gesù, questo suo servire nel nascondimento – così è Gesù: ci aiuta, ci serve nel nascondimento, in quel momento –, tanto che i complimenti per il vino buono vanno poi allo sposo, nessuno se ne accorge, soltanto i servitori. Così comincia a svilupparsi in loro il germe della fede, cioè credono che in Gesù è presente Dio, l’amore di Dio.

È bello pensare che il primo segno che Gesù compie non è una guarigione straordinaria o un prodigio nel tempio di Gerusalemme, ma un gesto che viene incontro a un bisogno semplice e concreto di gente comune, un gesto domestico, un miracolo, diciamo così, “in punta di piedi”, discreto, silenzioso. Egli è pronto ad aiutarci, a risollevarci. E allora, se siamo attenti a questi “segni”, veniamo conquistati dal suo amore e diventiamo suoi discepoli.

Ma c’è un altro tratto distintivo del segno di Cana. In genere il vino che si dava alla fine della festa era quello meno buono; anche oggi si fa così, la gente a quel punto non distingue tanto bene se è un vino buono o è un vino un po’ annacquato. Gesù, invece, fa in modo che la festa si concluda con il vino migliore. Simbolicamente questo ci dice che Dio vuole per noi il meglio, ci vuole felici. Non si pone limiti e non ci chiede interessi. Nel segno di Gesù non c’è spazio per secondi fini, per pretese verso gli sposi. No, la gioia che Gesù lascia nel cuore è gioia piena e disinteressata. Non è una gioia annacquata!

Vi suggerisco allora un esercizio, che ci può fare molto bene. Proviamo oggi a frugare tra i ricordi alla ricerca dei segni che il Signore ha compiuto nella mia vita. Ognuno dica: nella mia vita, quali segni il Signore ha compiuto? Quali accenni della sua presenza? Segni che ha fatto per mostrarci che ci ama; pensiamo a quel momento difficile in cui Dio mi ha fatto sperimentare il suo amore… E chiediamoci: con quali segni, discreti e premurosi, mi ha fatto sentire la sua tenerezza? Quando io ho sentito più vicino il Signore, quando ho sentito la sua tenerezza, la sua compassione? Ognuno di noi nella sua storia ha di questi momenti. Andiamo a cercare quei segni, facciamo memoria. Come ho scoperto la sua vicinanza? Come in me è rimasta nel cuore una grande gioia? Facciamo rivivere i momenti in cui abbiamo sperimentato la sua presenza e l’intercessione di Maria. Lei, la Madre, che come a Cana è sempre attenta, ci aiuti a fare tesoro dei segni di Dio nella nostra vita.

FESTA DEL BATTESIMO DEL SIGNORE

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 9 gennaio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

il Vangelo della Liturgia odierna ci mostra la scena con cui inizia la vita pubblica di Gesù: Lui, che è il Figlio di Dio e il Messia, va sulle rive del fiume Giordano e si fa battezzare da Giovanni Battista. Dopo circa trent’anni vissuti nel nascondimento, Gesù non si presenta con qualche miracolo o salendo in cattedra per insegnare. Si mette in fila con il popolo che andava a ricevere il battesimo da Giovanni. L’inno liturgico di oggi dice che il popolo andava a farsi battezzare con l’anima e i piedi nudi, umilmente. Bell’atteggiamento, con l’anima nuda e i piedi nudi. E Gesù condivide la sorte di noi peccatori, scende verso di noi: discende nel fiume come nella storia ferita dell’umanità, si immerge nelle nostre acque per risanarle, si immerge con noi, in mezzo a noi. Non sale al di sopra di noi, ma scende verso di noi, con l’anima nuda, con i piedi nudi, come il popolo. Non va da solo, né con un gruppo di eletti privilegiati, no, va con il popolo. Appartiene a quel popolo e va con il popolo a farsi battezzare, con quel popolo umile.

Fermiamoci su un punto importante: nel momento in cui Gesù riceve il Battesimo, il testo dice che «stava in preghiera» (Lc 3,21). Ci fa bene contemplare questo: Gesù prega. Ma come? Lui, che è il Signore, il Figlio di Dio, prega come noi? Sì, Gesù – lo ripetono tante volte i Vangeli – passa molto tempo in preghiera: all’inizio di ogni giorno, spesso di notte, prima di prendere decisioni importanti... La sua preghiera è un dialogo, una relazione con il Padre. Così, nel Vangelo di oggi possiamo vedere i “due movimenti” della vita di Gesù: da una parte scende verso di noi, nelle acque del Giordano; dall’altra eleva lo sguardo e il cuore pregando il Padre.

È un grande insegnamento per noi: tutti siamo immersi nei problemi della vita e in tante situazioni intricate, chiamati ad affrontare momenti e scelte difficili che ci tirano in basso. Ma, se non vogliamo restare schiacciati, abbiamo bisogno di elevare tutto verso l’alto. E questo lo fa proprio la preghiera, che non è una via di fuga, la preghiera non è un rito magico o una ripetizione di cantilene imparate a memoria. No. Pregare è il modo per lasciare agire Dio in noi, per cogliere quello che Lui vuole comunicarci anche nelle situazioni più difficili, pregare per avere la forza di andare avanti. Tanta gente sente che non ce la fa e prega: “Signore, dammi la forza di andare avanti”. Anche noi tante volte lo abbiamo fatto. La preghiera ci aiuta perché ci unisce a Dio, ci apre all’incontro con Lui. Sì, la preghiera è la chiave che apre il cuore al Signore. È dialogare con Dio, è ascoltare la sua Parola, è adorare: stare in silenzio affidandogli ciò che viviamo. E a volte è anche gridare a Lui come Giobbe, sfogarsi con Lui. Gridare come Giobbe. Lui è padre, ci capisce bene. Lui mai si arrabbia con noi. E Gesù prega.

La preghiera – per usare una bella immagine del Vangelo di oggi – “apre il cielo” (cfr v. 21). La preghiera apre il cielo: dà ossigeno alla vita, dà respiro anche in mezzo agli affanni e fa vedere le cose in modo più ampio. Soprattutto, ci permette di fare la stessa esperienza di Gesù al Giordano: ci fa sentire figli amati dal Padre. Anche a noi, quando preghiamo, il Padre dice, come a Gesù nel Vangelo: “Tu sei mio figlio, l’amato” (cfr v. 22). Questo nostro essere figli è cominciato il giorno del Battesimo, che ci ha immersi in Cristo e, membri del popolo di Dio, ci ha fatto diventare figli amati del Padre. Non dimentichiamo la data del nostro Battesimo! Se io domandassi adesso a ognuno di voi: qual è la data del tuo Battesimo? Forse alcuni non lo ricordano. Questa è una cosa bella: ricordare la data del Battesimo, perché è la nostra rinascita, il momento nel quale siamo diventai figli di Dio con Gesù. E quando tornerete a casa – se non lo sapete – domandate alla mamma, alla zia o ai nonni: “Quando sono stato battezzato o battezzata?”, e imparare quella festa per festeggiarla, per ringraziare il Signore. E oggi, in questo momento, chiediamoci: come va la mia preghiera? Prego per abitudine, prego controvoglia, solo recitando delle formule, o la mia preghiera è l’incontro con Dio? Io peccatore, sempre nel popolo di Dio, mai isolato? Coltivo l’intimità con Dio, dialogo con Lui, ascolto la sua Parola? Tra tante cose che facciamo nella giornata, non trascuriamo la preghiera: dedichiamole tempo, usiamo brevi invocazioni da ripetere spesso, leggiamo il Vangelo ogni giorno. La preghiera che apre il cielo.

E ora ci rivolgiamo alla Madonna, Vergine orante, che ha fatto della sua vita un canto di lode a Dio.

SOLENNITÀ DELL'EPIFANIA DEL SIGNORE

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Giovedì, 6 gennaio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona festa!

Oggi, solennità dell’Epifania, contempliamo l’episodio dei magi (cfr Mt 2,1-12). Essi affrontano un viaggio lungo e faticoso per andare ad adorare «il re dei Giudei» (v. 2). Sono guidati dal segno prodigioso di una stella, e quando finalmente arrivano alla meta, anziché trovare qualcosa di grandioso, vedono un bimbo con la mamma. Avrebbero potuto protestare: “Tanta strada, tanti sacrifici per stare davanti a un bambino povero?”. Eppure non si scandalizzano, non rimangono delusi. Non si lamentano. Cosa fanno? Si prostrano. «Entrati nella casa – dice il Vangelo –, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (v. 11).

Pensiamo a questi sapienti venuti da lontano, ricchi, colti, conosciuti, che si prostrano, cioè si chinano a terra per adorare un bambino! Sembra una contraddizione. Sorprende un gesto tanto umile compiuto da uomini così illustri. Prostrarsi davanti a un’autorità che si presentava con i segni della potenza e della gloria era cosa abituale al tempo. E anche oggi non sarebbe strano. Ma davanti al Bambino di Betlemme non è semplice. Non è facile adorare questo Dio, la cui divinità rimane nascosta e non appare trionfante. Vuol dire accogliere la grandezza di Dio, che si manifesta nella piccolezza: questo è il messaggio. I magi si abbassano di fronte all’inaudita logica di Dio, accolgono il Signore non come lo immaginavano, ma così com’è, piccolo e povero. La loro prostrazione è il segno di chi mette da parte le proprie idee e fa spazio a Dio. Ci vuole umiltà per fare questo.

Il Vangelo insiste su questo: non dice solo che i magi adorarono, sottolinea che si prostrarono e adorarono. Cogliamo questa indicazione: l’adorazione va insieme alla prostrazione. Compiendo questo gesto, i magi dimostrano di accogliere con umiltà Colui che si presenta nell’umiltà. Ed è così che si aprono all’adorazione di Dio. Gli scrigni che aprono sono immagine del loro cuore aperto: la loro vera ricchezza non consiste nella fama, nel successo, ma nell’umiltà, nel loro ritenersi bisognosi di salvezza. E così è l’esempio che ci danno i magi, oggi.

Cari fratelli e sorelle, se al centro di tutto rimaniamo sempre noi con le nostre idee e presumiamo di vantare qualcosa davanti a Dio, non lo incontreremo mai fino in fondo, non arriveremo ad adorarlo. Se non cadono le nostre pretese, le vanità, i puntigli, le corse per primeggiare, ci capiterà di adorare pure qualcuno o qualcosa nella vita, ma non sarà il Signore! Se invece abbandoniamo la nostra pretesa di autosufficienza, se ci facciamo piccoli dentro, allora riscopriremo lo stupore di adorare Gesù. Perché l’adorazione passa attraverso l’umiltà del cuore: chi ha la smania dei sorpassi, non si accorge della presenza del Signore. Gesù passa accanto e viene ignorato, come accadde a tanti in quel tempo, ma non ai magi.

Fratelli e sorelle, guardando a loro, oggi ci chiediamo: come va la mia umiltà? Sono convinto che l’orgoglio impedisce il mio progresso spirituale? Quell’orgoglio, manifesto o nascosto, che sempre copre lo slancio verso Dio. Lavoro sulla mia docilità, per essere disponibile a Dio e agli altri, oppure sono sempre centrato su di me, sulle mie pretese, con quell’egoismo nascosto che è la superbia? So accantonare il mio punto di vista per abbracciare quello di Dio e degli altri? E infine: prego e adoro solo quando ho bisogno di qualcosa, oppure lo faccio con costanza perché credo di avere sempre bisogno di Gesù? I magi hanno incominciato la strada guardando una stella e trovarono Gesù. Hanno camminato tanto. Oggi possiamo prendere questo consiglio: guarda la stella e cammina. Non smettete mai di camminare, ma non tralasciate di guardare la stella. Questo è il consiglio di oggi, forte: guarda la stella e cammina, guarda la stella e cammina.

La Vergine Maria, serva del Signore, ci insegni a riscoprire il bisogno vitale dell’umiltà e il gusto vivo dell’adorazione. Ci insegni a guardare la stella e a camminare.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 2 gennaio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia odierna ci offre una frase bellissima, che preghiamo sempre all’Angelus e che da sola ci rivela il senso del Natale: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Queste parole, se ci pensiamo, contengono un paradosso. Mettono insieme due realtà opposte: il Verbo e la carne. “Verbo” indica che Gesù è la Parola eterna del Padre, Parola infinita, che esiste da sempre, prima di tutte le cose create; “carne” indica invece proprio la nostra realtà, realtà creata, fragile, limitata, mortale. Prima di Gesù erano due mondi separati: il Cielo opposto alla terra, l’infinito opposto al finito, lo spirito opposto alla materia. E c’è un’altra opposizione nel Prologo del Vangelo di Giovanni, un altro binomio: luce e tenebre (cfr v. 5). Gesù è la luce di Dio entrata nelle tenebre del mondo. Luce e tenebre. Dio è luce: in Lui non c’è opacità; in noi, invece, ci sono molte oscurità. Ora, con Gesù, si incontrano Luce e tenebre: santità e colpa, grazia e peccato. Gesù, l’incarnazione di Gesù è proprio il luogo dell’incontro, dell’incontro tra Dio e gli uomini, l’incontro tra la grazia e il peccato.

Che cosa vuole annunciare il Vangelo con queste polarità? Una cosa splendida: il modo di agire di Dio. Di fronte alla nostra fragilità, il Signore non si tira indietro. Non rimane nella sua eternità beata e nella sua luce infinita, ma si fa vicino, si fa carne, si cala nelle tenebre, abita terre a Lui estranee. E perché fa questo Dio? Perché scende da noi? Lo fa perché non si rassegna al fatto che noi possiamo smarrirci andando lontani da Lui, lontani dall’eternità, lontani dalla luce. Ecco l’opera di Dio: venire in mezzo a noi. Se noi ci riteniamo indegni, questo non lo ferma, Lui viene. Se lo rifiutiamo, non si stanca di cercarci. Se non siamo pronti e ben disposti ad accoglierlo, preferisce comunque venire. E se noi gli chiudiamo la porta in faccia, Lui aspetta. È proprio il Buon Pastore. E l’immagine più bella del Buon Pastore? Il Verbo che si fa carne per condividere la nostra vita. Gesù è il Buon Pastore che viene a cercarci lì dove noi siamo: nei nostri problemi, nella nostra miseria. Lì viene Lui.

Cari fratelli e sorelle, spesso ci teniamo a distanza da Dio perché pensiamo di non essere degni di Lui per altri motivi. Ed è vero. Ma il Natale ci invita a vedere le cose dal suo punto di vista. Dio desidera incarnarsi. Se il tuo cuore ti sembra troppo inquinato dal male, ti sembra disordinato, per favore, non chiuderti, non avere paura: Lui viene. Pensa alla stalla di Betlemme. Gesù è nato lì, in quella povertà, per dirti che non teme certo di visitare il tuo cuore, di abitare una vita trasandata. È questa la parola: abitare. Abitare è il verbo che usa oggi il Vangelo per significare questa realtà: esprime una condivisione totale, una grande intimità. E questo Dio vuole: vuole abitare con noi, vuole abitare in noi, non rimanere lontano.

E mi domando, a me, a voi e a tutti: noi, vogliamo fargli spazio? A parole sì; nessuno dirà: “Io no”; sì. Ma concretamente? Magari ci sono degli aspetti della vita che teniamo per noi, esclusivi, o dei luoghi interiori nei quali abbiamo paura che il Vangelo entri, dove non vogliamo mettere Dio in mezzo. Oggi vi invito alla concretezza. Quali sono le cose interiori che io credo che a Dio non piacciano? Qual è lo spazio che tengo soltanto per me e non voglio che lì Dio venga? Ognuno di noi sia concreto e rispondiamo a questo. “Sì, sì, io vorrei che Gesù venisse, ma questo che non lo tocchi; e questo no, e questo…”. Ognuno ha il proprio peccato – chiamiamolo per nome – e Lui non si spaventa dei nostri peccati: è venuto per guarirci. Almeno facciamoglielo vedere, che Lui veda il peccato. Siamo coraggiosi, diciamo: “Signore, io sono in questa situazione, non voglio cambiare. Ma tu, per favore, non allontanarti troppo”. Bella preghiera, questa. Siamo sinceri oggi.

In questi giorni natalizi ci farà bene accogliere il Signore proprio lì. Come? Ad esempio sostando davanti al presepe, perché esso mostra Gesù che viene ad abitare tutta la nostra vita concreta, ordinaria, dove non va tutto bene, ci sono tanti problemi – alcuni per colpa nostra, altri per colpa degli altri – e Gesù viene. Vediamo lì i pastori che lavorano duramente, Erode che minaccia gli innocenti, una grande povertà… Ma in mezzo a tutto questo, in mezzo a tanti problemi – e anche in mezzo ai nostri problemi – c’è Dio, c’è Dio che vuole abitare con noi. E attende che gli presentiamo le nostre situazioni, quello che viviamo. Allora, davanti al presepe, parliamo a Gesù delle nostre vicende concrete. Invitiamolo ufficialmente nella nostra vita, soprattutto nelle zone oscure: “Guarda, Signore, che lì non c’è luce, lì l’elettricità non arriva, ma per favore non toccare, perché non me la sento di lasciare questa situazione”. Parlare con chiarezza, concretezza. Le zone oscure, le nostre “stalle interiori”: ognuno di noi ne ha. E raccontiamogli senza paura anche i problemi sociali, i problemi ecclesiali del nostro tempo; i problemi personali, anche i più brutti: Dio ama abitare nella nostra stalla.

La Madre di Dio, nella quale il Verbo si è fatto carne, ci aiuti a coltivare un’intimità maggiore con il Signore.

SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Sabato, 1 gennaio 2022

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Buon anno!

Iniziamo il nuovo anno affidandolo a Maria Madre di Dio. Il Vangelo della Liturgia di oggi parla di lei, rimandandoci nuovamente all’incanto del presepe. I pastori vanno senza indugio verso la grotta e che cosa trovano? Trovano – dice il testo – «Maria, Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (Lc 2,16). Fermiamoci su questa scena e immaginiamo Maria che, come mamma tenera e premurosa, ha appena adagiato Gesù nella mangiatoia. In quell’adagiare possiamo vedere un dono fatto a noi: la Madonna non tiene il Figlio per sé, ma lo presenta a noi; non lo stringe solo tra le sue braccia, ma lo depone per invitarci a guardarlo, accoglierlo e adorarlo. Ecco la maternità di Maria: il Figlio che è nato lo offre a tutti noi. Sempre dando il Figlio, indicando il Figlio, mai trattenendo come cosa propria il Figlio, no. E così durante tutta la vita di Gesù.

E nel posarlo davanti ai nostri occhi, senza dire una parola, ci dona un messaggio stupendo: Dio è vicino, a portata di mano. Non viene con la potenza di chi vuole essere temuto, ma con la fragilità di chi chiede di essere amato; non giudica dall’alto di un trono, ma ci guarda dal basso come fratello, anzi, come figlio. Nasce piccolo e bisognoso perché nessuno debba più vergognarsi di sé stesso: proprio quando facciamo esperienza della nostra debolezza e della nostra fragilità, possiamo sentire Dio ancora più vicino, perché si è presentato a noi così, debole e fragile. È il Dio-bambino che nasce per non escludere nessuno. Per farci diventare tutti fratelli e sorelle.

Ecco allora: il nuovo anno inizia con Dio che, in braccio alla Madre e adagiato in una mangiatoia, ci incoraggia con tenerezza. Abbiamo bisogno di questo incoraggiamento. Viviamo ancora tempi incerti e difficili a causa della pandemia. Tanti sono intimoriti dal futuro e appesantiti da situazioni sociali, da problemi personali, dai pericoli che provengono dalla crisi ecologica, da ingiustizie e da squilibri economici planetari. Guardando a Maria con in braccio il suo Figlio, penso alle giovani madri e ai loro bambini in fuga da guerre e carestie o in attesa nei campi per i rifugiati. Sono tanti! E contemplando Maria che adagia Gesù nella mangiatoia, mettendolo a disposizione di tutti, ricordiamo che il mondo cambia e la vita di tutti migliora solo se ci mettiamo a disposizione degli altri, senza aspettare che siano loro a cominciare a farlo. Se diventiamo artigiani di fraternità, potremo ritessere i fili di un mondo lacerato da guerre e violenze.

Oggi si celebra la Giornata Mondiale della Pace. La pace «è insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso» (Messaggio per la LV Giornata Mondiale della Pace, 1). Dono dall’alto: va implorata da Gesù, perché da soli non siamo in grado di custodirla. Possiamo costruire veramente la pace solo se l’abbiamo nel cuore, solo se la riceviamo dal Principe della pace. Ma la pace è anche impegno nostro: chiede di fare il primo passo, domanda gesti concreti. Si edifica con l’attenzione agli ultimi, con la promozione della giustizia, con il coraggio del perdono, che spegne il fuoco dell’odio. E ha bisogno pure di uno sguardo positivo: che si guardi sempre – nella Chiesa come nella società – non al male che ci divide, ma al bene che può unirci! Non serve abbattersi e lamentarsi, ma rimboccarsi le maniche per costruire la pace. La Madre di Dio, Regina della pace, all’inizio di questo anno ottenga concordia ai nostri cuori e al mondo intero.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 26 dicembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi festeggiamo la Santa Famiglia di Nazaret. Dio ha scelto una famiglia umile e semplice per venire in mezzo a noi. Contempliamo la bellezza di questo mistero, sottolineando anche due aspetti concreti per le nostre famiglie.

Il primo: la famiglia è la storia da cui proveniamo. Ognuno di noi ha la propria storia, nessuno è nato magicamente, con la bacchetta magica, ognuno di noi ha una storia e la famiglia è la storia da dove noi proveniamo. Il Vangelo della Liturgia odierna ci ricorda che anche Gesù è figlio di una storia familiare. Lo vediamo viaggiare a Gerusalemme con Maria e Giuseppe per la Pasqua; poi fa preoccupare la mamma e il papà, che non lo trovano; ritrovato, torna a casa con loro (cfr Lc 2,41-52). È bello vedere Gesù inserito nella trama degli affetti familiari, che nasce e cresce nell’abbraccio e nelle preoccupazioni dei suoi. Questo è importante anche per noi: proveniamo da una storia intessuta di legami d’amore e la persona che siamo oggi non nasce tanto dai beni materiali di cui abbiamo usufruito, ma dall’amore che abbiamo ricevuto dall’amore nel seno della famiglia. Forse non siamo nati in una famiglia eccezionale e senza problemi, ma è la nostra storia - ognuno deve pensare: è la mia storia - , sono le nostre radici: se le tagliamo, la vita inaridisce! Dio non ci ha creati per essere condottieri solitari, ma per camminare insieme. Ringraziamolo e preghiamolo per le nostre famiglie. Dio ci pensa e ci vuole insieme: grati, uniti, capaci di custodire le radici. E dobbiamo pensare a questo, alla propria storia.

Il secondo aspetto: a essere famiglia si impara ogni giorno. Nel Vangelo vediamo che anche nella Santa Famiglia non va tutto bene: ci sono problemi inattesi, angosce, sofferenze. Non esiste la Santa Famiglia delle immaginette. Maria e Giuseppe perdono Gesù e angosciati lo cercano, per poi trovarlo dopo tre giorni. E quando, seduto tra i maestri del Tempio, risponde che deve occuparsi delle cose del Padre suo, non comprendono. Hanno bisogno di tempo per imparare a conoscere il loro figlio. Così anche per noi: ogni giorno, in famiglia, bisogna imparare ad ascoltarsi e capirsi, a camminare insieme, ad affrontare conflitti e difficoltà. È la sfida quotidiana, e si vince con il giusto atteggiamento, con le piccole attenzioni, con gesti semplici, curando i dettagli delle nostre relazioni. E anche questo, ci aiuta tanto parlare in famiglia, parlare a tavola, il dialogo tra i genitori e i figli, il dialogo tra i fratelli, ci aiuta a vivere questa radice familiare che viene dai nonni. Il dialogo con i nonni!

E come si fa questo? Guardiamo a Maria, che nel Vangelo di oggi dice a Gesù: «Tuo padre e io ti cercavamo» (v. 48). Tuo padre e io, non dice io e tuo padre: prima dell’io c’è il tu! Impariamo questo: prima dell’io c’è il tu. Nella mia lingua c’è un aggettivo per la gente che prima dice l’io poi il tu: “Io, me e con me e per me e al mio profitto”. Gente che è così, prima l’io poi il tu. No, nella Sacra Famiglia, prima il tu e dopo l’io. Per custodire l’armonia in famiglia bisogna combattere la dittatura dell’io, quando l’io si gonfia. È pericoloso quando, invece di ascoltarci, ci rinfacciamo gli sbagli; quando, anziché avere gesti di cura per gli altri, ci fissiamo nei nostri bisogni; quando, invece di dialogare, ci isoliamo con il telefonino – è triste vedere a pranzo una famiglia, ognuno con il proprio telefonino senza parlarsi, ognuno parla con il telefonino; quando ci si accusa a vicenda, ripetendo sempre le solite frasi, inscenando una commedia già vista dove ognuno vuole aver ragione e alla fine cala un freddo silenzio. Quel silenzio tagliente, freddo, dopo una discussione familiare, è brutto quello, bruttissimo! Ripeto un consiglio: alla sera, dopo tutto, fare la pace, sempre. Mai andare a dormire senza aver fatto la pace, altrimenti il giorno dopo ci sarà la “guerra fredda”! E questa è pericolosa perché incomincerà una storia di rimproveri, una storia di risentimenti. Quante volte, purtroppo, tra le mura domestiche da silenzi troppo lunghi e da egoismi non curati nascono e crescono conflitti! A volte si arriva persino a violenze fisiche e morali. Questo lacera l’armonia e uccide la famiglia. Convertiamoci dall’io al tu. Quello che deve essere più importante nella famiglia è il tu. E ogni giorno, per favore, pregare un po’ insieme, se potete fare lo sforzo, per chiedere a Dio il dono della pace in famiglia. E impegniamoci tutti – genitori, figli, Chiesa, società civile – a sostenere, difendere e custodire la famiglia che è il nostro tesoro!

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 19 dicembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di oggi, quarta Domenica di Avvento, narra la visita di Maria a Elisabetta (cfr Lc 1,39-45). Ricevuto l’annuncio dell’angelo, la Vergine non rimane in casa, a ripensare all’accaduto e considerare i problemi e gli imprevisti, che certo non mancavano: Perché, poveretta, non sapeva cosa fare con questa notizia, con la cultura di quell’epoca… Non capiva… Al contrario, per prima cosa pensa a chi ha bisogno; invece di essere ripiegata sui suoi problemi, pensa a chi ha bisogno, pensa a Elisabetta sua parente, che è avanti negli anni e incinta: una cosa strana, miracolosa. Maria si mette in viaggio con generosità, senza lasciarsi intimorire dai disagi del tragitto, rispondendo a un impulso interiore che la chiama a farsi vicina e a dare aiuto. Una lunga strada, chilometri e chilometri, e non c’era un bus che andava: è dovuta andare a piedi. Lei esce per dare aiuto, condividendo la sua gioia. Maria dona a Elisabetta la gioia di Gesù, la gioia che portava nel cuore e nel grembo. Va da lei e proclama i suoi sentimenti, e questa proclamazione dei sentimenti poi è diventata una preghiera, il Magnificat, che tutti noi conosciamo. E dice il testo che la Madonna «si alzò e andò in fretta» (v. 39).

Si alzò e andò. Nell’ultimo tratto del cammino di Avvento lasciamoci guidare da questi due verbi. Alzarsi e camminare in fretta: sono i due movimenti che Maria ha fatto e che invita anche noi a fare in vista del Natale. Anzitutto, alzarsi. Dopo l’annuncio dell’angelo, per la Vergine si profilava un periodo difficile: la sua gravidanza inattesa la esponeva a incomprensioni e anche a pene severe, anche alla lapidazione, nella cultura di quel tempo. Immaginiamo quanti pensieri e turbamenti aveva! Tuttavia non si scoraggia, non si abbatte, ma si alza. Non volge lo sguardo in basso, verso i problemi, ma in alto, verso Dio. E non pensa a chi chiedere aiuto, ma a chi portare aiuto. Sempre pensa agli altri: così è Maria, pensando sempre ai bisogni degli altri. Lo stesso farà dopo, alle nozze di Cana, quando si accorge che manca il vino. È un problema di altra gente, ma lei pensa a questo e cerca di trovare una soluzione. Sempre Maria pensa agli altri. Pensa anche a noi.

Impariamo dalla Madonna questo modo di reagire: alzarci, soprattutto quando le difficoltà rischiano di schiacciarci. Alzarci, per non rimanere impantanati nei problemi, sprofondando nell’autocommiserazione o cadendo in una tristezza che ci paralizza. Ma perché alzarci? Perché Dio è grande ed è pronto a rialzarci se noi gli tendiamo la mano. Allora gettiamo in Lui i pensieri negativi, le paure che bloccano ogni slancio e che impediscono di andare avanti. E poi facciamo come Maria: guardiamoci attorno e cerchiamo qualche persona a cui possiamo essere di aiuto! C’è qualche anziano che conosco a cui posso fare un po’ di aiuto, di compagnia? Ognuno ci pensi. O fare un servizio a una persona, una gentilezza, una telefonata? Ma a chi posso dare aiuto? Mi alzo e do aiuto. Aiutando gli altri, aiuteremo noi stessi a rialzarci dalle difficoltà.

Il secondo movimento è camminare in fretta. Non vuol dire procedere con agitazione, in modo affannato, no, non vuol dire questo. Si tratta invece di condurre le nostre giornate con passo lieto, guardando avanti con fiducia, senza trascinarci di malavoglia, schiavi delle lamentele – queste lamentele rovinano tante vite, perché uno si mette a lamentarsi e lamentarsi e la vita va giù. Le lamentele ti portano a cercare sempre qualcuno da incolpare. Andando verso la casa di Elisabetta, Maria procede con il passo svelto di chi ha il cuore e la vita pieni di Dio, pieni della sua gioia. Allora chiediamoci noi, per il nostro profitto: com’è il mio “passo”? Sono propositivo oppure mi attardo nella malinconia, nella tristezza? Vado avanti con speranza o mi fermo per piangermi addosso? Se procediamo con il passo stanco dei brontolii e delle chiacchiere, non porteremo Dio a nessuno, soltanto porteremo amarezza, cose oscure. Fa tanto bene, invece, coltivare un sano umorismo, come facevano, ad esempio, San Tommaso Moro o San Filippo Neri. Possiamo chiedere anche questa grazia, la grazia del sano umorismo: fa tanto bene. Non dimentichiamo che il primo atto di carità che possiamo fare al prossimo è offrirgli un volto sereno e sorridente. È portargli la gioia di Gesù, come ha fatto Maria con Elisabetta.

La Madre di Dio ci prenda per mano, ci aiuti ad alzarci e a camminare in fretta verso il Natale!

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 12 dicembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di oggi, terza domenica di Avvento, ci presenta vari gruppi di persone – le folle, i pubblicani e i soldati – che sono toccati dalla predicazione di Giovanni Battista e allora gli chiedono: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10). Che cosa dobbiamo fare? Questa è la domanda che fanno. Fermiamoci un po’ su questo interrogativo.

Esso non parte da un senso del dovere. Piuttosto, è il cuore toccato dal Signore, è l’entusiasmo per la sua venuta che porta a dire: cosa dobbiamo fare? Giovanni dice: “Il Signore è vicino” - “Che cosa dobbiamo fare?”. Facciamo un esempio: pensiamo che una persona cara stia venendo a trovarci. Noi la aspettiamo con gioia, con impazienza. Per accoglierla come si deve puliremo la casa, prepareremo il pranzo migliore possibile, magari un regalo… Insomma, ci daremo da fare. Così è con il Signore, la gioia per la sua venuta ci fa dire: che cosa dobbiamo fare? Ma Dio eleva questa domanda al livello più alto: cosa fare della mia vita? A cosa sono chiamato? Che cosa mi realizza?

Nel suggerirci questo interrogativo, il Vangelo ci ricorda una cosa importante: la vita ha un compito per noi. La vita non è senza senso, non è affidata al caso. No! È un dono che il Signore ci consegna dicendoci: scopri chi sei, e datti da fare per realizzare il sogno che è la tua vita! Ciascuno di noi – non dimentichiamolo – è una missione da realizzare. Allora, non abbiamo paura di chiedere al Signore: che cosa devo fare? Ripetiamogli spesso questa domanda. Essa ritorna anche nella Bibbia: negli Atti degli Apostoli alcune persone, ascoltando Pietro che annunciava la risurrezione di Gesù, «si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare?”»(2,37). Chiediamocelo anche noi: che cosa è bene fare per me e per i fratelli? Come posso contribuire al bene della Chiesa, al bene della società? Il Tempo di Avvento serve a questo: a fermarsi e chiedersi come preparare il Natale. Siamo indaffarati da tanti preparativi, regali e cose che passano, ma chiediamoci che cosa fare per Gesù e per gli altri! Che cosa dobbiamo fare?

Alla domanda “che cosa dobbiamo fare?”, nel Vangelo seguono le risposte di Giovanni Battista, che sono diverse per ogni gruppo. Giovanni, infatti, raccomanda a chi ha due tuniche di condividere con chi non ne ha; ai pubblicani, che riscuotono le tasse, dice: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato» (Lc 3,13); e ai soldati: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno» (v. 14). A ciascuno è rivolta una parola specifica, che riguarda la situazione reale della sua vita. Questo ci offre un insegnamento prezioso: la fede si incarna nella vita concreta. Non è una teoria astratta. La fede non è una teoria astratta, una teoria generalizzata, no, la fede tocca la carne e trasforma la vita di ciascuno. Pensiamo alla concretezza della nostra fede. Io, la mia fede: è una cosa astratta o è concreta? La porto avanti nel servizio agli altri, nell’aiuto?

E allora, in conclusione, chiediamoci: che cosa posso fare concretamente? In questi giorni, mentre siamo vicini al Natale. Come posso fare la mia parte? Prendiamo un impegno concreto, anche piccolo, che si adatti alla nostra situazione di vita, e portiamolo avanti per prepararci a questo Natale. Ad esempio: posso telefonare a quella persona sola, visitare quell’anziano o quel malato, fare qualcosa per servire un povero, un bisognoso. Ancora: forse ho un perdono da chiedere o un perdono da dare, una situazione da chiarire, un debito da saldare. Magari ho trascurato la preghiera e dopo tanto tempo è ora di accostarmi al perdono del Signore. Fratelli e sorelle, troviamo una cosa concreta e facciamola! Ci aiuti la Madonna, nel cui grembo Dio si è fatto carne.

SOLENNITÀ DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE
DELLA BEATA VERGINE MARIA

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Mercoledì, 8 dicembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di oggi, Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, ci fa entrare nella sua casa di Nazaret, dove riceve l’annuncio dell’angelo (cfr Lc 1,26-38). Tra le mura di casa una persona si rivela meglio che altrove. E proprio in quella intimità domestica il Vangelo ci dona un particolare, che rivela la bellezza del cuore di Maria.

L’angelo la chiama «piena di grazia». Se è piena di grazia, vuol dire che la Madonna è vuota di male, è senza peccato, Immacolata. Ora, a questo saluto Maria – dice il testo – rimane «molto turbata» (Lc 1,29). Non è solo sorpresa, ma turbata. Ricevere grandi saluti, onori e complimenti a volte rischia di suscitare vanto e presunzione. Ricordiamo che Gesù non è tenero con chi va alla ricerca dei saluti nelle piazze, dell’adulazione, della visibilità (cfr Lc 20,46). Maria invece non si esalta, ma si turba; anziché provare piacere, prova stupore. Il saluto dell’angelo le sembra più grande di lei. Perché? Perché si sente piccola dentro, e questa piccolezza, questa umiltà attira lo sguardo di Dio.

Tra le mura della casa di Nazaret vediamo così un tratto meraviglioso. Com’è il cuore di Maria? Ricevuto il più alto dei complimenti, si turba perché sente rivolto a sé quanto non attribuiva a sé stessa. Maria, infatti, non si attribuisce prerogative, non rivendica qualcosa, non ascrive nulla a suo merito. Non si autocompiace, non si esalta. Perché nella sua umiltà sa di ricevere tutto da Dio. È dunque libera da sé stessa, tutta rivolta a Dio e agli altri. Maria Immacolata non ha occhi per sé. Ecco l’umiltà vera: non avere occhi per sé, ma per Dio e per gli altri.

Ricordiamoci che questa perfezione di Maria, la piena di grazia, viene dichiarata dall’angelo tra le mura di casa sua: non nella piazza principale di Nazaret, ma lì, nel nascondimento, nella più grande umiltà. In quella casetta a Nazaret palpitava il cuore più grande che una creatura abbia mai avuto. Cari fratelli e sorelle, è una notizia straordinaria per noi! Perché ci dice che il Signore, per compiere meraviglie, non ha bisogno di grandi mezzi e delle nostre capacità eccelse, ma della nostra umiltà, del nostro sguardo aperto a Lui e anche aperto agli altri. Con quell’annuncio, tra le povere mura di una piccola casa, Dio ha cambiato la storia. Anche oggi desidera fare grandi cose con noi nella quotidianità: cioè in famiglia, al lavoro, negli ambienti di ogni giorno. Lì, più che nei grandi eventi della storia, la grazia di Dio ama operare. Ma, mi domando, ci crediamo? Oppure pensiamo che la santità sia un’utopia, qualcosa per gli addetti ai lavori, una pia illusione incompatibile con la vita ordinaria?

Chiediamo alla Madonna una grazia: che ci liberi dall’idea fuorviante che una cosa è il Vangelo e un’altra la vita; che ci accenda di entusiasmo per l’ideale della santità, che non è questione di santini e immaginette, ma di vivere ogni giorno quello che ci capita umili e gioiosi, come la Madonna, liberi da noi stessi, con gli occhi rivolti a Dio e al prossimo che incontriamo. Per favore, non perdiamoci di coraggio: a tutti il Signore ha dato una stoffa buona per tessere la santità nella vita quotidiana! E quando ci assale il dubbio di non farcela, o la tristezza di essere inadeguati, lasciamoci guardare dagli “occhi misericordiosi” della Madonna, perché nessuno che abbia chiesto il suo soccorso è stato mai abbandonato!

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 28 novembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di oggi, prima domenica di Avvento, cioè la prima domenica di preparazione al Natale, ci parla della venuta del Signore alla fine dei tempi. Gesù annuncia eventi desolanti e tribolazioni, ma proprio a questo punto ci invita a non avere paura. Perché? Perché andrà tutto bene? No, ma perché Egli verrà. Gesù tornerà, Gesù verrà, lo ha promesso. Dice così: «Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). È bello ascoltare questa Parola di incoraggiamento: risollevarci e alzare il capo perché proprio nei momenti in cui tutto sembra finito il Signore viene a salvarci; attenderlo con gioia anche nel cuore delle tribolazioni, nelle crisi della vita e nei drammi della storia. Attendere il Signore. Ma come si fa ad alzare il capo, a non farci assorbire dalle difficoltà, dalle sofferenze, dalle sconfitte? Gesù ci indica la via con un richiamo forte: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano […]. Vegliate in ogni momento pregando» (vv. 34.36).

“Vegliate”, la vigilanza. Fermiamoci su questo aspetto importante della vita cristiana. Dalle parole di Cristo vediamo che la vigilanza è legata all’attenzione: state attenti, vigilate, non distraetevi, cioè restate svegli! Vigilare significa questo: non permettere che il cuore si impigrisca e che la vita spirituale si ammorbidisca nella mediocrità. Fare attenzione perché si può essere “cristiani addormentati” – e noi sappiamo: ce ne sono tanti di cristiani addormentati, cristiani anestetizzati dalle mondanità spirituali – cristiani senza slancio spirituale, senza ardore nel pregare – pregano come dei pappagalli – senza entusiasmo per la missione, senza passione per il Vangelo. Cristiani che guardano sempre dentro, incapaci di guardare all’orizzonte. E questo porta a “sonnecchiare”: tirare avanti le cose per inerzia, a cadere nell’apatia, indifferenti a tutto tranne che a quello che ci fa comodo. E questa è una vita triste, andare avanti così… non c’è felicità lì.

Abbiamo bisogno di vigilare per non trascinare le giornate nell’abitudine, per non farci appesantire – dice Gesù – dagli affanni della vita (cfr v. 34). Gli affanni della vita ci appesantiscono. Oggi, dunque, è una buona occasione per chiederci: che cosa appesantisce il mio cuore? Che cosa appesantisce il mio spirito? Che cosa mi fa accomodare sulla poltrona della pigrizia? È triste vedere i cristiani “in poltrona”! Quali sono le mediocrità che mi paralizzano, i vizi, quali sono i vizi che mi schiacciano a terra e mi impediscono di alzare il capo? E riguardo ai pesi che gravano sulle spalle dei fratelli, sono attento o indifferente? Queste domande ci fanno bene, perché aiutano a custodire il cuore dall’accidia. Ma, padre, ci dica: cosa è l’accidia? È un grande nemico della vita spirituale, anche della vita cristiana. L’accidia è quella pigrizia che fa precipitare, scivolare nella tristezza, che toglie il gusto di vivere e la voglia di fare. È uno spirito negativo, è uno spirito cattivo che inchioda l’anima nel torpore, rubandole la gioia. Si incomincia con quella tristezza, si scivola, si scivola, e niente gioia. Il Libro dei Proverbi dice: «Custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita» (Pr 4,23). Custodire il cuore: questo significa vigilare, vegliare! Siate svegli, custodisci il tuo cuore.

E aggiungiamo un ingrediente essenziale: il segreto per essere vigilanti è la preghiera. Gesù infatti dice: «Vegliate in ogni momento pregando» (Lc 21,36). È la preghiera che tiene accesa la lampada del cuore. Specialmente quando sentiamo che l’entusiasmo si raffredda, la preghiera lo riaccende, perché ci riporta a Dio, al centro delle cose. La preghiera risveglia l’anima dal sonno e la focalizza su quello che conta, sul fine dell’esistenza. Anche nelle giornate più piene, non tralasciamo la preghiera. Adesso stavo vedendo, nel programma “A sua immagine”, una bella riflessione sulla preghiera: ci aiuterà, guardarla ci farà bene. Può esserci di aiuto la preghiera del cuore, ripetere spesso brevi invocazioni. In Avvento, abituarci a dire, ad esempio: “Vieni, Signore Gesù”. Soltanto questo, ma dirlo: “Vieni, Signore Gesù”. Questo tempo di preparazione al Natale è bello: pensiamo al presepio, pensiamo al Natale, e diciamo dal cuore: “Vieni, Signore Gesù, vieni”.  Ripetiamo questa preghiera lungo tutta la giornata, e l’animo resterà vigile! “Vieni, Signore Gesù”: è una preghiera che possiamo dire tre volte, tutti insieme. “Vieni, Signore Gesù”, “Vieni, Signore Gesù”, “Vieni, Signore Gesù”.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 21 novembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di oggi, ultima domenica dell’Anno Liturgico, culmina in un’affermazione di Gesù, che dice: «Io sono re» (Gv 18,37). Egli pronuncia queste parole davanti a Pilato, mentre la folla grida di condannarlo a morte. Lui dice: “Io sono re”, e la folla grida di condannarlo a morte: bel contrasto! È giunta l’ora cruciale. In precedenza, sembra che Gesù non volesse che la gente lo acclamasse come re: ricordiamo quella volta dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, quando si era ritirato da solo a pregare (cfr Gv 6,14-15).

Il fatto è che la regalità di Gesù è ben diversa da quella mondana. «Il mio regno – dice a Pilato – non è di questo mondo» (Gv 18,36). Egli non viene per dominare, ma per servire. Non arriva con i segni del potere, ma con il potere dei segni. Non è rivestito di insegne preziose, ma sta spoglio sulla croce. Ed è proprio nell’iscrizione posta sulla croce che Gesù viene definito “re” (cfr Gv 19,19). La sua regalità è davvero al di là dei parametri umani! Potremmo dire che non è re come gli altri, ma è Re per gli altri. Ripensiamo a questo: Cristo, davanti a Pilato, dice di essere re nel momento in cui la folla è contro di Lui, mentre quando lo seguiva e lo acclamava aveva preso le distanze da questa acclamazione. Gesù si dimostra, cioè, sovranamente libero dal desiderio della fama e della gloria terrena. E noi – chiediamoci – sappiamo imitarlo in questo? Sappiamo governare la nostra tendenza a essere continuamente cercati e approvati, oppure facciamo tutto per essere stimati da parte degli altri? In quello che facciamo, in particolare nel nostro impegno cristiano, mi domando: cosa conta? Contano gli applausi o conta il servizio?

Gesù non soltanto rifugge da ogni ricerca di grandezza terrena, ma rende anche libero e sovrano il cuore di chi lo segue. Egli, cari fratelli e sorelle, ci libera dalla sudditanza del male. Il suo Regno è liberante, non ha nulla di opprimente. Egli tratta ogni discepolo da amico, non da suddito. Cristo, pur essendo al di sopra di tutti i sovrani, non traccia linee di separazione tra sé e gli altri; desidera invece fratelli con cui condividere la sua gioia (cfr Gv 15,11). Seguendolo non si perde, non si perde nulla, ma si acquista dignità. Perché Cristo non vuole attorno a sé servilismo, ma gente libera. E – chiediamoci ora – da dove nasce la libertà di Gesù? Lo scopriamo tornando alla sua affermazione di fronte a Pilato: «Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37).

La libertà di Gesù viene dalla verità. È la sua verità che ci fa liberi (cfr Gv 8,32). Ma la verità di Gesù non è un’idea, qualcosa di astratto: la verità di Gesù è una realtà, è Lui stesso che fa la verità dentro di noi, ci libera dalle finzioni, dalle falsità che abbiamo dentro, dal doppio linguaggio. Stando con Gesù, diventiamo veri. La vita del cristiano non è una recita dove si può indossare la maschera che più conviene. Perché quando Gesù regna nel cuore, lo libera dall’ipocrisia, lo libera dai sotterfugi, dalle doppiezze. La miglior prova che Cristo è il nostro re è il distacco da ciò che inquina la vita, rendendola ambigua, opaca, triste. Quando la vita è ambigua, un po’ di qua, un po’ di là, è triste, è molto triste. Certo, con i limiti e i difetti dobbiamo sempre fare i conti: tutti siamo peccatori. Ma, quando si vive sotto la signoria di Gesù, non si diventa corrotti, non si diventa falsi, inclini a coprire la verità. Non si fa doppia vita. Ricordate bene: peccatori sì, siamo tutti, corrotti, mai! Peccatori sì, corrotti mai. Ci aiuti la Madonna a cercare ogni giorno la verità di Gesù, Re dell’Universo, che ci libera dalle schiavitù terrene e ci insegna a governare i nostri vizi.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 14 novembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il brano evangelico della liturgia di oggi si apre con una frase di Gesù che lascia sbigottiti: «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo» (Mc 13,24-25). Ma come, anche il Signore si mette a fare catastrofismo? No, certamente non è questa la sua intenzione. Egli vuole farci capire che tutto in questo mondo, prima o poi, passa. Anche il sole, la luna e le stelle che formano il “firmamento” – parola che indica “fermezza”, “stabilità” – sono destinati a passare.

Alla fine, però, Gesù dice che cosa non crolla: «Il cielo e la terra passeranno – dice –, ma le mie parole non passeranno» (v. 31). Le parole del Signore non passano. Egli stabilisce una distinzione tra le cose penultime, che passano, e le cose ultime, che restano. È un messaggio per noi, per orientarci nelle nostre scelte importanti della vita, per orientarci su che cosa conviene investire la vita. Su ciò che è transitorio o sulle parole del Signore, che rimangono per sempre? Evidentemente su queste. Ma non è facile. Infatti, le cose che cadono sotto i nostri sensi e ci danno subito soddisfazione ci attirano, mentre le parole del Signore, pur belle, vanno oltre l’immediato e richiedono pazienza. Siamo tentati di aggrapparci a quello che vediamo e tocchiamo e ci sembra più sicuro. È umano, la tentazione è quella. Ma è un inganno, perché «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». Ecco dunque l’invito: non costruire la vita sulla sabbia. Quando si costruisce una casa, si scava in profondità e si mettono solide fondamenta. Solo uno sprovveduto direbbe che sono soldi buttati via per qualcosa che non si vede. Il discepolo fedele, per Gesù, è colui che fonda la vita sulla roccia, che è la sua Parola che non passa (cfr Mt 7,24-27), sulla fermezza della parola di Gesù: questo è il fondamento della vita che Gesù vuole da noi, e che non passerà.

E ora la domanda – sempre, quando si legge la Parola di Dio, si fanno delle domande –, chiediamoci: qual è il centro, qual è il cuore pulsante della Parola di Dio? Che cosa, insomma, dà solidità alla vita e non avrà mai fine? Ce lo dice San Paolo. Il centro, proprio, il cuore pulsante, quello che dà solidità, è la carità: «La carità non avrà mai fine» (1 Cor 13,8), dice San Paolo, cioè l’amore. Chi fa il bene investe per l’eternità. Quando vediamo una persona generosa e servizievole, mite, paziente, che non è invidiosa, non chiacchiera, non si vanta, non si gonfia di orgoglio, non manca di rispetto (cfr 1 Cor 13,4-7), questa è una persona che costruisce il Cielo in terra. Magari non avrà visibilità, non farà carriera, non farà notizia sui giornali, eppure quello che fa non andrà perduto. Perché il bene non va mai perduto, il bene rimane per sempre.

E noi, fratelli e sorelle, domandiamoci: in che cosa stiamo investendo la vita? Su cose che passano, come il denaro, il successo, l’apparenza, il benessere fisico? Di queste cose, noi non porteremo nulla. Siamo attaccati alle cose terrene, come se dovessimo vivere qui per sempre? Mentre siamo giovani, in salute, va bene tutto, ma quando arriva l’ora del congedo dobbiamo lasciare tutto. La Parola di Dio oggi ci avverte: passa la scena di questo mondo. E rimarrà soltanto l’amore. Fondare la vita sulla Parola di Dio, dunque, non è evadere dalla storia, è immergersi nelle realtà terrene per renderle salde, per trasformarle con l’amore, imprimendovi il segno dell’eternità, il segno di Dio. Ecco allora un consiglio per prendere le scelte importanti. Quando io non so cosa fare, come prendere una scelta definitiva, una scelta importante, una scelta che comporta l’amore di Gesù, cosa devo fare? Prima di decidere, immaginiamo di stare davanti a Gesù, come alla fine della vita, davanti a Lui che è amore. E pensandoci lì, al suo cospetto, alla soglia dell’eternità, prendiamo la decisione per l’oggi. Così dobbiamo decidere: sempre guardando l’eternità, guardando Gesù. Non sarà forse la più facile, non sarà forse la più immediata, ma sarà quella buona, quello è sicuro (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 187).

La Madonna ci aiuti a compiere le scelte importanti della vita come ha fatto lei: secondo l’amore, secondo Dio.

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 7 novembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La scena descritta dal Vangelo della Liturgia odierna si svolge all’interno del Tempio di Gerusalemme. Gesù guarda, guarda ciò che succede in questo luogo, il più sacro di tutti, e vede come gli scribi amino passeggiare per essere notati, salutati, riveriti, e per avere posti d’onore. E Gesù aggiunge che «divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere» (Mc 12,40). Nello stesso tempo, i suoi occhi scorgono un’altra scena: una povera vedova, proprio una di quelle sfruttate dai potenti, getta nel tesoro del Tempio «tutto quanto aveva per vivere» (v. 44). Così dice il Vangelo, getta nel tesoro tutto quanto aveva per vivere. Il Vangelo ci mette davanti questo stridente contrasto: i ricchi, che danno il superfluo per farsi vedere, e una povera donna che, senza apparire, offre tutto il poco che ha. Due simboli di atteggiamenti umani.

Gesù guarda le due scene. Ed è proprio questo verbo – “guardare” – che riassume il suo insegnamento: da chi vive la fede con doppiezza, come quegli scribi, “dobbiamo guardarci” per non diventare come loro; mentre la vedova dobbiamo “guardarla” per prenderla come modello. Soffermiamoci su questo: guardarsi dagli ipocriti e guardare alla povera vedova.

Anzitutto, guardarsi dagli ipocriti, cioè stare attenti a non basare la vita sul culto dell’apparenza, dell’esteriorità, sulla cura esagerata della propria immagine. E, soprattutto, stare attenti a non piegare la fede ai nostri interessi. Quegli scribi coprivano, con il nome di Dio, la propria vanagloria e, ancora peggio, usavano la religione per curare i loro affari, abusando della loro autorità e sfruttando i poveri. Qui vediamo quell’atteggiamento così brutto che anche oggi vediamo in tanti posti, in tanti luoghi, il clericalismo, questo essere sopra gli umili, sfruttarli, “bastonarli”, sentirsi perfetti. Questo è il male del clericalismo. È un monito per ogni tempo e per tutti, Chiesa e società: mai approfittare del proprio ruolo per schiacciare gli altri, mai guadagnare sulla pelle dei più deboli! E vigilare, per non cadere nella vanità, perché non ci succeda di fissarci sulle apparenze, perdendo la sostanza e vivendo nella superficialità. Chiediamoci, ci aiuterà: in quello che diciamo e facciamo, desideriamo essere apprezzati e gratificati oppure rendere un servizio a Dio e al prossimo, specialmente ai più deboli? Vigiliamo sulle falsità del cuore, sull’ipocrisia, che è una pericolosa malattia dell’anima! È un pensare doppio, un giudicare doppio, come dice la stessa parola: “giudicare sotto”, apparire in un modo e “ipo”, sotto, avere un altro pensiero. Doppi, gente con l’anima doppia, doppiezza dell’anima.

E per guarire da questa malattia, Gesù ci invita a guardare alla povera vedova. Il Signore denuncia lo sfruttamento verso questa donna che, per fare l’offerta, deve tornare a casa priva persino del poco che ha per vivere. Quanto è importante liberare il sacro dai legami con il denaro! Già Gesù lo aveva detto, in un altro posto: non si può servire due padroni. O tu servi Dio – e noi pensiamo che dica “o il diavolo”, no – o Dio o il denaro. È un padrone, e Gesù dice che non dobbiamo servirlo. Ma, allo stesso tempo, Gesù loda il fatto che questa vedova getta nel tesoro tutto ciò che ha. Non le rimane niente, ma trova in Dio il suo tutto. Non teme di perdere il poco che ha, perché ha fiducia nel tanto di Dio, e questo tanto di Dio moltiplica la gioia di chi dona. Questo ci fa pensare anche a quell’altra vedova, quella del profeta Elia, che stava per fare una focaccia con l’ultima farina che aveva e l’ultimo olio; Elia le dice: “Dammi da mangiare” e lei dà; e la farina non diminuirà mai, un miracolo (cfr 1 Re 17,9-16). Il Signore sempre, davanti alla generosità della gente, va oltre, è più generoso. Ma è Lui, non l’avarizia nostra. Ecco allora che Gesù la propone come maestra di fede, questa signora: lei non frequenta il Tempio per mettersi la coscienza a posto, non prega per farsi vedere, non ostenta la fede, ma dona con il cuore, con generosità e gratuità. Le sue monetine hanno un suono più bello delle grandi offerte dei ricchi, perché esprimono una vita dedita a Dio con sincerità, una fede che non vive di apparenze ma di fiducia incondizionata. Impariamo da lei: una fede senza orpelli esteriori, ma interiormente sincera; una fede fatta di amore umile per Dio e per i fratelli.

E ora ci rivolgiamo alla Vergine Maria, che con cuore umile e trasparente ha fatto di tutta la sua vita un dono per Dio e per il suo popolo.

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Lunedì, 1 novembre 2021

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi celebriamo Tutti i Santi e nella Liturgia risuona il messaggio “programmatico” di Gesù cioè le Beatitudini (cfr Mt 5,1-12a). Esse ci mostrano la strada che conduce al Regno di Dio e alla felicità: la strada dell’umiltà, della compassione, della mitezza, della giustizia e della pace. Essere santi è camminare su questa strada. Soffermiamoci ora su due aspetti di questo stile di vita. Due aspetti che sono proprio di questo stile di vita di santità: la gioia e la profezia.

La gioia. Gesù comincia con la parola «Beati» (Mt 5,3). È l’annuncio principale, quello di una felicità inaudita. La beatitudine, la santità non è un programma di vita fatto solo di sforzi e rinunce, ma è anzitutto la gioiosa scoperta di essere figli amati da Dio. E questo ti riempie di gioia. Non è una conquista umana, è un dono che riceviamo: siamo santi perché Dio, che è il Santo, viene ad abitare la nostra vita. È Lui che dà la santità a noi. Per questo siamo beati! La gioia del cristiano, allora, non è l’emozione di un istante o un semplice ottimismo umano, ma la certezza di poter affrontare ogni situazione sotto lo sguardo amoroso di Dio, con il coraggio e la forza che provengono da Lui. I Santi, anche tra molte tribolazioni, hanno vissuto questa gioia e l’hanno testimoniata. Senza gioia, la fede diventa un esercizio rigoroso e opprimente, e rischia di ammalarsi di tristezza. Prendiamo questa parola: ammalarsi di tristezza. Un Padre del deserto diceva che la tristezza è «un verme del cuore», che corrode la vita (cfr Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità, XI). Interroghiamoci su questo: siamo cristiani gioiosi? Io, sono un cristiano gioioso o non lo sono? Diffondiamo gioia o siamo persone spente, tristi, con la faccia da funerale? Ricordiamoci che non c’è santità senza gioia!

Il secondo aspetto: la profezia. Le Beatitudini sono rivolte ai poveri, agli afflitti, agli affamati di giustizia. È un messaggio contro-corrente. Il mondo infatti dice che per avere la felicità devi essere ricco, potente, sempre giovane e forte, godere di fama e di successo. Gesù rovescia questi criteri e fa un annuncio profetico – e questa è la dimensione profetica della santità –: la vera pienezza di vita si raggiunge seguendo Gesù, praticando la sua Parola. E questo significa un’altra povertà, cioè essere poveri dentro, svuotarsi di sé stessi per fare spazio a Dio. Chi si crede ricco, vincente e sicuro, fonda tutto su di sé e si chiude a Dio e ai fratelli, mentre chi sa di essere povero e di non bastare a sé stesso rimane aperto a Dio e al prossimo. E trova la gioia. Le Beatitudini, allora, sono la profezia di un’umanità nuova, di un modo nuovo di vivere: farsi piccoli e affidarsi a Dio, invece di emergere sugli altri; essere miti, invece che cercare di imporsi; praticare la misericordia, anziché pensare solo a sé stessi; impegnarsi per la giustizia e la pace, invece che alimentare, anche con la connivenza, ingiustizie e disuguaglianze. La santità è accogliere e mettere in pratica, con l’aiuto di Dio, questa profezia che rivoluziona il mondo. Allora possiamo chiederci: io testimonio la profezia di Gesù? Esprimo lo spirito profetico che ho ricevuto nel Battesimo? O mi adeguo alle comodità della vita e alla mia pigrizia, pensando che tutto vada bene se va bene a me? Porto nel mondo la novità gioiosa della profezia di Gesù o le solite lamentele per quello che non va? Domande che ci farà bene farci.

La Vergine Santa ci doni qualcosa del suo animo, quell’animo beato che ha magnificato con gioia il Signore, che “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili” (cfr Lc 1,52).

CELEBRAZIONE DELL’EUCARISTIA
PER L'APERTURA DEL SINODO SULLA SINODALITÀ

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Pietro
Domenica, 10 ottobre 2021

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Un tale, un uomo ricco, va incontro a Gesù mentre Egli «andava per la strada» (Mc 10,17). Molte volte i Vangeli ci presentano Gesù “sulla strada”, mentre si affianca al cammino dell’uomo e si pone in ascolto delle domande che abitano e agitano il suo cuore. Così, Egli ci svela che Dio non alberga in luoghi asettici, in luoghi tranquilli, distanti dalla realtà, ma cammina con noi e ci raggiunge là dove siamo, sulle strade a volte dissestate della vita. E oggi, aprendo questo percorso sinodale, iniziamo con il chiederci tutti – Papa, vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi, sorelle e fratelli laici –: noi, comunità cristiana, incarniamo lo stile di Dio, che cammina nella storia e condivide le vicende dell’umanità? Siamo disposti all’avventura del cammino o, timorosi delle incognite, preferiamo rifugiarci nelle scuse del “non serve” o del “si è sempre fatto così”?

Fare Sinodo significa camminare sulla stessa strada, camminare insieme. Guardiamo a Gesù, che sulla strada dapprima incontra l’uomo ricco, poi ascolta le sue domande e infine lo aiuta a discernere che cosa fare per avere la vita eterna. Incontrare, ascoltare, discernere: tre verbi del Sinodo su cui vorrei soffermarmi.

Incontrare. Il Vangelo si apre narrando un incontro. Un uomo va incontro a Gesù, si inginocchia davanti a Lui, ponendogli una domanda decisiva: «Maestro buono, cosa devo fare per avere la vita eterna?» (v. 17). Una domanda così importante esige attenzione, tempo, disponibilità a incontrare l’altro e a lasciarsi interpellare dalla sua inquietudine. Il Signore, infatti, non è distaccato, non si mostra infastidito o disturbato, anzi, si ferma con lui. È disponibile all’incontro. Niente lo lascia indifferente, tutto lo appassiona. Incontrare i volti, incrociare gli sguardi, condividere la storia di ciascuno: ecco la vicinanza di Gesù. Egli sa che un incontro può cambiare la vita. E il Vangelo è costellato di incontri con Cristo che risollevano e guariscono. Gesù non andava di fretta, non guardava l’orologio per finire presto l’incontro. Era sempre al servizio della persona che incontrava, per ascoltarla.

Anche noi, che iniziamo questo cammino, siamo chiamati a diventare esperti nell’arte dell’incontro. Non nell’organizzare eventi o nel fare una riflessione teorica sui problemi, ma anzitutto nel prenderci un tempo per incontrare il Signore e favorire l’incontro tra di noi. Un tempo per dare spazio alla preghiera, all’adorazione – questa preghiera che noi trascuriamo tanto: adorare, dare spazio all’adorazione –, a quello che lo Spirito vuole dire alla Chiesa; per rivolgersi al volto e alla parola dell’altro, incontrarci a tu per tu, lasciarci toccare dalle domande delle sorelle e dei fratelli, aiutarci affinché la diversità di carismi, vocazioni e ministeri ci arricchisca. Ogni incontro – lo sappiamo – richiede apertura, coraggio, disponibilità a lasciarsi interpellare dal volto e dalla storia dell’altro. Mentre talvolta preferiamo ripararci in rapporti formali o indossare maschere di circostanza – lo spirito clericale e di corte: sono più monsieur l’abbé che padre –, l’incontro ci cambia e spesso ci suggerisce vie nuove che non pensavamo di percorrere. Oggi, dopo l’Angelus, riceverò un bel gruppo di persone di strada, che semplicemente si sono radunate perché c’è un gruppo di gente che va ad ascoltarle, soltanto ad ascoltarle. E dall’ascolto sono riusciti a incominciare a camminare. L’ascolto. Tante volte è proprio così che Dio ci indica le strade da seguire, facendoci uscire dalle nostre abitudini stanche. Tutto cambia quando siamo capaci di incontri veri con Lui e tra di noi. Senza formalismi, senza infingimenti, senza trucco.

Secondo verbo: ascoltare. Un vero incontro nasce solo dall’ascolto. Gesù infatti si pone in ascolto della domanda di quell’uomo e della sua inquietudine religiosa ed esistenziale. Non dà una risposta di rito, non offre una soluzione preconfezionata, non fa finta di rispondere con gentilezza solo per sbarazzarsene e continuare per la sua strada. Semplicemente lo ascolta. Tutto il tempo che sia necessario, lo ascolta, senza fretta. E – la cosa più importante – non ha paura, Gesù, di ascoltarlo con il cuore e non solo con le orecchie. Infatti, la sua risposta non si limita a riscontrare la domanda, ma permette all’uomo ricco di raccontare la propria storia, di parlare di sé con libertà. Cristo gli ricorda i comandamenti, e lui inizia a parlare della sua infanzia, a condividere il suo percorso religioso, il modo in cui si è sforzato di cercare Dio. Quando ascoltiamo con il cuore succede questo: l’altro si sente accolto, non giudicato, libero di narrare il proprio vissuto e il proprio percorso spirituale.

Chiediamoci, con sincerità, in questo itinerario sinodale: come stiamo con l’ascolto? Come va “l’udito” del nostro cuore? Permettiamo alle persone di esprimersi, di camminare nella fede anche se hanno percorsi di vita difficili, di contribuire alla vita della comunità senza essere ostacolate, rifiutate o giudicate? Fare Sinodo è porsi sulla stessa via del Verbo fatto uomo: è seguire le sue tracce, ascoltando la sua Parola insieme alle parole degli altri. È scoprire con stupore che lo Spirito Santo soffia in modo sempre sorprendente, per suggerire percorsi e linguaggi nuovi. È un esercizio lento, forse faticoso, per imparare ad ascoltarci a vicenda – vescovi, preti, religiosi e laici, tutti, tutti i battezzati – evitando risposte artificiali e superficiali, risposte prêt-à-porter, no. Lo Spirito ci chiede di metterci in ascolto delle domande, degli affanni, delle speranze di ogni Chiesa, di ogni popolo e nazione. E anche in ascolto del mondo, delle sfide e dei cambiamenti che ci mette davanti. Non insonorizziamo il cuore, non blindiamoci dentro le nostre certezze. Le certezze tante volte ci chiudono. Ascoltiamoci.

Infine, discernere. L’incontro e l’ascolto reciproco non sono qualcosa di fine a sé stesso, che lascia le cose come stanno. Al contrario, quando entriamo in dialogo, ci mettiamo in discussione, in cammino, e alla fine non siamo gli stessi di prima, siamo cambiati. Il Vangelo oggi ce lo mostra. Gesù intuisce che l’uomo che ha di fronte è buono e religioso e pratica i comandamenti, ma vuole condurlo oltre la semplice osservanza dei precetti. Nel dialogo, lo aiuta a discernere. Gli propone di guardarsi dentro, alla luce dell’amore con cui Egli stesso, fissandolo, lo ama (cfr v. 21), e di discernere in questa luce a che cosa il suo cuore è davvero attaccato. Per poi scoprire che il suo bene non è aggiungere altri atti religiosi, ma, al contrario, svuotarsi di sé: vendere ciò che occupa il suo cuore per fare spazio a Dio.

È una preziosa indicazione anche per noi. Il Sinodo è un cammino di discernimento spirituale, di discernimento ecclesiale, che si fa nell’adorazione, nella preghiera, a contatto con la Parola di Dio. E la seconda Lettura proprio oggi ci dice che la Parola di Dio «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La Parola ci apre al discernimento e lo illumina. Essa orienta il Sinodo perché non sia una “convention” ecclesiale, un convegno di studi o un congresso politico, perché non sia un parlamento, ma un evento di grazia, un processo di guarigione condotto dallo Spirito. In questi giorni Gesù ci chiama, come fece con l’uomo ricco del Vangelo, a svuotarci, a liberarci di ciò che è mondano, e anche delle nostre chiusure e dei nostri modelli pastorali ripetitivi; a interrogarci su cosa ci vuole dire Dio in questo tempo e verso quale direzione vuole condurci.

Cari fratelli e sorelle, buon cammino insieme! Che possiamo essere pellegrini innamorati del Vangelo, aperti alle sorprese dello Spirito Santo. Non perdiamo le occasioni di grazia dell’incontro, dell’ascolto reciproco, del discernimento. Con la gioia di sapere che, mentre cerchiamo il Signore, è Lui per primo a venirci incontro con il suo amore.

MOMENTO DI RIFLESSIONE PER L’INIZIO DEL PERCORSO SINODALE

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Aula Nuova del Sinodo
Sabato, 9 ottobre 2021

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Cari fratelli e sorelle,

grazie per essere qui, all’apertura del Sinodo. Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità. Ribadisco che il Sinodo non è un parlamento, che il Sinodo non è un’indagine sulle opinioni; il Sinodo è un momento ecclesiale, e il protagonista del Sinodo è lo Spirito Santo. Se non c’è lo Spirito, non ci sarà Sinodo.

Viviamo questo Sinodo nello spirito della preghiera che Gesù ha rivolto accoratamente al Padre per i suoi: «Perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). A questo siamo chiamati: all’unità, alla comunione, alla fraternità che nasce dal sentirci abbracciati dall’unico amore di Dio. Tutti, senza distinzioni, e noi Pastori in particolare, come scriveva San Cipriano: «Dobbiamo mantenere e rivendicare con fermezza quest’unità, soprattutto noi Vescovi che presidiamo nella Chiesa, per dar prova che anche lo stesso episcopato è uno solo e indiviso» (De Ecclesiae Catholicae Unitate, 5). Nell’unico Popolo di Dio, perciò, camminiamo insieme, per fare l’esperienza di una Chiesa che riceve e vive il dono dell’unità e si apre alla voce dello Spirito.

Le parole-chiave del Sinodo sono tre: comunione, partecipazione, missione. Comunione e missione sono espressioni teologiche che designano il mistero della Chiesa e di cui è bene fare memoria. Il Concilio Vaticano II ha chiarito che la comunione esprime la natura stessa della Chiesa e, allo stesso tempo, ha affermato che la Chiesa ha ricevuto «la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio» (Lumen gentium, 5). Due parole attraverso cui la Chiesa contempla e imita la vita della Santissima Trinità, mistero di comunione ad intra e sorgente di missione ad extra. Dopo un tempo di riflessioni dottrinali, teologiche e pastorali che caratterizzarono la ricezione del Vaticano II, San Paolo VI volle condensare proprio in queste due parole – comunione e missione – «le linee maestre, enunciate dal Concilio». Commemorandone l’apertura, affermò infatti che le linee generali erano state «la comunione, cioè la coesione e la pienezza interiore, nella grazia, nella verità, nella collaborazione […] e la missione, cioè l’impegno apostolico verso il mondo contemporaneo» (Angelus, 11 ottobre 1970), che non è proselitismo.

Chiudendo il Sinodo del 1985, a vent’anni dalla conclusione dell’assise conciliare, anche San Giovanni Paolo II volle ribadire che la natura della Chiesa è la koinonia: da essa scaturisce la missione di essere segno di intima unione della famiglia umana con Dio. E aggiungeva: «Conviene sommamente che nella Chiesa si celebrino Sinodi ordinari e, all’occorrenza, anche straordinari» i quali, per portare frutto, devono essere ben preparati: «occorre cioè che nelle Chiese locali si lavori alla loro preparazione con partecipazione di tutti» (Discorso a conclusione della II Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, 7 dicembre 1985). Ecco dunque la terza parola, partecipazione. Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità in ogni passo del cammino e dell’operare, promuovendo il reale coinvolgimento di tutti e di ciascuno. Vorrei dire che celebrare un Sinodo è sempre bello e importante, ma è veramente proficuo se diventa espressione viva dell’essere Chiesa, di un agire caratterizzato da una partecipazione vera.

E questo non per esigenze di stile, ma di fede. La partecipazione è un’esigenza della fede battesimale. Come afferma l’Apostolo Paolo, «noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,13). Il punto di partenza, nel corpo ecclesiale, è questo e nessun altro: il Battesimo. Da esso, nostra sorgente di vita, deriva l’uguale dignità dei figli di Dio, pur nella differenza di ministeri e carismi. Per questo, tutti sono chiamati a partecipare alla vita della Chiesa e alla sua missione. Se manca una reale partecipazione di tutto il Popolo di Dio, i discorsi sulla comunione rischiano di restare pie intenzioni. Su questo aspetto abbiamo fatto dei passi in avanti, ma si fa ancora una certa fatica e siamo costretti a registrare il disagio e la sofferenza di tanti operatori pastorali, degli organismi di partecipazione delle diocesi e delle parrocchie, delle donne che spesso sono ancora ai margini. Partecipare tutti: è un impegno ecclesiale irrinunciabile! Tutti battezzati, questa è la carta d’identità: il Battesimo.

Il Sinodo, proprio mentre ci offre una grande opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria e anche ecumenica, non è esente da alcuni rischi. Ne cito tre. Il primo è quello del formalismo. Si può ridurre un Sinodo a un evento straordinario, ma di facciata, proprio come se si restasse a guardare una bella facciata di una chiesa senza mai mettervi piede dentro. Invece il Sinodo è un percorso di effettivo discernimento spirituale, che non intraprendiamo per dare una bella immagine di noi stessi, ma per meglio collaborare all’opera di Dio nella storia. Dunque, se parliamo di una Chiesa sinodale non possiamo accontentarci della forma, ma abbiamo anche bisogno di sostanza, di strumenti e strutture che favoriscano il dialogo e l’interazione nel Popolo di Dio, soprattutto tra sacerdoti e laici. Perché sottolineo questo? Perché a volte c’è qualche elitismo nell’ordine presbiterale che lo fa staccare dai laici; e il prete diventa alla fine il “padrone della baracca” e non il pastore di tutta una Chiesa che sta andando avanti. Ciò richiede di trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via.

Un secondo rischio è quello dell’intellettualismo – l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte –: far diventare il Sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo; una sorta di “parlarci addosso”, dove si procede in modo superficiale e mondano, finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo.

Infine, ci può essere la tentazione dell’immobilismo: siccome «si è sempre fatto così» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 33) – questa parola è un veleno nella vita della Chiesa, “si è sempre fatto così” –, è meglio non cambiare. Chi si muove in questo orizzonte, anche senza accorgersene, cade nell’errore di non prendere sul serio il tempo che abitiamo. Il rischio è che alla fine si adottino soluzioni vecchie per problemi nuovi: un rattoppo di stoffa grezza, che alla fine crea uno strappo peggiore (cfr Mt 9,16). Per questo è importante che il Sinodo sia veramente tale, un processo in divenire; coinvolga, in fasi diverse e a partire dal basso, le Chiese locali, in un lavoro appassionato e incarnato, che imprima uno stile di comunione e partecipazione improntato alla missione.

Viviamo dunque questa occasione di incontro, ascolto e riflessione come un tempo di grazia, fratelli e sorelle, un tempo di grazia che, nella gioia del Vangelo, ci permetta di cogliere almeno tre opportunità. La prima è quella di incamminarci non occasionalmente ma strutturalmente verso una Chiesa sinodale: un luogo aperto, dove tutti si sentano a casa e possano partecipare. Il Sinodo ci offre poi l’opportunità di diventare Chiesa dell’ascolto: di prenderci una pausa dai nostri ritmi, di arrestare le nostre ansie pastorali per fermarci ad ascoltare. Ascoltare lo Spirito nell’adorazione e nella preghiera. Quanto ci manca oggi la preghiera di adorazione! Tanti hanno perso non solo l’abitudine, anche la nozione di che cosa significa adorare. Ascoltare i fratelli e le sorelle sulle speranze e le crisi della fede nelle diverse zone del mondo, sulle urgenze di rinnovamento della vita pastorale, sui segnali che provengono dalle realtà locali. Infine, abbiamo l’opportunità di diventare una Chiesa della vicinanza. Torniamo sempre allo stile di Dio: lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Dio sempre ha operato così. Se noi non arriveremo a questa Chiesa della vicinanza con atteggiamenti di compassione e tenerezza, non saremo la Chiesa del Signore. E questo non solo a parole, ma con la presenza, così che si stabiliscano maggiori legami di amicizia con la società e il mondo: una Chiesa che non si separa dalla vita, ma si fa carico delle fragilità e delle povertà del nostro tempo, curando le ferite e risanando i cuori affranti con il balsamo di Dio. Non dimentichiamo lo stile di Dio che ci deve aiutare: vicinanza, compassione e tenerezza.

Cari fratelli e sorelle, sia questo Sinodo un tempo abitato dallo Spirito! Perché dello Spirito abbiamo bisogno, del respiro sempre nuovo di Dio, che libera da ogni chiusura, rianima ciò che è morto, scioglie le catene, diffonde la gioia. Lo Spirito Santo è Colui che ci guida dove Dio vuole e non dove ci porterebbero le nostre idee e i nostri gusti personali. Il padre Congar, di santa memoria, ricordava: «Non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa» (Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1994, 193). E questa è la sfida. Per una “Chiesa diversa”, aperta alla novità che Dio le vuole suggerire, invochiamo con più forza e frequenza lo Spirito e mettiamoci con umiltà in suo ascolto, camminando insieme, come Lui, creatore della comunione e della missione, desidera, cioè con docilità e coraggio.

Vieni, Spirito Santo. Tu che susciti lingue nuove e metti sulle labbra parole di vita, preservaci dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. Vieni tra noi, perché nell’esperienza sinodale non ci lasciamo sopraffare dal disincanto, non annacquiamo la profezia, non finiamo per ridurre tutto a discussioni sterili. Vieni, Spirito Santo d’amore, apri i nostri cuori all’ascolto. Vieni, Spirito di santità, rinnova il santo Popolo fedele di Dio. Vieni, Spirito creatore, fai nuova la faccia della terra. Amen.

 

 


 

 

 


 

 

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